Fiducia nel partito comunista cinese: gli undici criteri

bolscevichi marciadi Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

L’elemento politico principale che funge da legame, collante e da “cemento armato” per i comunisti e i loro simpatizzanti (un’analisi in parte diversa va invece effettuata rispetto alle masse popolari), risulta ormai da più di un secolo “il grado di fiducia collettiva e individuale nel partito rivoluzionario e nei suoi dirigenti, la convinzione che essi operino realmente nell’interesse generale dei lavoratori e al fine di costruire il socialismo/comunismo sia nel loro paese di appartenenza sia su scala mondiale.”

Tale fattore si rivela fondamentale, visto che se un rivoluzionario non crede che il suo partito di riferimento sia comunista e che lotti concretamente e con efficacia per il socialismo, non ha ragione di impegnarsi a erogare tempo ed energie per esso: più nello specifico e prendendo spunto dal centesimo anniversario della fondazione del partito comunista cinese, per quale motivo bisognerebbe appoggiare (criticamente) e difendere la Cina del 2021, se essa non risulta socialista almeno nelle sue linee principali?

Il criterio generale che deve adottare un comunista per accordare – o togliere – fiducia e appoggio concreto a un partito e/o stato, almeno a livello molto generale, risulta semplice visto che in questo campo diventa decisiva la pratica, la praxis collettiva del particolare partito e/o stato preso in esame; già Marx notò, nelle sue celebri e geniali “Tesi su Feuerbach” del 1845, che “nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica” (seconda tesi su Feuerbach).

Ma come possono i comunisti declinare e usare, nel caso concreto in esame (fiducia/non fiducia), tale canone e criterio generale rispetto a un partito e/o stato?

Emergono undici criteri, combinati tra loro, da utilizzare nel processo di verifica della praxis/lotta. 

Si deve dunque osservare con spirito obiettivo se un partito e/o stato:

1. si esprimano, pubblicamente e a livello di massa, a favore del comunismo e del marxismo-leninismo, difendendo pubblicamente i suoi principali leader politici (Marx, Engels, Lenin) e soprattutto diffondendo costantemente il pensiero marxista, la sempre attuale concezione materialistico-dialettica del mondo e del genere umano;

2. lottino senza soluzione di continuità per conquistare il potere e il controllo degli apparati statali o per conservare tale egemonia, nel caso abbiano già effettuato con successo il salto di qualità rivoluzionario, al fine di attuare la socializzazione dei principali mezzi di produzione sociali;

3.promuovano con successo un processo di accumulazione continua di forze (politiche, economiche, organizzative, di consenso, ecc.) nel loro paese di appartenenza, attraverso lotte concrete e vittorie sul campo;

4. lottino per migliorare le condizioni di vita materiali e culturali delle masse popolari, ottenendo a loro vantaggio il massimo possibile, in base ai rapporti di forza politico-sociali e al livello di sviluppo delle forze produttive esistenti; 

5. lottino contro l’imperialismo e pertanto siano circondati dall’ostilità politica e ideologica-culturale della borghesia mondiale e dei suoi mandatari politici, socialdemocrazia inclusa;

6.promuovano con una propaganda a livello di massa, oltre che con forme di azioni più concrete i “quattro anti”, e cioè:

– antifascismo;

– antimperialismo (lotta allo sfruttamento/dominio su scala mondiale);

– antirazzismo, compresa la lotta contro l’antisemitismo e il sionismo;

– antisessismo, lotta contro lo sciovinismo maschilista, ecc.;

7. esprimano dei dirigenti preparati sul piano pratico e ideologico, che si impegnino con continuità nell’azione politica e teorica non godendo di netti ed evidenti privilegi materiali rispetto a un lavoratore qualificato del loro paese;

8. siano in grado di esprimere una reale unità di azione e di direzione al loro interno, oltre che di effettuare una seria autocritica rispetto agli errori già commessi individuandone le cause e rimediando con rapidità ad esse, come sottolineò Lenin nel 1920 nel suo “Estremismo, malattia infantile del comunismo”; 

9. sappiano affrontare e risolvere con successo e spirito creativo i nuovi problemi, le nuove contraddizioni e le sfide inedite che vengono via via presentate dalla dinamica costante del processo storico (si pensi a Lenin e ai bolscevichi del 1902-1917 rispetto alla nuova era dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria e della controrivoluzione borghese);

10. riescano a conquistare il consenso almeno delle sezioni più avanzate della classe operaia, delle masse popolari e dei giovani del loro paese;

11:sussista una linea di continuità, di resilienza e di persistenza storica (il “fattore tempo”) sia nella loro riproduzione politico-materiale che nel grado di successo nell’affrontare le questioni proposte in precedenza.

Ora, solo la combinazione dialettica e simultanea tra tutti i criteri indicati può fornire una reale risposta al dubbio “cartesiano” sulla fiducia/non fiducia, permettendo pertanto di “dubitare del dubbio” (Marx): un solo criterio sicuramente non basta e a tale scopo serve un processo di verifica incrociata, con molti passaggi e analisi sulla praxis di un determinato partito e/o stato. 

In ogni caso i primi quattro criteri in esame (diffusione tra le masse dell’identità comunista e della concezione leninista; lotta efficace per conquistare/difendere il potere; successo nell’azione tesa ad accumulare forze e azione efficace di massa rivolta nel migliorare le condizioni di vita delle masse popolari) risultano i principali strumenti utilizzabili, ma anche i rimanenti acquisiscono un certo spessore e valore intrinseco, sia sul piano direttamente politico che su quello teorico. Verifichiamo tale efficacia nel caso specifico della Cina (prevalentemente) socialista sul piano socioproduttivo e politico-sociale.

In primo luogo il partito comunista cinese (PCC) sicuramente si esprime pubblicamente, senza sosta e davanti a centinaia di milioni di cinesi a favore del socialismo e del marxismo, tanto che la situazione della Cina risulta assai chiara sotto questo punto.

Nel gennaio del 2014 il comitato Centrale del PCC confermò ad esempio la decisione di sviluppare le riforme in Cina “sotto la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi, seguendo la guida del marxismo-leninismo del pensiero di Mao Zedong e della teoria di Deng Xiaoping, dell’importante pensiero delle “Tre rappresentanze” e della concezione scientifica dello sviluppo”: tale dichiarazione, pubblicata il 29 gennaio 2014, venne diffusa attraverso tutti i mass-media cinesi raggiungendo centinaia di milioni di persone nel gigantesco subcontinente asiatico.

Il 21 luglio del 2014 il Dipartimento organizzativo del PCC ribadì, sempre per fare un altro esempio, che i quadri e i funzionari del governo e del partito “devono tenere ferma la convinzione nel marxismo per evitare di perdersi nei clamori della democrazia occidentale”, sempre in un atto pubblico e conosciuto (attraverso la stampa e le televisioni) da molte decine di milioni di cinesi; il 23 dicembre del 2013, commentando i 120 anni dalla nascita del grande comunista Mao Zedong, sull’importantissimo “Quotidiano del Popolo” il segretario generale del PCC Xi Jinping, sottolineò altresì l’importanza decisiva del pensiero-praxis di Mao, sia per il processo di sviluppo creativo del marxismo che per la “sinizzazione” del marxismo, oltre a ribadire che gli “errori commessi non tolgono niente alla grandezza di Mao e ai suoi contributi” alla causa del comunismo: parole testuali di Xi Jinping, conosciute anche esse a livello di massa.

Gli esempi in questo senso potrebbero essere moltiplicati a dismisura: ci limitiamo solo a far notare che il 7 settembre 2012 sempre il “Quotidiano del Popolo” pubblicò un articolo in cui si sottolineava, con evidente soddisfazione, che “il leninismo è ancora importante in Cina” davanti alle decine di milioni di suoi lettori (“Leninism still relevant to China: CPC Think tank”, in english.peopledaily.com.cn, 27 settembre 2012), oppure che all’inizio del 2015 sempre il compagno Xi Jinping ha evidenziato l’importanza del materialismo dialettico e del suo uso creativo per il PCC.

Passando al secondo criterio di verifica della praxis, nessuno al mondo ha dubbi sul fatto che in Cina si sia riprodotta dal 1949 ad oggi un’egemonia solida del partito comunista cinese sul piano politico-sociale, che dura ormai da più di 65 anni.

Rispetto invece ai rapporti sociali di produzione basta sottolineare come dai dati forniti nel luglio del 2014 dalla rivista USA “Fortune”, arciborghese e ipercapitalistica, rispetto alle 500 più grandi imprese cinesi emerga con chiarezza come le prime 10 imprese della classifica cinese siano tutte di proprietà pubblica e statale: tutte e dieci, senza eccezioni. (“Top 10 companies in China all state owned”, 14 luglio 2014, in www.china.org.cn).

Un sito anticomunista, il “World Crunch”, notò a sua volta con disgusto come nel 2013 ben 85 imprese cinesi risultassero inserite nella lista di Fortune sulle 500 più grandi imprese a livello mondiale (su scala planetaria, si noti bene…), e che proprio tra le 85 “big” della Cina Popolare “il 90%” – quindi nove decimi –  “sono imprese statali”, e cioè ben “77 su 85”. (“Why more chinese firm on the Fortune 500 is bad news for China”, 24 luglio 2013).

Se si passa invece alla classifica di Fortune per il 2020 sempre riguardo alle 500 più grandi aziende mondiali, sulle 124 imprese cinesi in quell’anno comprese nella lista ben 91, cioè il 73%, erano di proprietà statale, identificate in inglese con l’acronimo SOE e a cui apparteneva contando il 78% del fatturato totale delle aziende cinesi.

Secondo l’anticomunista Center for Strategic & International studies, infatti, “le più grandi aziende cinesi nella maggior parte dei settori sono SOE e 91 dei 124 membri cinesi dell’ultima Fortune Global 500 sono SOE. Vale la pena notare che il nostro conteggio differisce da quello di Fortune, che classifica solo il 68% (84) delle aziende cinesi come SOE. Sono stati ordinati esclusivamente in base al fatto che un’entità statale detenga più del 50% di proprietà formale; la nostra decisione ha tenuto conto anche dell’effettivo controllo aziendale. Ad esempio Fortune etichetta Gree, un produttore di elettrodomestici con sede a Zhuhai, come privato, ma sul suo sito Gree afferma chiaramente che si tratta di una SOE di proprietà locale”[1].

Sono dati forniti da insospettabili fonti anticomuniste, rivista Fortune in testa, ma che non si trovano invece nei mass-media e nei siti che in Italia si autodefiniscono comunisti, a partire dal “Manifesto” e con rare eccezioni.

Sui siti e sulle riviste “antagoniste”, italiane e occidentali, non si troverà quasi mai, ad esempio, un’altra notizia eclatante: la rivista anticomunista Fortune ha ammesso che le banche cinesi, inserite nel luglio del 2014 nella sua classifica sulle 500 aziende cinesi, risultano tutte e senza eccezione di proprietà statale, mentre tali istituti finanziari pubblici, statali e collettivi, hanno ottenuto la metà dei profitti totali dei 500 “big” della Cina Popolare. Una massa formidabile di profitti per la collettività e che ammonta a 205 miliardi di dollari, pari a più di un decimo dell’intero prodotto interno lordo dell’Italia nel 2013. (“Top 10 companies in China are all state owned”, 14 luglio 2014).

Quelli citati sono “fatti testardi” (Lenin), ma ancora oggi troppi compagni in buona fede non ne sono a conoscenza, con inevitabili e negative ricadute politiche sulla già disastrata sinistra antagonista italiana.

Rispetto al criterio, quello dell’accumulazione di forze e della modifica a favore del socialismo della correlazione di potenza interna/internazionale, persino la CIA di Langley nel 2017 ammise che, nel corso del 2016, la Cina Popolare era diventata la prima potenza economica mondiale a parità di potere di acquisto, scavalcando e superando gli Stati Uniti; tutti i comunisti sono a conoscenza della disastrosa situazione economico-sociale della Cina nel 1948, ossia prima che il PCC guidato da Mao Zedong prendesse il potere.

Per quanto riguarda invece la lotta e la praxis collettiva tesa al miglioramento concreto delle condizioni di vita materiali e culturali degli operai, dei contadini e delle masse popolari cinesi, il PCC del 1977 fino ad oggi ha ottenuto risultati clamorosi e successi eclatanti, ammessi persino da alcuni commentatori anticomunisti occidentali. Prendendo ad esempio un libro di Fareed Zakarìa, sicuro anticomunista, intitolato “L’era post-americana”, il suo autore ammise che dal 1976 il potere d’acquisto reale dei cinesi risultava aumentato come minimo di sei volte e nel giro di poco più di tre decenni, mentre a sua volta un politico conservatore e borghesissimo come Henry Kissinger ha ammesso a malincuore che “la Cina ha ottenuto risultati eccezionali sul piano economico”[2].

Basta ricordare, come ulteriore fatto testardo, che persino istituti di ricerca occidentali hanno ammesso che dal 2005 al 2016 si è assistito alla triplicazione del salario medio degli operai cinesi; un aumento di ben tre volte.

Rispetto invece alla posizione e alla proiezione su scala internazionale di Pechino, risulta chiaro che la Cina Popolare:

– non fa parte della NATO e del blocco occidentale, ma anzi subisce un lungo embargo sull’alta tecnologia e sulle armi militari da parte degli USA che è iniziato dopo il giugno 1989, e che dura fino ad ora;

– è in ottimi rapporti con Cuba socialista da più di tre decenni;

– è in ottime relazioni con la Corea del Nord, un’altra “parìa” rispetto agli occhi occidentali;

– dal 1999 ha contribuito a creare il patto di Shanghai e il BRICS, due alleanze politiche nelle quali per fortuna non sono presenti le potenze imperialiste;

– dal 1999 ha creato via via delle relazioni di alleanza strategica con la Russia di Putin, un altro pugno nell’occhio per l’imperialismo occidentale;

– si è opposta, nell’estate del 2013 e in seguito, alla minaccia di intervento imperialista in Siria;

– ha ottime relazioni con l’Iran, invece sottoposto all’embargo occidentale; 

– ha costituito rapporti economici e politici reciprocamente vantaggiosi con le nazioni africane, a partire dal Sudafrica;

– ha creato mano a mano paritarie e ottime relazioni con quasi tutte le nazioni dell’America latina, rapporti che costituiscono un vero e proprio fumo negli occhi per l’imperialismo statunitense (si pensi al Venezuela).

Viste tali interconnessioni non risulta certo casuale che la Cina (prevalentemente) socialista non sia amata dai circoli dirigenti occidentali: da parte di questi ultimi – oltre che da gran parte della disastrata sinistra occidentale – sono state espresse continuamente simpatie, appoggi politici e finanziari per l’ex-feudatario (fortunatamente espropriato) Dalai Lama, per i separatisti e terroristi islamici dello Xinjiang, per le forze indipendentiste che a Taiwan e Hong Kong lavorano contro il processo di riunificazione della Cina oltre che, ovviamente, per il dissenso anticomunista che agisce all’interno del subcontinente cinese.

Passando invece al processo di analisi del sesto criterio proposto in precedenza, l’antimperialismo e l’antifascismo fanno parte del codice genetico politico della Cina contemporanea, visto che dal 1839 (dalla famigerata “guerra dell’oppio” anglofrancese) fino al 1948 essa ha dovuto sopportare una serie di interminabili e sanguinose aggressioni straniere, tra cui emerge il tentativo di conquista del territorio cinese da parte del fascismo nipponico, che provocò venti milioni di morti cinesi  tra il 1931 e il 1945: un Giappone in cui i leader vanno ancora in pellegrinaggio in un famigerato cimitero nel quale sono onorati anche alcuni dei feroci criminali di guerra nipponici, protagonisti delle aggressioni dell’imperialismo del Sol Levante contro molti popoli asiatici, a partire da quello cinese.

Il popolo e il governo cinese, inoltre, nutrono una tradizionale e ipergiustificata avversione e ripugnanza dello sciovinismo razzista, spesso impiegato in terra occidentale contro i “gialli”, come ad esempio avviene tuttora negli Stati Uniti, la patria del Ku Klux Klan e di atti bestiali di razzismo contro gli afroamericani che perdurano anche ai nostri giorni.

Per quanto riguarda invece le capacità politiche e umane dei dirigenti del PCC, a partire dal compagno Xi Jinping, esse risultano ammesse persino dagli avversari più intelligenti di Pechino, come del resto la capacità di autocritica (ad esempio rispetto ai gravi errori commessi durante la “Rivoluzione culturale” del 1966-1976), l’unità d’azione e lo spirito creativo espresso via via dal comunismo cinese dal 1977 ad oggi, con rare eccezioni.

Non è dunque casuale che il PCC (partito comunista cinese) sia divenuto il partito più numeroso del mondo, forte di ben 92 milioni di iscritti e l’espressione politico-sociale degli operai, contadini e intellettuali più avanzati del grande paese asiatico; un partito che, dal 1921 ad oggi, per un secolo ha tracciato una precisa “linea rossa” ben apprezzata (pur con i suoi inevitabili difetti e limiti) dalle masse popolari cinesi e da sezioni più estese dei comunisti occidentali, costruendo una dinamica “linea rossa” in cui emerge la reiterata e dichiarata fedeltà all’obiettivo finale del comunismo sviluppato, nel 1921 come nel 2021.

Un albero lo si vede dai suoi frutti” e dai suoi risultati concreti, in Italia come in Cina, almeno secondo il criterio gnoseologico fondamentale del materialismo dialettico, elaborato da Marx fin dalle sue geniali Tesi su Feuerbach del lontano 1845.

APPENDICE

Nel 2020 ben ventidue (22!) delle venticinque più grandi imprese cinesi risultavano principalmente di proprietà pubblica, statale o municipalizzata.

1) Gruppo Sinopec Pechino 407.009 6.793,2 317.515,7 582.648 Petrolio Di proprietà statale 

2)  State Grid Corporation of China Pechino 383.906 7.970.0 596.616,3 907.677 Utilità elettrica Di proprietà statale 

3) China National Petroleum Pechino 379.130 4.443.2 608.085,6 1.344.410 Petrolio Di proprietà statale 

4) China State Construction Engineering Pechino 205.839 3.333.0 294.070,0 335.038 Costruzione Di proprietà statale 

5) Ping An Insurance Shenzhen 184.280 21.626,7 1.180.488,5 372.194 Assicurazione Pubblico 

6) Banca Industriale e Commerciale Cinese Pechino 177.069 45.194,5 4.322.528,4 445.106 Banca commerciale Di proprietà statale 

7) China Construction Bank Pechino 158.884 38.609,7 3.651.644,6 370.169 Banca commerciale Di proprietà statale 

8) Banca Agricola della Cina Pechino 147.313 30.701,2 3.571.541,7 467.631 Banca commerciale Di proprietà statale 

9) Banca di Cina Pechino 135.091 27.126,9 3.268.837,9 309.384 Banca commerciale Di proprietà statale

10) China Life Insurance Pechino 131.244 4.660,3 648.393,2 180.401 Assicurazione Di proprietà statale 

11) Huawei Shenzhen 124.316 9.062.1 123.269.9 194.000 Apparecchiature per le telecomunicazioni Limitato (privato) 

12) China Railway Engineering Corporation Pechino 123.324 1.535,3 152.982,5 302.394 Costruzione Di proprietà statale 

13) Motore SAIC Shanghai 122.071 3.706,1 121.930,8 151.785 Settore automobilistico Di proprietà statale 

14) China Railway Construction Pechino 120.302 1.359,2 155.597,9 364.907 Costruzione Di proprietà statale 

15) China National Offshore Oil Pechino 108.687 6.957,2 184.922,2 92.080 Petrolio Di proprietà statale 

16) compagnia telefonica cinese Pechino 108.527 12.145,1 266.190,3 457.565 Telecomunicazioni Di proprietà statale 

17) Pacific Construction Group Ürümqi 97.536 3.455 63.694.6 453.635 Costruzione Privato 

18) China Communications Construction Pechino 95.096 1.332,6 232.053,4 197.309 Costruzione Di proprietà statale 

19) China Resources Hong Kong 94.758 3.571,6 232,277,1 396.456 Farmaceutico Di proprietà statale 

20) FAW Group Changchun 89.417 2.847,8 70.353,7 129.580 Settore automobilistico Di proprietà statale 

21) China Post Pechino 89.347 4.440,9 1.518.542,8 927.171 Corriere Di proprietà statale 

22) Gruppo Amer International Shenzhen 88.862 1.807,3 23.170,8 18.103 Metallo Privato 

23) China Minmetals Pechino 88.357 230.1 133.441,7 199.486 Metallo Di proprietà statale 

24) Dongfeng Motor Wuhan 84.049 1.328,4 71.423,3 154.641 Settore automobilistico Di proprietà statale 

25) JD.com Pechino 83.505 1.763,7 37.286,1 227.730 E-commerce Pubblico[3]

Note:

1.S. Kennedy, “The biggest but not the strongest: China’s Place in the Fortune Global 500”, 18 agosto 2020, in csis.org

2.  N. Ferguson, D. D. L., H. Kissinger e F. Zakarìa, “Il XXI secolo appartiene alla Cina?”, p. 21, ed. Mondadori

3. “Elenco delle più grandi società cinesi”, in it.qaz.wiki