L’economia moderna come teologia

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da http://bollettinoculturale

In tanti anni gli storici del pensiero economico, ad eccezione di Lunghini, si sono limitati a sottolineare gli errori di Gramsci in ambito economico e la sua sostanziale inutilità per questa disciplina.

Tuttavia, in tempi più recenti questa tendenza si è invertita: anche grazie alla pubblicazione dei manoscritti inediti di Piero Sraffa, si è approfondito lo studio della critica gramsciana dell’economia.


In particolare, come la critica sugli aspetti filosofici, la questione dell’ideologia in Gramsci ci fornisce anche alcuni elementi per mettere in discussione le trasformazioni teoriche della scienza economica.

In termini generali, per Gramsci il capitalismo è il primo modo di produzione caratterizzato dalla netta separazione tra sfera politica ed economica. Dalla celebre rappresentazione del Tableau Économique, l’attività economica diventa fine a se stessa. Questa separazione dà origine all’economia come disciplina scientifica, data la necessità di avere una scienza del capitalismo.

Fin dall’inizio, quindi, l’economia si caratterizza per il suo tentativo di imitare le scienze naturali, adottando un metodo astratto (il metodo del “presupposto che”, nelle parole di Gramsci) e la logica deduttiva.

Per Gramsci, David Ricardo è il vero padre dell’economia e, attraverso la critica di Marx all’economia politica, la sua filosofia della prassi ha una certa relazione con essa. Sorprendentemente, secondo Gramsci, l’influenza ricardiana non è dovuta tanto agli sviluppi della teoria del valore ma al suo approccio astratto, per Gramsci: “il metodo ‘dato che’ della premessa, che segue una certa conseguenza sembra che sia da identificare come uno dei punti di partenza (degli stimoli intellettuali) delle esperienze filosofiche della filosofia della prassi ”.

Tuttavia, l’astrazione ricardiana è accettabile per Gramsci perché è anche “storicamente determinata”. Coerentemente con il punto di vista marxiano, Gramsci è anche convinto che l’unico metodo di ricerca corretto sia quello che riesce a coniugare storicismo, antideterminismo e astrazione, cioè avere come oggetto di studio un “mercato determinato” che non equivale a una pura astrazione:

Occorre fissare il concetto di mercato determinato. Come viene assunto nell’economia «pura» e come nell’economia critica. Mercato determinato nell’economia pura è una astrazione arbitraria, che ha un valore puramente convenzionale ai fini di un’analisi pedantesca e scolastica. Mercato determinato per l’economia critica sarà invece l’insieme delle attività economiche concrete di una forma sociale determinata, assunte nelle loro leggi di uniformità, cioè «astratte», ma senza che l’astrazione cessi di essere storicamente determinata”

Al contrario, il nuovo paradigma marginalista, dietro una facciata di serietà e scientificità, nasconde una prevalente dimensione ideologica, per cui la scienza moderna dell’economia somiglia alla teologia:

Si può domandare se l’economia pura sia una scienza oppure se essa sia «un qualche cosa d’altro» che però si muove con un metodo che in quanto metodo ha un suo rigore scientifico. Che esistano attività di questo genere è mostrato dalla teologia. Anche la teologia parte da una certa serie di ipotesi e quindi costruisce su di esse tutto un massiccio edificio dottrinale saldamente coerente e rigorosamente dedotto. Ma la teologia è perciò una scienza?”

Gramsci, dunque, non condivide l’idea di Croce secondo cui la conoscenza avanza sempre con carattere cumulativo e che, quindi, il nuovo paradigma marginalista meriti il ​​titolo di “economia pura” per la sua superiorità scientifica sulla filosofia della prassi. In linea di principio, si potrebbe pensare che l’idea del progresso della conoscenza potrebbe essere evidente nelle scienze naturali, se intendiamo il progresso come una “complessità strumentale”, lo sviluppo di nuove tecniche per una maggiore percezione del mondo, ecc. Tuttavia, dice Gramsci, anche nelle scienze naturali il significato di questo progresso non può essere dissociato dai rapporti di produzione sottostanti poiché tutta la scienza è legata ai bisogni della vita e dell’attività umana, da qui il carattere ideologico e storico della conoscenza scientifica.

Sulla stessa linea, riferendosi alla teoria economica, a causa del ripetersi di crisi e problemi sociali, la nozione di progresso nella conoscenza non sembrerebbe così scontata. In economia, i rapporti di produzione e le loro dinamiche sono un input per la ricerca.

Per questo, e in modo fondamentale, il significato che viene dato a questi eventi storici è parte costitutiva della disputa per l’egemonia e la costruzione della legittimità della classe dirigente.

Seguendo Gramsci, dalle trasformazioni nell’organizzazione sociale della produzione “si moltiplicano i programmi teorici che pretendono di essere realisticamente giustificati nella misura in cui risultano assimilabili da movimenti pratici, che solo allora diventano più pratici e reali”. In questo senso, la teoria economica appare come una rappresentazione strettamente correlata alle forze scatenate dai mutamenti della base materiale, che da un certo momento necessitano di essere giustificate, affinché le forze di governo possano essere efficienti ed espansive.

Allo stesso tempo, per parlare di progresso nella conoscenza in una disciplina, dovremmo essere in grado di circoscrivere ciò che diciamo di sapere. In modo simile a Veblen, per Gramsci, l’economia non è l’analisi teorica di un quadro chiuso, ma piuttosto la teoria di un processo le cui relazioni di causa-effetto non sono definitive, quindi il senso di verità non può essere definito in un modo meccanico.

Da qui emerge la seconda questione cruciale dell’analisi gramsciana dell’economia: l’analisi del fortunato caso americano come prodotto di una potente ideologia produttivista.

Come punto di partenza, Gramsci considera le trasformazioni subite dall’economia mondiale a causa della crisi degli anni Trenta. In Europa la risposta fu la reazione, il fascismo, mentre negli Stati Uniti fu la razionalizzazione della produzione, con l’approfondimento del taylorismo e del fordismo. Gramsci analizza questa questione in “Americanismo e fordismo” e cerca di comprendere queste differenze dalla configurazione della sovrastruttura in entrambi i continenti. In modo distintivo, gli Stati Uniti non hanno grandi tradizioni storiche e culturali, hanno ereditato la morale puritana che ha come caratteristica la visione che la vita pubblica dovrebbe essere coerente con gli atti privati ​​e c’è naturalmente una composizione demografica razionale, per l’assenza di settori settori sociali improduttivi e redditizi. In Europa, invece, accade il contrario, poiché la storia passata ha lasciato una serie di sedimentazioni passive: personale statale, clero… che vivono di attività subalterne di produzione. Di conseguenza, negli Stati Uniti, Gramsci afferma:

“È stato relativamente facile razionalizzare la produzione e il lavoro, combinando abilmente la forza (distruzione del sindacalismo su base territoriale) con la persuasione (alti salari, diversi benefici sociali, propaganda ideologica e politica altamente qualificata) e riuscendo a basare l’intera vita del paese sulla produzione. L’egemonia nasce dalla fabbrica e non ha bisogno di essere esercitata se non da un numero minimo di intermediari professionali della politica e dell’ideologia “

In questo senso, per Gramsci, la caratteristica rilevante dell’adattamento differenziale alla crisi è la capacità dell’economia americana di adattarsi alla nuova organizzazione della produzione. Negli Stati Uniti la classe dirigente deve solo costruire l’egemonia in fabbrica e la nuova razionalità riesce ad imporsi all’intera società, senza che sia necessario legittimare un grande sviluppo intellettuale. In qualche modo, possiamo dire che in questo caso è la struttura che si riflette immediatamente e senza mediazioni sulla sovrastruttura, producendo un’ideologia e un “american way of living” basato sull’accumulazione e sulla ricerca spasmodica del guadagno personale.

Il metodo di costruzione della conoscenza dell’economia mainstream moderna si basa sulla famosa proposta metodologica di Friedman. Pertanto, le sue basi epistemologiche corrispondono al verificazionismo ipotetico-deduttivo. In questo senso, il criterio di demarcazione della scienza economica implica la costruzione di teorie che contengono ipotesi suscettibili di essere verificate empiricamente.

Tuttavia, la verificabilità della teoria non ha a che fare con la capacità descrittiva dei postulati di base ma con la sua capacità predittiva.

In particolare, sulla base del lavoro di Friedman, l’approccio metodologico in economia considererà gli aspetti del verificazionismo come criterio per la scientificità dei postulati teorici e un maggior grado di astrazione come elemento desiderabile dei postulati di base.

D’altra parte, la rilevanza descrittiva o il realismo di un postulato di base cessa di per sé di essere criterio sufficiente per rifiutare o accettare un’ipotesi tra le altre. Per Friedman, una teoria è più semplice e più fruttuosa nella misura in cui necessita di meno ipotesi (realistiche o meno) per fare previsioni più accurate.

Tuttavia, come in altre discipline, il verificazionismo in economia ha gli stessi problemi della tesi di Duhem-Quine. Se effettuando la verifica empirica si ottengono risultati contrari a quelli attesi, l’incompatibilità tra teoria e realtà può sempre essere spiegata dall’esistenza di un postulato verificabile empiricamente (qualche shock non considerato, un controllo assente o un dato idiosincratico che non si adatta al modello generale), che alla fine mantiene preservato il “nucleo teorico”. Il modo per spiegare la nuova prova è quindi includere ipotesi ausiliarie o ad hoc che spieghino questi casi particolari senza contraddire la teoria astratta più generale.

L’economia mainstream inizia così a percorrere un terreno paludoso: se non è sufficientemente evidente, qualsiasi risultato sfavorevole che la teoria prevede e non viene realizzato, può sempre essere attribuito a un errore nella sua applicazione, cioè dell’economista e non ad un errore d’arte, cioè di teoria.

Allo stesso tempo, il livello più elevato di astrazione dei postulati di base diventa esso stesso un segno di maggiore scientificità e generalizzabilità. A partire da ciò, dobbiamo collocare la matematizzazione della disciplina a partire dagli anni Cinquanta e l’adozione della rappresentazione delle dinamiche economiche con gli strumenti della fisica termodinamica. Nella moderna corrente economica dominante, la matematica comincia allora ad essere trattata come un totem, cioè un fine a se stesso che funge da criterio di status tra i diversi economisti.

Marx e Gramsci indicano alcune linee dalle quali possiamo trovare risposte sugli aspetti metodologici in sospeso nella scienza economica convenzionale contemporanea.

In primo luogo, sia Marx che Gramsci mettono in discussione il trasferimento del metodo scientifico dalle scienze naturali alle scienze sociali. Poiché pongono il problema scientifico in astratto, la ricerca dovrebbe essere orientata alla ricerca di leggi, linee costanti, regolari e uniformi, legate all’esigenza di risolvere problemi pratici di prevedibilità nel senso esplicito che la definizione di scienza ha nelle indagini fisiche.

Tuttavia, questo metodo applicato alla “previsione delle questioni storiche”, come utilizzato in economia, non ha senso. Per Gramsci, in particolare, “è realmente ‘anticipato’ nella misura in cui è fatto, in cui viene applicato uno sforzo volontario e, quindi, concorre concretamente a creare il risultato ‘anticipato'”. Il riferimento diretto a questo è il criterio di scientificità adottato dal mainstream economico e proposto da Friedman e Machlup.

La previsione degli eventi storici dipende dall’azione presente, è storicamente condizionata ed è per definizione inconoscibile. Pertanto, basare una metodologia scientifica su questi criteri è un grave errore concettuale.

In alternativa, sia Marx che Gramsci suggeriscono una metodologia che non nega la dimensione ideologica delle scienze sociali, ma anzi la circoscrive a premesse e interpretazioni, attraverso un metodo astratto ma storicamente determinato, cioè corroborato da evidenze empiriche.

In relazione a ciò, Gramsci si sofferma anche a problematizzare l’affermazione di fondare una metodologia scientifica su una logica puramente formale. L’idea di fondo di questa critica è che non c’è pensiero “in astratto”, ma che ogni rappresentazione è storicamente condizionata. Questo dibattito si riflette nel famoso scambio tra Wittgenstein e Sraffa, dove si avverte con una certa chiarezza l’influenza del pensiero di Gramsci. La filosofia di Wittgenstein sosteneva che la proposizione e ciò che descrive dovevano avere la stessa forma logica, con uno stretto parallelismo tra realtà e linguaggio. Tuttavia, dopo “sfregarsi le dita sotto il mento” (il gesto napoletano del “non mi interessa”) Sraffa mette in dubbio la forma logica che Wittgenstein darebbe a quel gesto. Il punto che Sraffa sta cercando di sottolineare è il modo in cui le convenzioni sociali possono influenzare il significato attraverso espressioni e gesti, senza avere una stretta correlazione tra l’una e l’altra.

Il ricorso a categorie astratte o la tendenza alla matematizzazione era un aspetto sempre più importante della disciplina dopo la Seconda guerra mondiale. L’intenzione del nuovo mainstream neoclassico (dopo Samuelson) era di far assomigliare le dinamiche economiche ai modelli termodinamici della fisica.

In primo luogo, la formalizzazione implica la considerazione di relazioni permanenti nei mercati che potremmo riassumere come “invarianza delle relazioni strutturali”. Questo può essere valido nelle scienze naturali come la fisica o la biologia. Tuttavia, non è il caso dell’economia. Seguendo Marx e Gramsci, fin dalla comparsa della critica all’economia politica, sappiamo che i mercati e il loro automatismo non sono eterni, ma sono il risultato di una costruzione storica, che ne determina la scadenza, proprio come la scienza che lo analizza. 

Allo stesso tempo, in termini di sviluppo della matematica dei sistemi dinamici, la matematica adottata in economia è una matematica obsoleta che, anche quando è stata incorporata nell’economia, era già diventata obsoleta. In questo modo, i modelli sono diventati il ​​totem moderno della tribù degli economisti, cioè un feticcio che non sempre fornisce un progresso significativo nella conoscenza dell’economia. È difficile credere allora che l’obiettivo fosse il progresso scientifico della nostra disciplina e non, come suggeriscono Marx e Gramsci, una grande operazione ideologica che si concluse con l’emarginazione delle teorie “eretiche” e la difesa dello status quo, in particolare dopo l’intensità del conflitto di classe nel biennio 1968-69.

Sebbene ciò sia implicito, è ovvio che questa svolta verso la formalizzazione non è stata una trasformazione naturale. La costruzione di un modello implica l’elaborazione di una “realtà fittizia” che volontariamente assume alcuni aspetti del fenomeno economico, ma ne scarta intenzionalmente altri. In questo senso, con la matematizzazione si perde il realismo dei postulati, allontanando la disciplina dagli aspetti storici e istituzionali.

Un altro aspetto metodologico che potremmo mettere in dubbio partendo da Marx e Gramsci è l’oggettività della conoscenza scientifica. In termini generali, Gramsci considera la questione se la scienza possa dare la certezza “dell’oggettiva esistenza della realtà esterna”.

In linea di principio, la realtà oggettiva esterna è un presupposto filosofico, su cui la scienza non può fornire prove. Tuttavia, la scienza può ordinare il caos del mondo, selezionando quegli aspetti permanenti. In questo senso, conoscere implica sviluppare nuovi concetti per affinare gli strumenti dell’esperienza. Questo è chiaro nelle scienze naturali, dove lo sviluppo scientifico potrebbe essere strettamente correlato allo sviluppo dello strumento dell’esperienza e alla sua verifica. Da questa prospettiva, l’oggettività è intesa come quell’esperienza che può essere “verificata da tutti gli uomini, che è indipendente da qualsiasi punto di vista, sia esso semplicemente individuale o di gruppo”. Tuttavia, tutto ciò che la scienza afferma non è oggettivamente vero in modo definitivo, poiché non è possibile affermare l’esistenza della realtà in quanto tale al di là del rapporto con l’uomo. E come l’uomo è divenire storico, così lo sono la conoscenza e la realtà e, quindi, per Gramsci la scienza è una categoria storica e una categoria in continuo sviluppo.