Partito e classe dopo la fine della sinistra

manifestoperlasovranitacostituzionalePubblichiamo come contributo al dibattito

LETTERA SUL MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ COSTITUZIONALE·DOMENICA 9 GIUGNO 2019

di Carlo Formenti, Alessandro Visalli

La grande mutazione delle sinistre

Che le sinistre non rappresentino più le classi subalterne è un dato di fatto. Non ne rappresentano più gli interessi materiali: dopo gli anni Ottanta si sono arrese al liberismo facendo proprio lo slogan thatcheriano “There is no alternative” e adottandone valori, principi e indirizzi economici, fino a legittimare politiche che hanno causato il crollo dei salari e dei livelli di occupazione, un peggioramento generale delle condizioni di lavoro e di vita e lo smantellamento del welfare.

Non ne rappresentano più la cultura: il linguaggio della gente “incolta” viene disprezzato perché rozzo, volgare, sessista, omofobo e razzista, e sanzionato in nome della “correttezza politica”, cioè di un codice di neologismi coniati per non ferire i sentimenti di un insieme di minoranze religiose, culturali, etniche, sessuali, ecc. I loro leader, i loro militanti, i loro elettori non abitano gli stessi luoghi in cui abitano le masse popolari: gli uni vivono nei quartieri gentrificati delle metropoli, le altre vengono espulse verso le periferie e le piccole-medie città di provincia. Ma soprattutto hanno un rapporto diverso con lo spazio (e quindi un’idea diversa di Paese): da un lato, le élite godono di elevata mobilità, spostandosi frequentemente da una città all’altra, spesso in Paesi diversi, dall’altro le masse sono inchiodate ai posti in cui devono guadagnarsi da vivere, i quali, essendo periferici, non usufruiscono dei vantaggi della globalizzazione ma ne pagano il prezzo in termini di reddito, precarietà, servizi sociali costosi e di scarsa qualità.

I risultati elettorali degli ultimi anni fotografano questo divorzio: i centri urbani votano a sinistra, le periferie, non trovando rappresentanza sociale, economica e culturale nelle sinistre si rivolgono altrove: ai populismi di destra, e in minor misura a quei populismi di sinistra che hanno tentato di smarcarsi dalle sinistre tradizionali. Ciò ha determinato un rovesciamento delle modalità di aggregazione dei blocchi di potere politico: il capitale globale tende ad affidare il compito di mediare politicamente i propri interessi alle sinistre o – quando queste entrano in crisi – a formazioni centriste prive di precisi connotati ideologici perlopiù provenienti dalle fila della socialdemocrazia (è il caso di Macron in Francia) o a formazioni che, come i Verdi, pur provenendo dalle sinistre radicali, hanno deposto le velleità antagoniste per transitare nell’area liberal- progressista. Viceversa le destre rappresentano gli interessi di strati piccolo-medio borghesi che operano su scala locale e faticano ad adattarsi ai processi di globalizzazione. Si tratta di destre di tipo nuovo che – come la Lega – riescono a intercettare anche i consensi di strati popolari in cerca di rappresentanza.

Un esempio degli effetti di queste mutazioni incrociate viene dalle ultime elezioni europee in cui il blocco liberale-europeista di centro sinistra ha ottenuto l’appoggio delle sinistre radicali (e dei populisti di sinistra) chiamate a partecipare a un fronte antisovranista per esorcizzare un immaginario “pericolo fascista”. Le sinistre radicali hanno così demonizzato le forze politiche da cui si erano lasciate “scippare” la rappresentanza degli interessi popolari (a partire dalla rivendicazione di politiche economiche espansive per rilanciare occupazione e salari), con il risultato di spingere ancor più nelle braccia del nemico le masse da cui si erano allontanate: Podemos si è vista prosciugare dal rilancio del Psoe; la sinistra radicale italiana si è sacrificata sull’altare del PD; i socialisti francesi e tedeschi si sono avviati all’estinzione per riassorbimento nell’area centrista di Verdi, Liberali e macroniani; il tutto a fronte del trionfo della Lega in Italia, del partito pro Brexit in Inghilterra, del partito lepenista in Francia, ecc.

Come è potuto succedere?

Incapacità di analizzare le mutazioni del modello di accumulazione capitalista e del suo impatto su composizione e contraddizioni di classe? Non solo: il disastro affonda le radici in una serie di limiti immanenti alla cultura marxista e post marxista – limiti preesistenti alla svolta liberista degli anni Ottanta, ma che la stagione dei Trenta gloriosi e il persistere dell’alternativa rappresentata dal blocco socialista avevano mascherato.

1. Economicismo. Le sinistre hanno sempre pensato che il capitalismo sarebbe caduto in ragione delle sue contraddizioni “oggettive” (crollo del saggio di profitto, contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione ecc.), le quali avrebbero creato le condizioni per la crescita dell’autocoscienza proletaria e per la sua organizzazione in forza politica rivoluzionaria. Dimenticando che il capitale è in primo luogo un rapporto sociale, si sono sempre concentrate sulle sue “leggi” economiche. È in nome del “realismo” imposto da queste leggi che si è accettato il processo di globalizzazione come naturale e irreversibile, per cui, invece di contrastarlo, si è adattata l’azione politica a queste nuove condizioni assunte come immodificabili.

2. Progressismo. L’idea che la storia sia un processo direzionato, che marcia naturalmente verso il progresso, è il legame sotterraneo e potente che connette marxismo e liberalismo. Marx esaltava la spinta modernizzatrice del capitale, una postura ideologica che si è accentuata nel corso della storia dei movimenti socialisti e comunisti, assumendo connotati particolarmente marcati nell’esaltazione del progresso scientifico e tecnologico, del quale si ignora il carattere “demonico”, la non neutralità di un sapere orientato al rafforzamento del dominio di classe (vedi la fascinazione nei confronti della rivoluzione digitale, accolta acriticamente come strumento di ampiamento della democrazia economica, politica e sociale). L’idea che lo sviluppo delle forze produttive è sempre e comunque foriera dell’avvento di un mondo migliore (la crescita economica per i liberali, il socialismo per i marxisti) collabora con l’economicismo nell’alimentare i miti dello sviluppo e del progresso che ottundono la capacità di interpretare le crisi come opportunità per il superamento del capitalismo.

3. Orizzontalismo. Uno dei paradossi che attraversa l’intera storia delle sinistre, è la loro incapacità di elaborare una reale alternativa all’orizzontalismo liberale, cioè all’idea che la società è interpretabile come prodotto delle interazioni fra atomi individuali. Il collettivismo delle sinistre è apparente (come osserva Onofrio Romano nel suo ultimo libro), perché è visto come una tappa verso la realizzazione d’un mondo fatto di individui liberi e autonomi (vedi il mito dell’estinzione dello stato e del comunismo come paradiso in cui i conflitti sociali spariscono). Per i marxisti, il mondo di libere individualità descritto da Adam Smith è una mistificazione finché serve a nascondere la realtà della lotta di classe, ma si trasforma in una meta da raggiungere quando si parla del futuro postcapitalista.

L’economicismo ha orientato la mutazione delle socialdemocrazie: preso atto che la rivoluzione liberale aveva indebolito politicamente e numericamente la classe operaia, e che l’alternativa socialista era fallita, i socialdemocratici accettano l’ineluttabilità di un mondo unificato dalle leggi del mercato e si candidano a gestirlo in pacifica alternanza con i conservatori, ai quali contendono il consenso elettorale rivolgendosi a un elettorato trasversale, ma sostanzialmente egemonizzato dai “ceti medi riflessivi”. L’orizzontalismo ha invece orientato la mutazione delle sinistre radicali: l’onda lunga del 68 ha partorito movimenti (ecologisti, femministe, Lgbt, animalisti, pacifisti, ecc.) che, muovendo da istanze emancipatorie settoriali, hanno rimosso il problema del potere politico, concentrandosi sulla liberazione qui e ora di minoranze e individui. Una cultura per cui lo statalismo socialista non è meno nemico del capitalismo, e che del capitalismo critica solo gli effetti collaterali (gerarchie, patriarcato, autoritarismo). Istanze che il nuovo modo di produzione ha fatto proprie, costruendo gabbie ancora più sofisticate di dominio e controllo su una forza lavoro frammentata e individualizzata. Infine il progressismo è il dogma condiviso da sinistre moderate e radicali, un punto di vista pronto a lasciare le briglie sul collo agli “spiriti animali” del capitalismo, a condizione che garantiscano e promuovano la modernizzazione dei costumi e offrano opportunità di reddito e mobilità a un blocco sociale fatto di dipendenti garantiti, ceti medi istruiti, lavoratori della conoscenza, professionisti dell’informazione e dello spettacolo, ecc.

Perché vanno verso la dissoluzione

Dopo la grande crisi che ha scosso gli equilibri sistemici nei primi decenni del secolo XXI, questa cultura e il blocco sociale che la esprime sono finiti in frantumi. I ceti medi che negli anni Ottanta avevano abbracciato i miti dell’autoimprenditoria e della meritocrazia, e negli anni Novanta avevano celebrato l’avvento al potere di una “classe creativa” in grado di gestire autonomamente i meccanismi di un’economia smaterializzata e fondata su conoscenze e informazioni e sulla competenza tecnologica per sfruttarne il potenziale produttivo, si ritrovano oggi a scontare una crisi che li ha fatti esplodere in una minoranza di privilegiati, cooptata nei centri di comando delle élite, e in una massa di proletarizzati che, nella migliore delle ipotesi, campano stentatamente nelle catene di subfornitura del terziario avanzato, nella peggiore, sprofondano negli inferi del terziario arretrato a fianco degli operai espulsi dalla produzione industriale e degli immigrati.

Questa evoluzione avrebbe potuto creare le condizioni per una saldatura fra questi soggetti declassati dalla crisi e una massa proletaria frantumata, impoverita, individualizzata, precarizzata e priva di rappresentanza sindacale e politica. In effetti abbiamo assistito, da un lato, a una serie di mobilitazioni spontanee di massa (Primavere arabe, Occupy Wall Street, 15 M, gilet gialli) che esprimono la rabbia trasversale di un ampio ventaglio di strati sociali colpiti dalla crisi, dall’altro, alla nascita di formazioni populiste di sinistra che, tentando di dare sbocco e direzione politica a questi movimenti, sembravano avere capito la necessità di andare al di là delle sinistre tradizionali, sperimentando nuovi linguaggi e nuove forme organizzative e sostituendo all’asse ideologico destra-sinistra l’asse sociale alto-basso, popolo-élite. Un progetto nato per contendere ai populismi di destra l’egemonia su un popolo concepito non come un’entità data e preesistente, ma come un soggetto politico da costruire, un blocco sociale da aggregare attorno alla lotta contro il comune nemico di classe.

Perché questi esperimenti – da Sanders a Corbyn, da Podemos a France Insoumise, senza trascurare il pur atipico e ambiguo M5S – dopo una fase di crescita impetuosa sembrano oggi attraversare un momento di crisi e arretramento? La risposta più immediata è che queste forze non sono riuscite a sbarazzarsi completamente dell’eredità culturale delle vecchie sinistre: in nome di un cosmopolitismo confuso con l’internazionalismo, non hanno assunto coerentemente il tema della difesa dello stato-nazione come baluardo della democrazia contro il globalismo liberale, regalandone il monopolio alle destre nazionaliste; in nome di un anacronistico antifascismo, hanno ceduto alle lusinghe frontiste di socialdemocratici e liberali; in omaggio ai movimenti femministi non si sono sbarazzati del linguaggio politicamente corretto. Questa regressione è dovuta, in larga misura, al fatto che l’egemonia su questi progetti politici appartiene a strati intellettuali espressione dei ceti medi riflessivi: la base elettorale dei populismi di sinistra è trasversale, comprendendo settori di proletariato strappati all’egemonia dei populismi di destra a fianco di ceti medi precarizzati, ma questa composizione non si rispecchia nei gruppi dirigenti.

Riassumendo

Abbiamo appena detto che le sinistre non sono più in una relazione, né sentimentale né funzionale, con le classi subalterne, cioè con l’insieme di chi non ha il controllo del prezzo di ciò che ha da offrire e del quale vive, ottiene redditi marginali, non dispone di capitale adeguato in qualsiasi sua forma, è periferico, non accede a rendite. Le sinistre si sono allontanate dagli interessi materiali di questi segmenti di società, non ne capiscono cultura e desideri, sono ormai formate perlopiù da militanti, leader e anche elettori che vivono una relativa sicurezza e conservano un qualche controllo sulla propria vita.

Si è detto della profondità della crisi di tutta la cultura di sinistra: economicismo, progressismo, orizzontalismo- una crisi resa completa e totale dall’assunzione del mercato come unico principio d’ordine, rispetto al quale ogni tentativo di guida dall’esterno, da parte della politica, è impraticabile e immorale, mentre l’unico orizzonte legittimo dell’azione fonda sulla spontanea aggregazione di comunità volontarie e parziali, rivolte alla liberazione del consumo e all’espressione di sé. Alla realtà esistente si rimprovera solo il tradimento della promessa di libero godimento.

Ma tutto questo non basta: occorre integrare quanto fin qui detto con l’analisi dei limiti intrinseci alle forme e ai modelli organizzativi adottati da parte dei populismi di sinistra, e provare ad abbozzare un modello alternativo.

Arretramento progressivo del politico e allargamento dell’egemonia neoliberale

Nell’età moderna il comando che proviene da un principio esterno al corpo sociale, nella forma di un’autorità personale, diviene, progressivamente e a seguito di lotte condotte dal basso, espressione impersonale di una forma politica diffusa. In questo senso svolge un ruolo strategico il “partito”, che è articolazione della pluralità delle forze e degli interessi sociali. Questo processo trova storicamente una forma sistematica con la formazione dei partiti di massa e la progressiva estensione del suffragio universale. Il meccanismo attraverso il quale dai cittadini organizzati si traduce la sovranità, entro forme giuridiche e procedure istituite, è l’organizzazione di corpi intermedi a diverso grado di specializzazione che convergono nei partiti di massa. A parte la parentesi cosiddetta totalitaria, nella quale il partito si fa direttamente Stato, ogni grande partito di massa esprime una “parte”, ma anche l’aspirazione di questa a incarnare l’interesse generale. Questo modello, che ha occupato buona parte del Novecento entra in crisi con il passaggio dalla “piattaforma tecnologica” fordista a quella post-fordista, che è in parte intenzionale, per effetto di molteplici forze e trasformazioni: la crescita del benessere, lo Stato provvidenza che spegne da un lato la combattività dei ceti subalterni e dall’altro provoca la reazione difensiva di quelli dominanti, lo sviluppo di tecnologie informatiche che rendono possibile automazione e organizzazioni a rete delle grandi imprese spezzando la principale condizione di forza dei lavoratori, l’impatto di nuovi media “generalisti”.

È questo il contesto nel quale si afferma, gradualmente e poi irresistibilmente, l’egemonia neoliberale andando a sostituire, in particolare dopo il 1989, la cultura socialista. Si tratta di un processo graduale che prende forma negli anni Settanta (e in Italia accelera notevolmente a seguito dell’esito degli anni settanta, dopo i quali anche i principali partiti di sinistra cercano un compromesso e introiettano quote crescenti della cultura liberale).

Sotto la pressione di questi fattori tutti i partiti si ‘secolarizzano’ e diventano interclassisti, avvicinandosi al “centro” politico e sociale. La disgregazione sociale, insieme alla cetomedizzazione, declinante ma ancora forte, e l’individualismo caratteristico nella personalità “post-materialista” egemone, determinano l’evoluzione del “partito pigliatutto” in “partito piattaforma”, incentrato sulla comunicazione e finalizzato a ottenere il massimo impatto sui grandi media generalisti, saltando ogni corpo intermedio. Negli anni Novanta inizia l’invasione capillare dei new-media e la penetrazione della logica commerciale nel settore dell’informazione, l’atomizzazione della vita quotidiana, l’enorme estensione della precarietà, della flessibilità, delle forme di lavoro “atipiche”. In questa fase declinano irresistibilmente le identità collettive ed i corpi intermedi, ed emergono i movimenti post materialisti “a singola scelta”, che rivendicano il diritto al proprio benessere individuale (ecologisti, femministi di nuova generazione, ecc.). I principali partiti aumentano la distanza tra il vertice, che si chiude e sclerotizza, e la “base”. Si afferma una forma partito agile, “leggera”, nella quale le informazioni e le decisioni sono affidate a leadership carismatiche in cerca di velocità e semplicità di messaggio.

Questa è la fase in cui si afferma l’antipolitica, sincronicamente alla crescita del modello dello “stato regolatore”, nel quale enti terzi rispetto a quelli democratici, gestiti in modo tecnocratico, trovano legittimità non nella delega ma nella credibilità dei risultati che ottengono. Si tratta della consapevole fuoriuscita dal modello di democrazia costituzionale del dopoguerra, che ovunque in Europa consente ai governi, triangolando con gli organismi della Ue (Commissione, Consiglio, Bce, Corte di Giustizia), di controllare i rispettivi Parlamenti. La protezione dalla “tirannia” della politica maggioritaria, per porsi al sicuro dall’opinione pubblica, determina, però, il suo contrappasso: i cittadini sanno di non poter ottenere nulla e voltano le spalle alla politica. In questo contesto il successo arride a chi assume la postura del rigido censore, dell’inflessibile voce morale, del tutto disinteressata a sporcarsi con il potere. E’ il modello del “partito della sorveglianza”, una forma reattiva e programmaticamente sterile, adatta a paralizzare ma incapace di proporre soluzioni.

Allargamento della crisi e primo populismo

Con l’inizio del nuovo millennio si sono verificati alcuni slittamenti nella “piattaforma tecnologica”, tra i quali: un processo di riarticolazione territoriale e funzionale tra aree dinamiche e dominanti e aree svuotate e depresse (processo che viene nascosto a lungo dalla “economia del debito” che “compra tempo”, cfr. Streeck, 2013); nonché lo svuotamento della credibilità ed autorevolezza delle autorità culturali e politiche costituite, per effetto anche di un’interconnessione acefala e incontrollabile che rende intercambiabile ogni informazione. Nelle aree deboli procedono intanto flessibilizzazione e precarizzazione. Comincia ad emergere una domanda di protezione, ma ancora coperta da risentimento e senso di abbandono. Tutto il primo decennio vede l’estensione della mondializzazione ed i suoi effetti in direzione della perdita di lavori stabili, precarizzazione difensiva, deflazione importata, riduzione degli investimenti in occidente per carenza di domanda; un processo sociale di “consolidamento deflattivo” che per sua natura non può durare. Schematicamente la struttura sociale si organizza secondo due assi, tra chi è in grado di disporre delle fonti di potere grazie alle quali è in grado di determinare il proprio valore e chi, pressato dalla competizione e deprivato delle fonti di potere individuali è costretto ad accettare la determinazione di valore altrui, sintetizzo tale concetto con “fare e subire” il “prezzo”. Il secondo asse è un gradiente tra le aree “centrali”, nelle quali si addensano, si rafforzano e si valorizzano reciprocamente le risorse, e le aree “periferiche”, nelle quali, di converso, i fattori si diradano e si indeboliscono reciprocamente precipitando nelle forme più distruttive di concorrenza. Lungo questa struttura si organizza diagonalmente la gerarchia sociale.

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Questo è il contesto nel quale maturano rivolte popolari, essenzialmente promosse dai ceti medi traditi dalle promesse, dai “lavoratori della conoscenza” che si sentono sovra istruiti e sottoutilizzati, e che esprimono una particolare miscela di individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione destrutturata.

Sui movimenti effimeri che ne seguono (“Occupy”, “Indignados”, “no global”) si innestano le esperienze del “primo populismo”, sia di destra, sia di sinistra, che assorbono i modelli disponibili del “partito della sorveglianza” e del partito agile, leaderistico, aggregativo di istanza eterogenee. L’esempio di maggior successo è il Movimento 5 Stelle, seguito dalle fiammate effimere di Podemose di France Insoumise. Pur con le loro notevoli differenze si tratta di “non-partiti”, progettati per raccogliere un consenso elettorale senza porsi il problema di tradurlo in scelte operative concrete. Questa contraddizione è inscritta nel modo in cui sono costruiti, e quindi nelle forze che aggregano. Tutti cercano di sfruttare il sentimento di rancore e disillusione dei ceti intermedi e scolarizzati che si sentono profondamente traditi, e puntano sulla opposizione, pre-razionale e capace della più larga condivisione, a un potere sentito come lontano ed ostile.

Questo modello raggiunge rapidamente un grande successo, portando i partiti in oggetto a consensi attorno od oltre il 20%. Ma l’idea che il discorso politico sia in qualche modo autosufficiente e che si tratti solo di costruire su “faglie di antagonismo”, aggregando forze eterogenee con discorsi emozionali, ha i suoi limiti. Questa idea che si possano rendere equivalenti posizioni sociali e radicamenti differenti, facendo di tante diverse soggettività il proprio “popolo” ed ottenendone il consenso è calibrata esclusivamente sulla ricerca del potere. Detto in altro modo, il modello politico teorizzato da Laclau (e fatto proprio da M5S, Podemos e France Insoumise) sembra adatto per crescere, ma non per governare. Ma il modo in cui cresci determina il modo in cui governi. Praticare la “produzione discorsiva del vuoto” non basta: alla fine bisogna creare terreno. Osservando in particolare il Movimento M5S: in una prima fase sembrava un “partito del leader”, ma poi è cresciuto superandolo, fino alle ultime elezioni, nelle quali potrebbe aver cambiato ‘base di massa’ (perdendo le quote orientate culturalmente a destra). Quando è andato al governo, in seguito alle elezioni del 4 marzo 2018, raccoglieva consenso sulla base di una opposizione pre-razionale ad un potere sentito lontano ed ostile. In questo modo ha raccolto il consenso di un terzo scarso (al sud della metà abbondante) di italiani che si sentono messi a margine e provano risentimento. Ma questo stato d’animo fondante, che ispira parole d’ordine a-politiche (onestà versus casta), diventa altamente rischioso se si va al governo. Il primo anno di governo ne è una controprova: l’M5S ha assunto una posizione difensiva verso il partner di coalizione rivendicando il ruolo di “partito di sorveglianza” che lo aveva fatto crescere (la postura del rigido censore, della inflessibile voce morale, del tutto disinteressata a sporcarsi con il potere), ma quello che, invece, non è riuscito a fare è rimettere i panni del politico. Quindi cercare soluzioni, una visione, un progetto di paese, ma questo è il difetto tipico di questo tipo di populismo.

I due casi più in vista, oltre a quelli probabilmente troppo particolari di Syriza del Labour, di marcato arretramento di una proposta neo-populista, sono Podemos e France Insoumise. Entrambi sono stati ispirati dal “populismo di sinistra” di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, e fondati su un forte ruolo di un leader noto e visibile e su una capacità di modulazione tattica rapida e spregiudicata. Ma chi cavalca la tigre della “sorveglianza” fatica a mantenere coerenza ed aspettative, la tentazione di procedere aggregando emozioni e manovrando tatticamente è invincibile (qualcuno potrebbe chiamare questo atteggiamento “leninismo senza strategia”). Va aggiunta una variazione della tecnologia di base della politica democratica: l’incidenza del “chiacchiericcio” sui social. Le inevitabili tensioni che si generano in strutture verticistiche senza strategia, tenute unite da obiettivi disparati e soggettività spesso narcisistiche vengono messe in piazza in diretta, e producono l’immediata revoca di fiducia per il sospetto di inautenticità. Questa arena, così diversa da quella nella quale era emersa e si era consolidata l’ipotesi populista (la prima Lega Nord, Forza Italia, alcune esperienze sudamericane) determina una crisi della strategia tutta “testa e comunicazione” nel momento in cui, crescendo, deve passare alla produzione di potere.

Crisi di crescita e di senso

Le elezioni del 26 maggio hanno prodotto un arretramento delle esperienze populiste di sinistra in tutti i paesi europei, e una secca sconfitta delle sinistre radicali, a partire da quella italiana. D’altra parte molte forze della destra ‘populista’ hanno confermato la propria forza (in Francia) o sono cresciute (in Inghilterra e Italia), ma non appaiono in grado di sopraffare – come paventato (per puro calcolo tattico) dalle élite neoliberali – le forze dell’establishment che pure saranno costrette a cooptare l’Alde e forse anche i Verdi (che si sono giovati della abile “operazione Greta”).

In questo quadro la stampa mainstream e le forze della conservazione europoide cantano vittoria e immaginano il riflusso dell’onda della protesta e la ristabilizzazione politica. Questa ipotesi è priva di senso. Le tensioni politiche che si scaricano nelle forze ‘populiste’, siano esse orientate a destra o a sinistra, non sono effetto dell’abile scelta di alcuni “significanti”. Al contrario: la produzione delle idee, le rappresentazioni che riescono a dominare la scena pubblica, sono intrecciate con le attività materiali nelle quali i soggetti che si attivano politicamente sono impegnati, come scriveva Marx “alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale” (Marx, 1846). O, in altre parole “l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”. Fino a che la freccia del grafico sopra presentato punterà verso l’alto, e sottrarrà energie e vita alla gran parte delle soggettività storiche concrete, la situazione politica, salvo episodi, non si stabilizzerà. Quel che sta avvenendo è, con riferimento alle esperienze guida francesi e spagnole, una “crisi di crescita”, nel senso stretto che è una crisi derivata dalla crescita e causata da questa (nel senso sopra espresso).

Per riconoscere e superare la crisi bisogna comprendere in che modo la natura di questa ha determinato l’impossibilità di conservare un consenso aleatorio al momento in cui si è chiamati a produrre potere e quindi risposte. Produrre risposte significa spostare quella freccia. Ma per tentare di farlo bisogna prendere una difficile decisione. Scegliere tra l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari, contendendo l’egemonia consolidata alla destra sul campo largo, ed ormai maggioritario, delle classi marginali, e la difesa delle aree di consenso residue che alla fine possono essere conservate solo su temi morali, data la divergenza degli interessi. Aver abbandonato la piattaforma delle elezioni presidenziali è costata a France Insoumise, oltre alla defezione di alcuni dei suoi esponenti più in vista, l’arretramento dal 20 al 6%. Aver ricondotto ad una polarità destra/sinistra molti temi, e aver accettato alleanze subalterne nella confusione strategica più completa, è costata a Podemos l’arretramento dal 25% al 10%, superato di tre volte dal Psoe, precipitando nel “vuoto strategico” denunciato da Manolo Monereo.

Momento Polanyi

Molti osservatori individuano una grande similitudine fra la situazione attuale e ciò che accadde sul finire dell’Ottocento, dopo una lunga fase di mercatizzazione della società che aveva prodotto fenomeni di disgregazione sociale talmente pronunciati da indurre, nell’arco di pochi anni, un generale collasso. E che ha generato movimenti difensivi volti a recuperare la solidità sociale e la stabilità necessarie alla esistenza stessa delle forme politiche attraverso nuove forme di protagonismo, pianificazione, collettivismo. All’esigenza di reincorporazione dell’economico nel sociale e nel politico, secondo la formula di Polanyi, furono trovate di sinistra (comunismo, socialdemocrazia) e solo successivamente liberali (New Deal), e, spesso come reazione, soluzioni di destra (fascismo, nazismo, salazarismo, etc.).

Oggi siamo ad un simile punto di biforcazione. Come nel caso storico citato sono all’opera forze potenti che sommano la propria forza nel destabilizzare la società e il sistema di potere contemporaneo: l’estremizzazione-mutamento della “piattaforma tecnologica” post-moderna e quindi delle sue strutture umane e sociali; la perdita di potenza relativa dell’egemone imperiale, in posizione di sfruttare la mondializzazione; il sorgere di rivali capaci di ostacolarne le strategie; l’esaurimento della strategia dell’unificazione come rigerarchizzazione inconfessata, divenuta impraticabile per il peso dei suoi costi economici e umani per i paesi subalterni, ridotti al ruolo di colonie interne nella catena “centri-periferia” mondiale.

Nelle fasi di mutamento storico di questa portata, che per certi versi assomiglia a quella vissuta dai padri del marxismo, le vecchie forme ideologiche e politiche vanno incontro ad una rapida obsolescenza e se ne formano di nuove, spesso con i materiali delle vecchie reinterpretati nel nuovo quadro. Ad esempio la fase che presiede al pieno emergere del modo di produzione capitalista a trazione industriale in tutta Europa, tra la rivoluzione francese (1789) e la sua evoluzione napoleonica (1815), vede in una settantina di anni venire meno in tutti paesi europei continentali la vecchia società dei privilegi fondata sulla rendita fondiaria e l’emergere da una parte di una forte borghesia nazionale, dall’altra di un vasto proletariato urbano. In questo processo di ridefinizione complessiva del modo di produzione, emergono e poi tramontano numerose proposte di riforma o rivoluzione dei rapporti sociali produttivi; si confrontano proposte liberali radicali di colorazione più o meno giacobina, ancora vive all’epoca della Comune di Parigi (1871). Per esempio la versione della rivoluzione sociale di Mazzini, quella di Proudhon e poi di Bakunin e di Marx.

Queste diverse tradizioni culturali ed ipotesi politiche, arrivano al confronto ed allo scontro nella I Internazionale(1872-76) e, a loro volta, emergono dal crogiuolo di numerose esperienze delle forze proto-socialiste, come il Cartismo (1834-1872) attivo nella lotta per il suffragio e poi confluito nel nascente movimento socialista, le proposte e tentativi di Owen e Fourier che ebbero significativa influenza sulla messa a fuoco dei temi e dei concetti portanti, ma anche nel mostrare le strade cieche. Dal fallimento, anche a seguito delle lacerazioni interne e delle rotture della I internazionale, quando i tempi maturano e in tutta Europa il capitalismo sta passando dalla fase concorrenziale a quella monopolistica e finanziaria, e dal colonialismo all’imperialismo, nasce la II internazionale(1889-1914) nella quale ormai sono presenti quasi solo partiti di ispirazione socialista (tedesco, austriaco, italiano, francese, russo), con la parziale eccezione dei blanquisti ed in una sola prima fase degli anarchici. E’ questa la fase nella quale il paradigma marxista si consolida.

Abbiamo oggi bisogno di una simile fase di ridefinizione di un paradigma aggregante le lotte ed i progetti di una nuova società dove siano possibili rapporti sociali ‘decenti’ (per usare la bella parola messa in campo a suo tempo da Owen). Per arrivarvi le diverse tradizioni, figlie di epoche ormai trascorse, ed alcune figlie delle sconfitte e dell’adattamento ad una egemonia (quella neoliberale) che a sua volta sta tramontando insieme alla “piattaforma tecnologica” ed ai rapporti geopolitici che la sostenevano, devono operare una fusione. La prima cosa necessaria per mettersi in questa prospettiva, oltre alla lotta spietata al settarismo ed al purismo (ovvero alla tentazione di reagire ad una fase di dolorosa confusione con il rinserrarsi nelle identità sfidate), è di decidere che la lunga ritirata è finita e che tutti gli strumenti che abbiamo usato per gestire la sconfitta sono oggi inutilizzabili.

Tra le cose da lasciar andare c’è l’idea che all’impolitico neoliberale non ci sia alternativa e che ad esso siano opponibili solo adattamenti subalterni. Ma se, secondo una lezione antica, “si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici” (Marx, 1846) si può comprendere che la forma di vita che si sta affermando, sotto la spinta destrutturante di un ulteriore salto di scala e della recrudescenza del conflitto imperialistico tra la catena dei “centri”, ed i loro abitanti, e la corona delle “periferie” (‘interne’ o ‘esterne’), con la massa disordinata ed inconsapevole dei diseredati e abbandonati, genera un nuovo tipo umano. Anzi, ne genera diversi. Per superare l’impolitico neoliberale bisogna recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità. Un bisogno che non è mai venuto meno, ma era sepolto sotto una corte di distrazioni di massa.

Per un partito-comunità

La sconfitta storica che ha catturato l’immaginario delle sinistre è oggi il primo e fondamentale ostacolo che impone questo necessario processo di reinvenzione. Tra le tecniche di gestione della sconfitta da abbandonare, c’è l’intersezionalismo e l’adattamento ai sentimenti e alla visione individuale ed edonistica. La sinistra che “cura” e si adatta alla sensibilità di oggi, è il nemico, come abbiamo detto nella prima parte.

Ne segue che, per andare oltre questa asfittica ‘base sociale’ residuale, e porre fine alla lunga ritirata, bisogna fuggire alla malattia che ha contagiato anche il “primo populismo”: la passione per l’agilità, la semplificazione, la comunicazione, il governismo. E attraversare con pazienza e determinazione, il faticoso lavoro di montaggio di soggettività e di fusione delle loro visioni del mondo. Ma anche di interpretazione del mondo, di rottura e di identificazione delle questioni dirimenti.

La forza per compiere questa trasformazione va trovata nella pazienza delle discussioni molecolari e delle pratiche di mobilitazione anche plurali e federali, e non necessariamente sin dall’inizio omogenee, per cercare la calda pesantezza di una nuova “base sociale” quanto più larga possibile. Nel “dilemma Kuzmanovic-Autain” bisogna correre il rischio di scegliere il primo per tornare all’offensiva, individuando con nettezza una nuova costituente sociale. In altri termini, bisogna fare leva sulle capacità di essere – per – l’altro che ognuno di noi ha, e sforzarci di creare comunità di discorso e di condivisione di obiettivi che sono la radice stessa del socialismo. Occorre, inoltre, una nuova capacità di costituirsi in “parte”, ancorandosi: 1) Alla capacità reticolare dei social, investendo nuovamente sulla militanza e l’adesione volgendo in forza la flessibilità dell’interconnessione, vivendo in larghe discussioni reticolari ed orizzontali; 2) ma anche alla capacità di mobilitazione diretta, plurale, faccia a faccia e nei luoghi, in particolare periferici. Farlo avendo come primo obiettivo la ricostruzione di socialità, oltrepassando per questa via l’individualismo liberale e richiamando la gioia di condividere obiettivi che oltrepassano la singola e piccola prospettiva, la gioia di essere – per – l’altro, ricostruendo le condizioni della libertà sociale che può scaturire solo dall’interno in una comunità integra. Il socialismo è principalmente questo: una nuova antropologia, più umana.