La pietà a senso unico per Vittorio Emanuele III

Re Vittorio Emanuele IIIdi Paolo Vinella[1] per Marx21.it

uno tra i frutti avvelenati dell’alleanza, in chiave reazionaria ed antipopolare, 
tra borghesia e aristocrazia in Italia, maturati alla mala pianta del buonismo ipocrita

La traslazione dei resti di Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) dall’Egitto in Italia – a 70 anni dalla sua morte, ma anche dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana – impone una riflessione sul ruolo dei Savoia e del suo ultimo re all’interno della storia non solo italiana: fu re d’Italia (1900-46), imperatore d’Etiopia (1936-43), re d’Albania (1939-43) ed ebbe ruoli e responsabilità di primissimo piano nell’avvento del fascismo e nelle tragedie delle due guerre mondiali che condussero l’umanità intera fin sull’orlo dell’autodistruzione. 

Dal feudo della Contea di Moriana (intorno al 1032), nell’attuale Savoia oggi francese, alla fine della 2^ Guerra Mondiale, passando per l’unità d’Italia, la storia della casa Savoia è un rincorrersi di manovre, di guerre, di aggressioni a fini espansionistici, mascherate con il paravento dell’“interesse della patria”, di cui Vittorio Emanuele è stato un campione esemplare. 

Con il re di Sardegna Carlo Alberto (1798-1849) la storia di casa Savoia si intreccia a filo doppio con le vicende che portarono all’unità d’Italia, quando la borghesia del nord si alleò con l’antico nemico, l’aristocrazia feudale rappresentata da casa Savoia, nella fase successiva alla Rivoluzione Francese (1789) e alla “Primavera dei popoli” del 1848.

Con la Rivoluzione Francese, gli obiettivi della borghesia, sintetizzati nel motto accattivante “Liberté, fraternité, egalité”, vengono visti con favore dal “QuartoStato”, le masse popolari del tempo (servi delle gleba, altre figure di lavoratori sfruttati che negli ultimi tempi stavano prendendo il loro posto e nascente proletariato industriale ancora disorganizzato e privo di obiettivi propri) che li condivide facendosi carico della rivoluzione a guida borghese fino alla vittoria. Alla resa dei conti, però, le masse popolari (in primo luogo, il proletariato industriale) si rendono conto che alla borghesia interessa (e non poteva essere diversamente) impossessarsi del potere solo per realizzare e gestire i propri affari sulla pelle del “Quarto Stato”, senza alcuna intenzione di mantenere le promesse. A questo punto, il proletariato, grazie all’esperienza maturata e alla guida di personalità tra cui emergono Marx ed Engels (il Manifesto del Partito Comunista fu pubblicato proprio nel 1848) comincia a comprendere che bisogna fare affidamento innanzitutto sulle propria autonomia e sulle proprie enormi potenzialità. Cresce e si sviluppa la coscienza di classe, sicché, dopo alcuni episodi isolati, “scoppia il ‘48”: nonostante le difficoltà e i limiti dell’epoca, le masse popolari, questa volta in piena autonomia, si sollevano quasi in tutta Europa (la Russia zarista rimane fuori), nelle capitali d’Europa esplodono le sommosse popolari di massa, sulle barricate compare per la prima volta la bandiera rossa simbolo di lotta di classe e di volontà di emancipazione e liberazione. È la “Primavera dei Popoli”, così detta perché, nell’Europa delle grandi monarchie e degli imperi sovranazionali, spesso le aspirazioni patriottiche e le rivendicazioni nazionali si mescolano o addirittura offuscano le motivazioni di classe. 

Ciò nonostante, la “Primavera dei Popoli”, sia pure brutalmente repressa dopo l’esplosione iniziale, arricchisce di esperienze le masse popolari ed apre nuove prospettive alle rivendicazioni ed alle lotte. Non manca molto alla Comune di Parigi (1870) ed alle rivoluzioni russe, antefatto della Rivoluzione Bolscevica d’Ottobre che un secolo fa sconvolse il mondo. 

La borghesia, da parte sua, non fa in tempo a celebrare il proprio trionfo sulle vecchie classi dominanti e a raccogliere a piene mani i frutti magnifici della rivoluzione industriale, che già si accorge di avere di fronte un nemico potente e pericoloso, la nuova classe sociale, il proletariato che cresce, prende coscienza di sé, si organizza autonomamente. Presa dal panico, cerca di correre ai ripari prima che sia troppo tardi e non trova di meglio che allearsi, fino a fondersi, con il suo vecchio nemico, i resti dell’aristocrazia feudale.

In Italia, che il ‘48 trova divisa in stati e staterelli in perenne reciproco contrasto ed arretrata sullo stesso piano della rivoluzione borghese, la pavida borghesia nostrana non trova di meglio che allearsi con quella che appare come la punta più avanzata ed affidabile dell’aristocrazia, casa Savoia, nella figura del re di Sardegna, Carlo Alberto, che, sulla scia della Rivoluzione Siciliana del 1848 contro i Borbone e dietro la spinta delle rivolte contro l’occupazione austro-ungarica di Milano (Cinquegiornate) e di Venezia, con la prima Guerra d’Indipendenza (1848-49) contro l’Austria dà avvio concreto al processo che porterà, nel giro di un ventennio, all’unificazione nazionale con tutte le problematiche, le contraddizioni, le conseguenze che spesso, ancora oggi, ci trasciniamo appresso.

L’infame alleanza borghesia-aristocrazia non solo ebbe come conseguenza immediata l’esclusione dal processo unitario risorgimentale dell’ala più radicale, repubblicana e democratica, della borghesia risorgimentale, rappresentata da Mazzini e Garibaldi, ma ha improntato di sé, in chiave reazionaria e antipolare, la vita politica, sociale, economica, culturale italiana, dall’avvio del processo unitario fino alla caduta del fascismo e alla cacciata di casa Savoia, e anche oltre. È in questo quadro d’assieme che bisogna inserire la figura del nostro “re soldato”.

Terzo e penultimo re d’Italia, Vittorio Emanuele III era figlio primogenito di Umberto I, il “rebuono” responsabile e mandante, tra l’altro, nell’Italia di fine ‘800/inizio ‘900, del più efferato tra gli “eccidi proletari” (Milano, 1898) che represse nel sangue, con ferocia inaudita, la protesta popolare conclusa a cannonate caricate a mitraglia sulla folla inerme ed affamata che reclamava contro il raddoppio del prezzo del grano e del pane, spesso unico alimento, quando c’era, delle classi popolari. Secondo le stime più attendibili, i morti furono oltre 300. L’odio popolare spinse, due anni dopo (luglio 1900), l’anarchico Gaetano Bresci a “vendicare” la strage di Milano con tre colpi di rivoltella che tolsero la vita ad Umberto e traslocarono la corona di re d’Italia sul capo di Vittorio Emanuele. In sostanza non cambiò niente, morto un re, se ne fa un altro. 

Di Vittorio Emanuele III bisogna ricordare almeno le gesta più ignobili:

Salito al trono, continuò con la politica antipopolare ed antioperaia dei suoi predecessori. Tristemente famosi gli “eccidi popolari”, soprattutto al Sud, sotto il fuoco dell’esercito e dei carabinieri sulle folle popolari che protestavano per le condizioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento. L’eccidio dei minatori di Buggerru (1904, 4 morti e decine di feriti), in Sardegna, portò al primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia.

Le imprese avventuristiche e le guerre spietate del “colonialismo straccione” italiano (citazione da Antonio Gramsci) lo videro propugnatore e protagonista convinto e gli valsero i titoli aggiuntivi di “imperatore d’Etiopia” e di “re d’Albania”.

Allo scoppio della 1^ Guerra mondiale, si schierò decisamente con gli interventisti, nonostante le proposte di trattativa del governo austriaco e l’opposizione decisa della maggioranza del popolo italiano e di un settore cospicuo della stessa borghesia industriale e commerciale che, insieme allo stesso Giolitti, riteneva più conveniente la neutralità dell’Italia. Il suo veto avrebbe impedito la guerra. Invece, milioni di giovani soldati di leva furono inviati al fronte in condizioni disastrose e disumane, semplicemente come carne da cannone. Per giunta, delle salme degli oltre 650 mila soldati italiani morti, solo pochissime furono restituite alla pietà delle famiglie che oggi si invoca per lui!

Il rifiuto di sottoscrivere la dichiarazione di “Stato d’assedio” consentì la riuscita della tragica farsa della “marcia su Roma” (28 ottobre 1922) di Benito Mussolini ed aprì la strada al regime fascista che il re sostenne, condividendone con convinzione la politica fino all’ultimo, comprese le leggi liberticide che trasformarono il regime in dittatura all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti, le leggi razziali cha aprirono la strada alla persecuzione degli ebrei, l’alleanza con il nazismo di Hitler, l’entrata nella 2^ Guerra Mondiale, che costò in tutto più di 60 milioni di morti (circa mezzo milione di Italiani, tra civili e militari), oltre a costi enormi di ogni genere, a distruzioni materiali, sofferenze, ecc.. Il tutto in violazione dello stesso Statuto Albertino, in vigore fino alla promulgazione della Costituzione della Repubblica.

Il 9 settembre 1943, all’indomani della divulgazione della firma dell’armistizio con gli anglo-americani e dopo aver dimesso e fatto arrestare Mussolini, ormai cavallo perdente (25 luglio 1943), il re, massima autorità dello stato cui competeva anche il comando in capo delle forze armate, in compagnia del nuovo capo del governo gen. Badoglio e dei vertici militari, pur di salvare se stessi e le proprie famiglie dai disastrosi sviluppi della guerra da loro stessi voluta e dichiarata, abbandonano Roma ed il popolo italiano, fuggendo vergognosamente a Brindisi, nell’Italia già liberata dopo la ritirata nazista. L’Italia intera e le forze armate, in Italia e fuori, restano abbandonate a se stesse, senza disposizione alcuna per fare fronte alle conseguenze dell’armistizio e alla prevedibile reazione dell’ex alleato. I tedeschi possono così occupare i due terzi del territorio nazionale, compiendovi stragi e distruzioni, oltre ai territori controllati dalle truppe italiane in Francia, in Grecia e nei Balcani, impossessarsi di una quantità enorme di materiali militari e deportare circa 600 mila militari italiani.

Alla vigilia del referendum con cui il popolo italiano decise per la Repubblica (2-3 giugno 1946), Vittorio Emanuele, già privato delle prerogative reali e contravvenendo alle disposizioni vigenti, abdicò a favore del primogenito Umberto (9 maggio 1946) e si trasferì in esilio volontario in Egitto, dove morì e fu sepolto il 27 dicembre 1947, il giorno dopo la firma della Costituzione della Repubblica Italiana. Ovviamente, anche lui, nel corso del suo regno, non era venuto meno alla tradizione di accumulare all’estero, sulla pelle del popolo italiano, ingenti tesori che consentirono a lui un esilio dorato e agli eredi una vita sfarzosa. 

La legge costituzionale n.1 del 23.10.2002 (capo del Governo Silvio Berlusconi, Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi), modificando la XIII disposizione finale della Costituzione Italiana, restituiva il diritto di voto attivo e passivo e la facoltà di ingresso in Italia ai membri ed ai discendenti di casa Savoia ed apriva la strada al rientro in Italia, avvenuto qualche giorno fa, delle salme di Vittorio Emanuele e della moglie Elena. 

Una necessaria riflessione su alcuni punti

Non è certo un caso che la modifica alla XIII disposizione finale della Costituzione e, ancor più, il rientro delle salme siano avvenuti in un contesto politico, sociale, culturale che vede le destre, il neofascismo, il neonazismo rialzare arrogantemente la testa in Italia e in Europa.

Il “senso di umana pietà”, invocato oggi a favore di Vittorio Emanuele, non può essere a senso unico in nome del buonismo ipocrita ed ingannatore imperante ai giorni nostri. Basti pensare a quante decine e decine di migliaia di salme di soldati italiani “dispersi” non sono mai state restituite alle famiglie e alla propria terra perché abbandonate, nel corso delle due guerre mondiali e delle avventure coloniali, in fondo al mare e sui “campi dell’onore” dei deserti africani e dei ghiacci delle Alpi, delle montagne di Albania e di Grecia, della steppa russa… 

Tenuto conto di tutti i crimini efferati commessi a danno dell’umanità intera, Vittorio Emanuele, i gerarchi fascisti, i loro generali e tutti i loro complici avrebbero dovuto essere giudicati da un tribunale internazionale sull’esempio di quello di Norimberga.

Chi ha autorizzato l’utilizzo di un aereo militare italiano, pagato dai cittadini, per il trasferimento della salma reale? I responsabili dovrebbero essere chiamati a risponderne di persona.

Tumulare le salme di questo re e questa regina nel Pantheon o a Superga, come proposto dai familiari e non solo, sarebbe una ingiustizia oltraggiosa davanti all’umanità intera ed un pesante esempio negativo per la formazione delle giovani generazioni.

Per concludere il discorso della vecchia alleanza borghesia-aristocrazia di casa nostra, è evidente che oggi le due classi ormai si sono fuse, sugli stessi interessi, nella moderna borghesia. È pure ormai chiaro, documenti alla mano, che Vittorio Emanuele e Mussolini non hanno potuto agire in proprio, ma sono stati i referenti politici, praticamente due marionette, mosse dai burattinai di turno, i grandi industriali, i grandi agrari, i finanzieri che preferivano muoversi nell’ombra. Gli uomini soli al potere, nella realtà, non sono mai esistiti, né in Italia, né altrove. Sono il frutto di una grande menzogna di chi ha interesse a mistificare e nascondere la realtà: i burattinai di ogni tempo.

I burattini di oggi li conosciamo, i burattinai li possiamo facilmente immaginare. Sono, in buona sostanza, gli stessi di allora, giacché gli interessi sono sempre gli stessi. 

La storia di ieri ci aiuta a meglio comprendere l’oggi per programmare il futuro.

Che fare?

[1] Associazione Marx XXI, Bari. Autore, tra l’altro, di un libro sulle lotte proletarie a Putignano (Bari) ai primi del 900.

La pietà a senso unico per Vittorio Emanuele III

di Paolo Vinella[1] per Marx21.it

uno tra i frutti avvelenati dell’alleanza, in chiave reazionaria ed antipopolare,

tra borghesia e aristocrazia in Italia, maturati alla mala pianta del buonismo ipocrita

La traslazione dei resti di Vittorio Emanuele III di Savoia (1869-1947) dall’Egitto in Italia – a 70 anni dalla sua morte, ma anche dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana – impone una riflessione sul ruolo dei Savoia e del suo ultimo re all’interno della storia non solo italiana: fu re d’Italia (1900-46), imperatore d’Etiopia (1936-43), re d’Albania (1939-43) ed ebbe ruoli e responsabilità di primissimo piano nell’avvento del fascismo e nelle tragedie delle due guerre mondiali che condussero l’umanità intera fin sull’orlo dell’autodistruzione.

Dal feudo della Contea di Moriana (intorno al 1032), nell’attuale Savoia oggi francese, alla fine della 2^ Guerra Mondiale, passando per l’unità d’Italia, la storia della casa Savoia è un rincorrersi di manovre, di guerre, di aggressioni a fini espansionistici, mascherate con il paravento dell’“interesse della patria”, di cui Vittorio Emanuele è stato un campione esemplare.

Con il re di Sardegna Carlo Alberto (1798-1849) la storia di casa Savoia si intreccia a filo doppio con le vicende che portarono all’unità d’Italia, quando la borghesia del nord si alleò con l’antico nemico, l’aristocrazia feudale rappresentata da casa Savoia, nella fase successiva alla Rivoluzione Francese (1789) e alla “Primavera dei popoli” del 1848.

Con la Rivoluzione Francese, gli obiettivi della borghesia, sintetizzati nel motto accattivante “Liberté, fraternité, egalité”, vengono visti con favore dal “Quarto Stato”, le masse popolari del tempo (servi delle gleba, altre figure di lavoratori sfruttati che negli ultimi tempi stavano prendendo il loro posto e nascente proletariato industriale ancora disorganizzato e privo di obiettivi propri) che li condivide facendosi carico della rivoluzione a guida borghese fino alla vittoria. Alla resa dei conti, però, le masse popolari (in primo luogo, il proletariato industriale) si rendono conto che alla borghesia interessa (e non poteva essere diversamente) impossessarsi del potere solo per realizzare e gestire i propri affari sulla pelle del “Quarto Stato”, senza alcuna intenzione di mantenere le promesse. A questo punto, il proletariato, grazie all’esperienza maturata e alla guida di personalità tra cui emergono Marx ed Engels (il Manifesto del Partito Comunista fu pubblicato proprio nel 1848) comincia a comprendere che bisogna fare affidamento innanzitutto sulle propria autonomia e sulle proprie enormi potenzialità. Cresce e si sviluppa la coscienza di classe, sicché, dopo alcuni episodi isolati, “scoppia il ‘48”: nonostante le difficoltà e i limiti dell’epoca, le masse popolari, questa volta in piena autonomia, si sollevano quasi in tutta Europa (la Russia zarista rimane fuori), nelle capitali d’Europa esplodono le sommosse popolari di massa, sulle barricate compare per la prima volta la bandiera rossa simbolo di lotta di classe e di volontà di emancipazione e liberazione. È la “Primavera dei Popoli”, così detta perché, nell’Europa delle grandi monarchie e degli imperi sovranazionali, spesso le aspirazioni patriottiche e le rivendicazioni nazionali si mescolano o addirittura offuscano le motivazioni di classe.

Ciò nonostante, la “Primavera dei Popoli”, sia pure brutalmente repressa dopo l’esplosione iniziale, arricchisce di esperienze le masse popolari ed apre nuove prospettive alle rivendicazioni ed alle lotte. Non manca molto alla Comune di Parigi (1870) ed alle rivoluzioni russe, antefatto della Rivoluzione Bolscevica d’Ottobre che un secolo fa sconvolse il mondo.

La borghesia, da parte sua, non fa in tempo a celebrare il proprio trionfo sulle vecchie classi dominanti e a raccogliere a piene mani i frutti magnifici della rivoluzione industriale, che già si accorge di avere di fronte un nemico potente e pericoloso, la nuova classe sociale, il proletariato che cresce, prende coscienza di sé, si organizza autonomamente. Presa dal panico, cerca di correre ai ripari prima che sia troppo tardi e non trova di meglio che allearsi, fino a fondersi, con il suo vecchio nemico, i resti dell’aristocrazia feudale.

In Italia, che il ‘48 trova divisa in stati e staterelli in perenne reciproco contrasto ed arretrata sullo stesso piano della rivoluzione borghese, la pavida borghesia nostrana non trova di meglio che allearsi con quella che appare come la punta più avanzata ed affidabile dell’aristocrazia, casa Savoia, nella figura del re di Sardegna, Carlo Alberto, che, sulla scia della Rivoluzione Siciliana del 1848 contro i Borbone e dietro la spinta delle rivolte contro l’occupazione austro-ungarica di Milano (Cinque giornate) e di Venezia, con la prima Guerra d’Indipendenza (1848-49) contro l’Austria dà avvio concreto al processo che porterà, nel giro di un ventennio, all’unificazione nazionale con tutte le problematiche, le contraddizioni, le conseguenze che spesso, ancora oggi, ci trasciniamo appresso.

L’infame alleanza borghesia-aristocrazia non solo ebbe come conseguenza immediata l’esclusione dal processo unitario risorgimentale dell’ala più radicale, repubblicana e democratica, della borghesia risorgimentale, rappresentata da Mazzini e Garibaldi, ma ha improntato di sé, in chiave reazionaria e antipolare, la vita politica, sociale, economica, culturale italiana, dall’avvio del processo unitario fino alla caduta del fascismo e alla cacciata di casa Savoia, e anche oltre. È in questo quadro d’assieme che bisogna inserire la figura del nostro “re soldato”.

Terzo e penultimo re d’Italia, Vittorio Emanuele III era figlio primogenito di Umberto I, il “re buono” responsabile e mandante, tra l’altro, nell’Italia di fine ‘800/inizio ‘900, del più efferato tra gli “eccidi proletari” (Milano, 1898) che represse nel sangue, con ferocia inaudita, la protesta popolare conclusa a cannonate caricate a mitraglia sulla folla inerme ed affamata che reclamava contro il raddoppio del prezzo del grano e del pane, spesso unico alimento, quando c’era, delle classi popolari. Secondo le stime più attendibili, i morti furono oltre 300. L’odio popolare spinse, due anni dopo (luglio 1900), l’anarchico Gaetano Bresci a “vendicare” la strage di Milano con tre colpi di rivoltella che tolsero la vita ad Umberto e traslocarono la corona di re d’Italia sul capo di Vittorio Emanuele. In sostanza non cambiò niente, morto un re, se ne fa un altro.

Di Vittorio Emanuele III bisogna ricordare almeno le gesta più ignobili:

Salito al trono, continuò con la politica antipopolare ed antioperaia dei suoi predecessori. Tristemente famosi gli “eccidi popolari”, soprattutto al Sud, sotto il fuoco dell’esercito e dei carabinieri sulle folle popolari che protestavano per le condizioni di miseria, di oppressione, di sfruttamento. L’eccidio dei minatori di Buggerru (1904, 4 morti e decine di feriti), in Sardegna, portò al primo sciopero generale nazionale nella storia d’Italia.

Le imprese avventuristiche e le guerre spietate del “colonialismo straccione” italiano (citazione da Antonio Gramsci) lo videro propugnatore e protagonista convinto e gli valsero i titoli aggiuntivi di “imperatore d’Etiopia” e di “re d’Albania”.

Allo scoppio della 1^ Guerra mondiale, si schierò decisamente con gli interventisti, nonostante le proposte di trattativa del governo austriaco e l’opposizione decisa della maggioranza del popolo italiano e di un settore cospicuo della stessa borghesia industriale e commerciale che, insieme allo stesso Giolitti, riteneva più conveniente la neutralità dell’Italia. Il suo veto avrebbe impedito la guerra. Invece, milioni di giovani soldati di leva furono inviati al fronte in condizioni disastrose e disumane, semplicemente come carne da cannone. Per giunta, delle salme degli oltre 650 mila soldati italiani morti, solo pochissime furono restituite alla pietà delle famiglie che oggi si invoca per lui!

Il rifiuto di sottoscrivere la dichiarazione di “Stato d’assedio” consentì la riuscita della tragica farsa della “marcia su Roma” (28 ottobre 1922) di Benito Mussolini ed aprì la strada al regime fascista che il re sostenne, condividendone con convinzione la politica fino all’ultimo, comprese le leggi liberticide che trasformarono il regime in dittatura all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti, le leggi razziali cha aprirono la strada alla persecuzione degli ebrei, l’alleanza con il nazismo di Hitler, l’entrata nella 2^ Guerra Mondiale, che costò in tutto più di 60 milioni di morti (circa mezzo milione di Italiani, tra civili e militari), oltre a costi enormi di ogni genere, a distruzioni materiali, sofferenze, ecc.. Il tutto in violazione dello stesso Statuto Albertino, in vigore fino alla promulgazione della Costituzione della Repubblica.

Il 9 settembre 1943, all’indomani della divulgazione della firma dell’armistizio con gli anglo-americani e dopo aver dimesso e fatto arrestare Mussolini, ormai cavallo perdente (25 luglio 1943), il re, massima autorità dello stato cui competeva anche il comando in capo delle forze armate, in compagnia del nuovo capo del governo gen. Badoglio e dei vertici militari, pur di salvare se stessi e le proprie famiglie dai disastrosi sviluppi della guerra da loro stessi voluta e dichiarata, abbandonano Roma ed il popolo italiano, fuggendo vergognosamente a Brindisi, nell’Italia già liberata dopo la ritirata nazista. L’Italia intera e le forze armate, in Italia e fuori, restano abbandonate a se stesse, senza disposizione alcuna per fare fronte alle conseguenze dell’armistizio e alla prevedibile reazione dell’ex alleato. I tedeschi possono così occupare i due terzi del territorio nazionale, compiendovi stragi e distruzioni, oltre ai territori controllati dalle truppe italiane in Francia, in Grecia e nei Balcani, impossessarsi di una quantità enorme di materiali militari e deportare circa 600 mila militari italiani.

Alla vigilia del referendum con cui il popolo italiano decise per la Repubblica (2-3 giugno 1946), Vittorio Emanuele, già privato delle prerogative reali e contravvenendo alle disposizioni vigenti, abdicò a favore del primogenito Umberto (9 maggio 1946) e si trasferì in esilio volontario in Egitto, dove morì e fu sepolto il 27 dicembre 1947, il giorno dopo la firma della Costituzione della Repubblica Italiana. Ovviamente, anche lui, nel corso del suo regno, non era venuto meno alla tradizione di accumulare all’estero, sulla pelle del popolo italiano, ingenti tesori che consentirono a lui un esilio dorato e agli eredi una vita sfarzosa.

La legge costituzionale n.1 del 23.10.2002 (capo del Governo Silvio Berlusconi, Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi), modificando la XIII disposizione finale della Costituzione Italiana, restituiva il diritto di voto attivo e passivo e la facoltà di ingresso in Italia ai membri ed ai discendenti di casa Savoia ed apriva la strada al rientro in Italia, avvenuto qualche giorno fa, delle salme di Vittorio Emanuele e della moglie Elena.

Una necessaria riflessione su alcuni punti

Non è certo un caso che la modifica alla XIII disposizione finale della Costituzione e, ancor più, il rientro delle salme siano avvenuti in un contesto politico, sociale, culturale che vede le destre, il neofascismo, il neonazismo rialzare arrogantemente la testa in Italia e in Europa.

Il “senso di umana pietà”, invocato oggi a favore di Vittorio Emanuele, non può essere a senso unico in nome del buonismo ipocrita ed ingannatore imperante ai giorni nostri. Basti pensare a quante decine e decine di migliaia di salme di soldati italiani “dispersi” non sono mai state restituite alle famiglie e alla propria terra perché abbandonate, nel corso delle due guerre mondiali e delle avventure coloniali, in fondo al mare e sui “campi dell’onore” dei deserti africani e dei ghiacci delle Alpi, delle montagne di Albania e di Grecia, della steppa russa…

Tenuto conto di tutti i crimini efferati commessi a danno dell’umanità intera, Vittorio Emanuele, i gerarchi fascisti, i loro generali e tutti i loro complici avrebbero dovuto essere giudicati da un tribunale internazionale sull’esempio di quello di Norimberga.

Chi ha autorizzato l’utilizzo di un aereo militare italiano, pagato dai cittadini, per il trasferimento della salma reale? I responsabili dovrebbero essere chiamati a risponderne di persona.

Tumulare le salme di questo re e questa regina nel Pantheon o a Superga, come proposto dai familiari e non solo, sarebbe una ingiustizia oltraggiosa davanti all’umanità intera ed un pesante esempio negativo per la formazione delle giovani generazioni.

Per concludere il discorso della vecchia alleanza borghesia-aristocrazia di casa nostra, è evidente che oggi le due classi ormai si sono fuse, sugli stessi interessi, nella moderna borghesia. È pure ormai chiaro, documenti alla mano, che Vittorio Emanuele e Mussolini non hanno potuto agire in proprio, ma sono stati i referenti politici, praticamente due marionette, mosse dai burattinai di turno, i grandi industriali, i grandi agrari, i finanzieri che preferivano muoversi nell’ombra. Gli uomini soli al potere, nella realtà, non sono mai esistiti, né in Italia, né altrove. Sono il frutto di una grande menzogna di chi ha interesse a mistificare e nascondere la realtà: i burattinai di ogni tempo.

I burattini di oggi li conosciamo, i burattinai li possiamo facilmente immaginare. Sono, in buona sostanza, gli stessi di allora, giacché gli interessi sono sempre gli stessi.

La storia di ieri ci aiuta a meglio comprendere l’oggi per programmare il futuro.

Che fare?



[1]   Associazione Marx XXI, Bari. Autore, tra l’altro, di un libro sulle lotte proletarie a Putignano (Bari) ai primi del 900.