Per un’inchiesta sul nuovo mondo del lavoro

industria lucchettodi Stefano Barbieri per Marx21.it

Alcuni giorni fa, a firma di Luca Piana, l’Espresso ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente : “Addio al Lavoro: l’industria non c’è più.”

Esso ha il pregio di analizzare seriamente e lucidamente lo stato drammatico di quel settore che, sino a qualche anno fa, consentì all’Italia di attestarsi al quarto posto come potenza industriale, precipitando poi, grazie alla mancanza di una politica seria da parte dei vari governi in tal senso (non esiste un piano industriale nel nostro Paese da più di venticinque anni) e alla pochezza del capitalismo nostrano, nelle condizioni attuali che sono pienamente riconducibili al titolo dell’articolo in questione.

Nel testo si parte da una prima analisi relativa al principale gruppo metalmeccanico italiano, la Fiat, la quale  “Un quarto di secolo fa dava lavoro in patria a 237 mila persone, su un totale di 303 mila nel mondo. Nel 2015 il numero complessivo è identico, sempre 303 mila, ma lo è soltanto grazie alle acquisizioni all’estero, a cominciare dall’americana Chrysler. Oggi le attività industriali della famiglia Agnelli, le auto, i camion, i trattori, raggruppate sotto la holding Exor, contano 100 mila addetti in Nord America, 53 mila in America Latina, 84 mila in Italia e il resto in giro per il mondo. In venticinque anni, dunque, in Italia solo la Fiat ha visto svanire oltre 152 mila posti di lavoro, aumentandoli invece enormemente all’estero”.


Giova inoltre ricordare che FIAT, oggi FCA, può a tutti gli effetti non considerasi più un impresa italiana. Nel novembre 2012, dopo la fusione con Cnh, Fiat Industrial ha spostato la sede legale in Olanda e il domicilio fiscale nel Regno Unito, con tutti i benefici fiscali che ne conseguono. Stessa sorte per Fiat Chrysler, fondata a gennaio 2014 già con le doppie radici ad Amsterdam e Londra. Discorso uguale per Ferrari, con lo scorporo da Fca e il doppio trasloco datati ottobre 2015.

Il tutto con buona pace di governi di vario colore che hanno finanziato la famiglia Agnelli per oltre 40 anni, fino a regalargli di fatto l’Alfa Romeo.

Pesano poi come macigni altri numeri “.. nel 1990 l’industria dava lavoro a 5,8 milioni di italiani; dieci anni più tardi era scesa a 5,1 milioni. Con l’inizio del nuovo millennio le cifre hanno ballato su e giù per un po’, mostrando addirittura un lieve aumento nel biennio precedente la crisi del 2008. Con la recessione, però, è arrivato un nuovo collasso, ancora più profondo: nel 2014 gli addetti dell’industria erano scesi ormai a 4,5 milioni, un numero rimasto fermo anche nel 2015, quando nell’intero Paese l’occupazione è tornata a crescere. Nei primi sei mesi del 2016 la musica non è cambiata, anzi: il numero degli occupati nell’industria è sceso – anche se di pochissimo – sotto la soglia dei 4,5 milioni, mentre nel complesso dell’economia i posti di lavoro rilevati dall’Istat sono aumentati di 222 mila unità. Difficile che le cose possano cambiare molto entro la fine dell’anno, nonostante l’aumento registrato in agosto dalla produzione industriale (+4,1 per cento su base annua).”

Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria nonché collaboratore de “l’Espresso”, ha pubblicato pochi giorni fa il saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino). Alla domanda del titolo, nel libro Berta risponde in modo articolato e complesso. Tuttavia, ammette lui stesso in un passaggio, guardando «l’architettura storica del sistema delle imprese» la conclusione più immediata sarebbe dire che, semplicemente, il capitalismo italiano «non esiste più».

Questa considerazione è suffragata da dati di fatto indiscutibili. Sostanzialmente scomparsi dalla scena due colossi industriali privati come Olivetti e Montedison, sono piombati in una crisi sistemica anche pezzi di industria che, un tempo, occupavano migliaia di persone quali, per esempio, Ilva, Alitalia, Fincantieri.

“La prima, passata per la privatizzazione e la gestione della famiglia Riva, è ora commissariata per i danni ambientali causati a Taranto, aggrappata a una vendita che slitta di volta in volta. Alitalia fatica a trovare un rilancio nonostante sia stata radicalmente ridimensionata e abbia accolto in plancia di comando gli emiri di Etihad. Fincantieri è sempre controllata dallo Stato, attraverso la Cassa depositi e prestiti, e conserva il baricentro in Italia, ma agli otto cantieri navali sul territorio nazionale ne affianca ormai cinque in Norvegia, tre negli Stati Uniti, due in Romania, altrettanti in Brasile e uno in Vietnam. Risultato: fra il 1990 e il 2015 i dipendenti sono cresciuti un po’, da 20.623 a 21.120. Prima però erano tutti in Italia; ora ne è rimasto appena uno su tre.”

Un’ulteriore riflessione meritano i dati tra le cosiddette new entry:

“Hanno fatto il loro ingresso i supermercati, con il gigante del sistema cooperativo – la Coop – che è ormai il quarto datore di lavoro tricolore, seguito in nona posizione dall’Esselunga dei Caprotti. Ed è entrata la famiglia Benetton, con la holding Edizione. Anche qui, però, c’entrano poco i maglioncini che avevano proiettato Luciano e i suoi fratelli al vertice dell’industria tessile e dell’abbigliamento mondiale. Il grosso dei dipendenti, oltre 40 mila su un totale di quasi 65 mila, il gruppo Edizione li conta infatti nel settore della ristorazione, dove i Benetton hanno debuttato acquistando dallo Stato l’Autogrill, per allargarsi in tutto il globo con 250 marchi diversi, dalla cucina asiatica dei ristoranti Pei Wei alle birrerie Gordon Biersch. Poi seguono le concessioni autostradali e aeroportuali, anche quelle acquisite via privatizzazione, con 14.600 dipendenti. Ultimo arriva l’abbigliamento, che occupa 9.164 persone. Nel complesso, però, i lavoratori italiani sono poco più di uno su tre, sul totale dei 65 mila nel mondo. Mentre i Benetton si muovono sempre più da investitori finanziari, puntando su settori meno rischiosi, lontani dalle frontiere dell’industria.”

Sui motivi di questi arretramenti occupazionali nel settore privato occorrerebbe indagare seriamente, di certo un contributo fondamentale lo hanno dato, come si evince anche dall’articolo, la frantumazione delle fasi produttive che un tempo venivano realizzate all’interno della stessa fabbrica e che oggi sono affidate a terzi, magari in Paesi dove la manodopera costa meno, così come «l’incapacità italiana di gestire le grandi imprese e i metodi di governo societario che richiedono».

Gli esempi possibili sono potenzialmente infiniti, dalla crisi dell’Alitalia allo smembramento della Montedison post Ferruzzi, causato dalla scalata favorita dalla Fiat per scopi puramente speculativi, mentre un caso particolare è quello dell’industria pubblica che un tempo faceva capo all’Iri.

Di grande interesse la considerazione che l’inchiesta dell’Espresso esplicita così:  «I dati dimostrano che, in Italia, gli investimenti più massicci sono sempre stati fatti dalla mano pubblica. Quando il duopolio fra l’industria di Stato e le grandi famiglie è venuto meno, perché la prima è andata dissolvendosi e le seconde hanno venduto le loro attività, il nostro modello produttivo – che rappresentava un vero e proprio sistema di economia mista – è stato definitivamente disarticolato, senza che fosse pronto un modello alternativo», a smontare così la teoria iper liberista che affida al mercato ed all’investimento privato la soluzione per la ripresa economica del nostro Paese (come di ogni altro, a dire il vero).

Naturalmente, la crisi economica non ha colpito solo il nostro Paese, ma l’Espresso evidenzia la ricaduta della stessa in altri parti di Europa, dalla quale si possono verificare i seguenti dati, non recenti, ma comunque sinonimi di una tendenza: “La tedesca Volkswagen nel 1993 aveva 260 mila dipendenti, che nel 2009 erano saliti a 376 mila. La Siemens nello stesso periodo aveva tenuto botta, restando sempre sopra la soglia dei 400 mila. Un altro gigante tedesco della componentistica, Bosch, era salito da 165 a 271 mila, mentre i pneumatici Continental avevano più che raddoppiato, salendo da 50 a 133 mila addetti. Il colosso alimentare svizzero Nestlé era passato da 214 a 278 mila, la multinazionale francese del vetro Saint Gobain da 96 a 199 mila.”

E’ quindi evidente che le causa della situazione italiana hanno una peculiarità “in patria” e qui, impietoso, arriva il giudizio sul “nanismo” dell’imprenditoria italiana: “..quello che colpisce, in Italia, è soprattutto il fatto che dal basso non sia emerso nessun attore industriale di peso, capace di occupare gli spazi liberati dai big in disarmo o di sfruttare le occasioni offerte dallo sviluppo di molti nuovi mercati , un tempo inesistenti. Le patologie dei “top ten” di un tempo, dunque, erano presenti anche nei gruppi di taglia inferiore. Marco Tronchetti Provera ha venduto il controllo della Pirelli al gruppo statale cinese Chemchina, la famiglia Pesenti l’Italcementi alla tedesca HeidelbergCement e gli eredi Merloni la storica Indesit all’americana Whirlpool, facendo scomparire l’ultimo grande produttore italiano di elettrodomestici, un comparto che un tempo pullulava di dinastie imprenditoriali, da Zoppas a Zanussi.”

Sono centinaia i casi di crisi del capitalismo definito “di seconda generazione”, dove i figli dei fondatori non sono stati in grado di portare avanti le aziende dei padri», come racconta con un esempio il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl, Marco Bentivogli: «Mi ricordo il momento durissimo di un’acciaieria del Nord Italia, seguito alla scomparsa del proprietario. Mi creda, per portare il figlio al tavolo delle trattative siamo andati a prenderlo in spiaggia a Formentera».

In un suo recente libro, intitolato “Abbiamo rovinato l’Italia?”, Bentivogli cita i dati di uno degli indicatori più importanti della salute generale dell’industria, la domanda mondiale d’acciaio, messi a confronto con i profitti che gli imprenditori si sono distribuiti sotto forma di dividendi: «Ebbene, negli anni che vanno da 2005 al 2007, quando l’economia tirava ma si stavano per manifestare gli effetti più duri della globalizzazione, gli imprenditori italiani invece d’investire per fronteggiare la concorrenza hanno pensato soprattutto al benessere delle proprie famiglie», spiega il sindacalista, che rintraccia in fenomeni come questo il motivo della crisi di produttività delle imprese italiane e aggiunge : «Si parla sempre dei salari, che però in media pesano soltanto per il 15 per cento sull’indicatore che misura la produttività, il costo del lavoro per unità di prodotto. Quello che è mancato davvero, in Italia, sono stati gli investimenti, la capacità di dare alle imprese una migliore organizzazione, la formazione del personale».

L’Espresso non omette, naturalmente, di evidenziare alcune aziende di successo italiane, come per esempio la Luxottica che 1990 aveva 2.605 dipendenti, oggi ne conta 78.933.

Un salto in avanti di tutto rispetto, ma  studiando i numeri da vicino, si può osservare che questa crescita esponenziale ha toccato in misura marginale l’Italia. Ben 42.313 dei suoi addetti, l’azienda specializzata nella produzione e nella vendita di occhiali li ha infatti in Nord America, 18.300 in Asia e nel Pacifico, oppure la veronese Calzedonia, un gruppo nato nel 1986, che ha ormai 32.382 dipendenti, 1.677 assunti nell’anno dell’ultimo bilancio disponibile, relativi al 2015, ma che  produce i suoi capi di abbigliamento – biancheria, lingerie, costumi da bagno – all’estero, in particolare in Sri Lanka, Croazia e Serbia, poi li vende nei negozi monomarca, diffusi in mezzo mondo. Così in Italia, la patria d’origine, i dipendenti sono solo una fettina del totale, circa 3.300.

Se la situazione dell’industria italiana è, quindi, questa, è evidente che “nuovi mondi del lavoro” non potevano che affacciarsi sul panorama economico del nostro (ma anche di altri) Paese.

Alcuni casi recentemente sono balzati all’onore della cronaca, sia per il dramma che in uno di essi era contenuto e cioè la morte di un lavoratore durante un picchetto, sia per la ribellione dei lavoratori che ha portato ad una mobilitazione importante come nel secondo caso.

Essi hanno in comune un tratto di fondo: la costruzione di un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti. Faccio riferimento naturalmente alla morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls, a Piacenza, il 17 settembre 2016.

Questa vicenda ha acceso i riflettori (naturalmente per spegnerli molto in fretta) sull’intero mondo della logistica che in un’economia funzionale al consumo e all’ibridazione tra consumo e produzione, ha un ruolo molto semplice: è interpretata come mero tassello utile alla fruizione del consumo stesso, che va assicurato a ogni costo. Ordino un prodotto online, deve arrivarmi il prima possibile.

In che modo questo avviene invece, non si deve sapere e non deve interessare. Infatti tu non parli mai con il facchino o l’autista che consegna: suona, molla il pacco e scappa via. Scompare qualsiasi traccia che colleghi il momento della produzione con quello del consumo, cioè da una parte, il facchino che vende la sua forza lavoro per un tempo illimitato e, dall’altra parte, il consumatore che ne beneficia in un tempo brevissimo. Una rottura che chiude la possibilità della solidarietà e apre le porte alla pura estraneità: così funziona il capitalismo oggi.

Trovo perfetta l’analisi di Marta Fana e Simone Fana, ricercatrice e studioso di sociologia, che su questo argomento scrivono in un saggio pubblicato recentemente:

“Dentro la catena della produzione, la logistica occupa un ruolo centrale e non più residuale. La globalizzazione e l’aumento degli scambi al livello internazionale hanno reso necessario un ampliamento del settore legato al trasporto e l’immagazzinamento delle merci: oggi è più facile acquistare un prodotto dalla Romania e riceverlo in pochi giorni a casa, così come è normale produrre in Bangladesh e vendere in un qualsiasi negozio di una piccola città di (quasi) ogni paese.

Per renderlo possibile, le diverse fasi del processo produttivo hanno dovuto subire una netta trasformazione: dalla fabbrica che tiene insieme tutte le fasi della produzione alla frammentazione e all’esternalizzazione delle diverse funzioni che caratterizzano l’intero processo.

È avvenuta così la terziarizzazione dell’economia: le imprese produttrici hanno scoperto che gestire da sole la distribuzione dei loro prodotti implicava costi troppo elevati, soprattutto in un mercato globale. Altre imprese avrebbero potuto gestire l’immagazzinamento e il trasporto delle merci di più aziende, riducendo il costo unitario di ogni singolo prodotto trasportato. All’interno di questo schema, la logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti.

È con l’intensificazione dei ritmi di lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato definito plusvalore.

La logistica, come settore di servizio, nasce e si consolida con l’obiettivo di minimizzare i costi tra il momento della produzione e quello della vendita: minori costi garantirebbero in teoria prezzi al consumo più contenuti, competitivi. Ma le aziende del settore logistico hanno anch’esse ovviamente l’obiettivo del profitto, al di là di quel che succede a monte e a valle della filiera.

Così il passaggio successivo è comprimere i costi, robotizzando alcune fasi e/o agendo sul costo del lavoro. Entrambi i meccanismi – frammentazione ed esternalizzazione da una parte, e robotizzazione dall’altra – producono un aumento del reddito dell’impresa e spesso non si escludono l’uno con l’altro. Al contrario, laddove non è possibile robotizzare, è con l’intensificazione dei ritmi di lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato comunemente definito plusvalore.

Nel modello italiano, ma non solo, l’uso intensivo della forza lavoro è indipendente dalla dimensione delle aziende coinvolte. Al contrario, ad accomunare grandi colossi e medie imprese, nel tentativo di ridurre al massimo il costo del lavoro, c’è l’uso delle cooperative, che sono spesso cooperative di comodo. Il risultato è: condizioni di lavoro, dal salario all’orario di lavoro, sempre peggiori, in alcuni casi vicine alla semischiavitù.”

E ancora: “La logistica, infatti, è considerata come un processo periferico nell’ambito della produzione capitalistica. Le attività di stoccaggio, trasporto merci e gestione delle scorte rappresentano fasi “rimosse” di un processo produttivo che invece si compie e si materializza nell’esercizio del consumo.

Ma sotto il velo della versione del capitale, in cui il consumo assolve i tratti di una funzione liberatoria in grado di soddisfare l’appetito del consumatore, c’è la materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana. L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione sociale, ossia della nostra vita.

L’intensificazione dei tempi di lavoro, che è un tratto tipico dell’organizzazione del lavoro nel settore logistico, mette in soffitta qualsiasi distinzione temporale tra il piano dell’accumulazione dei profitti nella sfera produttiva (il tempo del lavoro) e quella riproduttiva (il tempo libero). Gli operatori della logistica sperimentano nel quotidiano della loro attività la totale privazione di un tempo di vita libero, rappresentando un esempio concreto dei meccanismi di funzionamento alla base del sistema capitalistico.

Gli orari di lavoro che si spingono fino alle dodici ore consecutive sono il tratto evidente del controllo esercitato dal nuovo modello di produzione e consumo. Inoltre, la separazione tra chi produce e chi consuma maschera anche l’impoverimento generalizzato dei lavoratori.

Un’elevata percentuale di chi lavora nella logistica è composta da immigrati a cui non è riconosciuta quella sfera riproduttiva, quel tempo libero, di cui invece gode, magari fittiziamente, il precariato italiano.

Anche in altre sfere produttive, in particolare nell’ambito del terziario (servizi, ristorazione, cura) e del lavoro cognitivo, il modo più semplice per fare profitti è il prolungamento dei tempi di lavoro. Ma da periferia del modello produttivo ad avanguardia delle nuove forme di sfruttamento, è proprio il settore della logistica che coinvolge sempre più persone, si espande, e diventa una chiave di lettura utile per riconoscere le contraddizioni di fondo del progetto neoliberista.”

Frammentare la produzione e l’organizzazione del lavoro ha alimentato una crescente difficoltà per le organizzazioni sindacali di costruire lotte unitarie. Si sono così create nel tempo delle divisioni nell’ambito del movimento sindacale, arrivando a una scissione di fatto tra sindacati di base, più vicini alle rivendicazioni dei lavoratori del settore, e sindacati confederali più attenti a salvaguardare un piano di mediazione generale con il sistema dell’impresa.

I sindacati non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro.

Questa separazione ha determinato la vera difficoltà nel cercare di ottenere contratti collettivi che possano tutelare l’intero comparto produttivo e i diritti dei lavoratori coinvolti. La marginalità della logistica e la sua espulsione progressiva da un piano di regole costituzionali hanno accelerato quel processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro, che è all’origine delle tragiche notizie di cronaca.

Le grandi organizzazioni sindacali hanno registrato un limite evidente nella sottovalutazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro funzionali agli obiettivi dell’accumulazione capitalistica. In particolare, non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro, mancando di una visione complessiva sul funzionamento della macchina capitalistica. Hanno pensato di tamponare una slavina.

Si è accettato che produzione e consumo siano due dimensioni scisse, distanti, che non hanno a che fare l’una con l’altra. E la supremazia del diritto del consumatore all’acquisto della merce, come la distinzione gerarchica tra chi consuma e chi produce, hanno allontanato il sindacato dalla vera posta in gioco, che resta la messa in discussione dell’intero modello di sviluppo.

Da questa tendenza difensiva che privilegia la conservazione di una posizione di rendita per i sindacati, deriva l’incapacità di spostare la dimensione del conflitto verso l’insieme dell’organizzazione del lavoro per incidere invece su tutto il processo: produzione, logistica, vendita, consumo.

Questa questione, quella di un’organizzazione del lavoro funzionale alla massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro, ritorna prepotentemente anche nell’altro caso che citavo in precedenza: quello dello sciopero dei fattorini della Foodora.

L’azienda ha recentemente deciso, unilateralmente, di eliminare per i nuovi assunti la remunerazione fissa basata sul numero di ore lavorate e mantenere solo la parte variabile, legata alle consegne: 2,7 euro ciascuna. I nuovi lavoratori sono quindi pagati a cottimo in base a un contratto di collaborazione, di quelli in cui non c’è traccia di tutele e diritti minimi (ferie, malattia, contributi).

Il processo produttivo, se di produzione si può parlare, avviene attraverso un’applicazione per smartphone: vengono raccolti gli ordini che sono trasmessi in tempo reale ai relativi ristoranti e infine il fattorino di riferimento della zona riceve la notifica di una nuova consegna da fare. I lavoratori sono fattorini, operai della logistica, sebbene l’azienda preferisca definirli rider.

Le condizioni del lavoro rasentano quelle degli operai di una fabbrica inglese dell’ottocento.

Inoltre, anche in questo caso l’economia on demand non rappresenta un’innovazione che sviluppa nuovi mercati, ma ne trasforma di esistenti, abbattendo il costo fisso del lavoro, anacronisticamente, fino al cottimo. Si compie così un vero e proprio ribaltamento: l’assenza di un salario legale impedisce quella che un tempo era definita la libertà nel lavoro e cioè la possibilità di godere di un tempo di vita oltre il lavoro.

Una degenerazione che non riguarda solo l’Italia ma che investe più in generale tutti i paesi a capitalismo avanzato. Ma si sa, in Italia i lavoratori costano meno che nel resto d’Europa anche per la Foodora: per esempio in Francia un fattorino costa a questa azienda sette euro all’ora più due per ogni consegna. Salario a parte, il regime contrattuale francese è lo stesso: nessun rapporto di subordinazione formale, tutti collaboratori, imprenditori di se stessi.

Si stabilisce così un circolo vizioso per cui la corsa al guadagno e al consumo sempre più facile viene ancora una volta scaricata sulla parte debole della catena: il lavoro del fattorino di cui non si può fare a meno, sebbene si tenti in tutti i modi di sottrarlo alla sua vera essenza. In fin dei conti siamo di fronte a un atteggiamento storicamente coerente: l’ambizione del massimo profitto.

Eppure, in un’Italia che ha subìto inerme l’intero processo di liberalizzazione del mercato del lavoro, dal pacchetto Treu ai voucher buoni per qualsiasi uso, le proteste dei fattorini ci restituiscono la percezione che esiste un terreno di conflitto su cui agire per migliorare le condizioni della maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici.

La trasformazione del mondo del lavoro, che passa dall’indagine sullo stato dell’industria e finisce, in questo caso, sui nuovi mondi di cui sopra, ci chiama tutti ad una profonda conoscenza dei cambiamenti della società, dei suoi modelli produttivi e della ricaduta disastrosa sui diritti e sul diritto stesso del lavoro.

Come già sostenuto in precedenza, credo che non aver capito e studiato a fondo questi cambiamenti sia alla base della quasi scomparsa della sinistra in questo Paese ed, ancor più,  di una forza comunista che sappia essere interprete dei bisogni e capace di costruire una lotta di classe adeguata.

Suggerirei di partire da qui, dallo studio, da una sorta di INCHIESTA sul nuovo mondo del lavoro, di INDAGINE sulle cause e le conseguenze della trasformazione, a chiunque volesse, come noi comunisti, riprendere una strada che ridia la speranza di rappresentatività alle classi sociali ormai non solo più deboli, ma quasi totalmente estromesse nella società contemporanea.

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