La fine del tempo indeterminato dopo la modifica dell’art. 18

di Piergiorgio Desantis, giuslavorista

vendesi precari“Per il Governo la questione dell’articolo 18 è chiusa”, ha affermato Il Presidente del Consiglio Mario Monti a margine della conferenza stampa di presentazione della Riforma del mercato del lavoro. Le parole e i toni facevano intendere la fine di quest’ “incidente” della recente storia politica e sindacale italiana, che va sotto il nome di diritto alla reintegrazione per il lavoratore ingiustamente licenziato. Si torna, quindi, alle disposizioni del codice civile del 1942, che prevedono la possibilità di estinguere il rapporto lavorativo solo con la volontà di una delle parti, salvo l’obbligo di preavviso.

Si demolisce, in questo modo, il compromesso tra capitale e lavoro, alla luce del quale si è cercato di gestire le relazioni industriali in Italia da un cinquantennio a questa parte. Si resta sbigottiti dalla parificazione forzata tra la libertà imprenditoriale di muovere il capitale e la slavina che investe la vita, la libertà e la dignità umana del lavoratore.

“L’Italia risponde ora (…) a chi chiedeva a gran voce questa riforma: l’Europa, il Fondo monetario, i mercati”, sono le parole di Monti per giustificare la modifica dell’articolo 18. Le aziende possono (e devono) essere chiuse facilmente; il lavoratore può solo subire le scelte economiche, che siano di diversa allocazione o di risanamento, operata da parte datoriale.

Dall’analisi di quest’articolo, per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori, sembrerebbe che il Governo voglia mantenere esclusivamente il diritto alla reintegrazione nel caso di allontanamento per ragioni legate a posizioni politiche, religione, razza, lingua o sesso. Premettendo che i licenziamenti discriminatori sono perseguiti in ogni Stato, si tratta di un’ipotesi puramente residuale, poiché, oltre ad essere di difficile dimostrazione, è anche un onere a carico del lavoratore.

Invece, passando ai licenziamenti disciplinari, ossia quelli per “giustificato motivo” soggettivo, essi si distinguono in due tipologie: quelli per colpa grave del lavoratore (con diritto al preavviso) e quelli per “giusta causa”, ossia per una gravissima violazione degli obblighi contrattuali (senza diritto al preavviso); nella previsione ancora vigente, se è accertato dal giudice che non esistano i motivi suesposti, il lavoratore ha diritto a riottenere il proprio posto. Nella versione del Governo, invece, sarà affidato al giudice la possibilità di decidere se reintegrare o erogare un indennizzo che va dalle 15 alle 27 mensilità. Questa soluzione, che viene fatta passare per il “modello tedesco”, attribuisce un potere discrezionale all’organo giurisdizionale. Essa appare, inoltre, contrastante con i cronici e lunghi tempi della giustizia; i tribunali italiani, infatti, sono già ingolfati dal quotidiano carico di lavoro (a maggior ragione con l’ondata di procedure fallimentari di cui sono investiti).

Infine sono previsti i licenziamenti per motivi economici, ossia per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. Quest’ultimi si dividono in due categorie: la prima comprende i licenziamenti collettivi, ossia quelli che riguardano oltre i cinque lavoratori mandati a casa. In questo caso, si attiva una procedura sindacale, come da art. 4 e ss. della legge 223/1991, che determina di fatto, come da giurisprudenza consolidata, l’impossibilità di sindacare le scelte di parte datoriale circa gli eventuali esuberi di personale. La seconda categoria, invece, riguarda i licenziamenti individuali per motivi economici, per i quali l’intervento peggiorativo del Governo Monti è evidente: si passa dal diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente ingiustamente licenziato, al solo indennizzo economico compreso tra le 15 e le 27 mensilità. E’ questa la “valvola di sfogo” creata per il mercato del lavoro: in essa finiranno i lavoratori di cui si avrà necessità di dismissione. Essi saranno, tra gli altri, anche quelli più “costosi” ovvero con un’età avanzata, che verranno espulsi con facilità dallo stesso. Questa norma, oltre ad essere con ogni probabilità applicata anche in forma distorta, renderà il datore di lavoro libero e non sottoposto ad alcun vaglio o vincolo nella sua piena “licenza di licenziare” (1).

Nella conferenza stampa di presentazione della Riforma del mercato del lavoro, il Ministro Fornero ha affermato che il Governo voleva porre nuovamente al centro, quale contratto di riferimento, il lavoro subordinato a tempo indeterminato. Dalla comprensione dei propositi governativi, questa prospettiva sembra essere semplicemente non corrispondente alla realtà: il contratto di lavoro stabile a tempo pieno e indeterminato, già da oltre un ventennio, non è più “la stella polare del diritto del lavoro” (2). Ciò è confermato anche perché tale forma contrattuale “ha cessato d’essere il paradigma della contrattazione collettiva” (3).

Con un’espressione forte, ma densa di significato, possiamo affermare che il contratto di lavoro a tempo indeterminato, semplicemente, non esisterà più. La ragione sta proprio nel depotenziamento e nella compressione dell’articolo 18. Quest’ultimo non potrà più agire in funzione preventiva e protettiva dei diritti dei lavoratori ingiustamente licenziati. Si introduce, in sostituzione, il classico rimedio liberista dei “soldi in cambio di diritti”. Siccome è tutto monetizzabile, perché non farlo anche con il diritto del lavoro? A ciò è connessa la revisione di fatto della Costituzione e dei suoi principi, tra cui la libertà di iniziativa economica, prevista dall’articolo 41. Se questa riforma andrà avanti, si concentrerà nelle mani del datore di lavoro un eccesso di potere: nascerà un imprenditore di nuovo tipo, contrario allo spirito ed ai precetti costituzionali, ossia legibus solutus.

Note:

(1) U. Romagnoli, Licenza di licenziare, Il Manifesto 8.1.2012.
(2) U. Romagnoli, Il diritto del lavoro in Italia, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 195.
(3) B. Trentin, Relazione alla Conferenza di programma della CGIL, in Rass. SInd., nn. 22-23 (1994), p. VIII.