«Concentrare tutte le forze» contro «il nemico principale»

togliattidi Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione politica e culturale MARX XXI*

Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi
LEGGI IN FORMATO PDF

«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».

(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)

1. Democrazia e pace?

Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182).

Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).

Nonostante non indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica:

«La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».

Non si doveva neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).

Dunque, ben lungi dall’essere sinonimo di pace, le democrazie borghesi si erano rese e continuavano a rendersi responsabili di guerre non poche volte di carattere genocida. In ogni caso, agli occhi del leader del comunismo italiano, prestar fede alla tesi per cui la democrazia borghese sarebbe al riparo dalle pulsioni belliche, significava essere sprovvisti di «cultura politica o storica». Sennonché, tale cultura dileguava realmente alcuni decenni dopo. Al momento dello scoppio della prima guerra contro l’Irak, mentre il Partito comunista italiano si avviava a sciogliersi, un suo illustre filosofo (Giacomo Marramao) dichiarava a «l’Unità» del 25 gennaio 1991: «Nella storia non è mai accaduto che uno Stato democratico facesse guerra a un altro Stato democratico». 

Il tono di tale dichiarazione non ammette repliche o dubbi. Mi permetto tuttavia di citare Henry Kissinger, a cui si possono rimproverare molte cose ma non la mancanza di «cultura politica o storica»:

«Quando scoppiò la prima guerra mondiale, in Europa la maggior parte dei paesi (compresi Gran Bretagna, Francia e Germania) erano governati da istituzioni essenzialmente democratiche. Tuttavia, la prima guerra mondiale – una catastrofe dalla quale l’Europa non si è mai ripresa del tutto – fu entusiasticamente approvata da tutti i parlamenti (democraticamente eletti)» (Kissinger 2011, pp. 425-26). 

In realtà, la guerra non ha risparmiato neppure quelle che amano autocelebrarsi come le più antiche democrazie del mondo. Gran Bretagna e Stati Uniti sono stati in guerra dal 1812 al 1815. E in tale occasione è stato persino uno dei Padri fondatori della repubblica nordamericana, e cioè Thomas Jefferson, a invocare contro la Gran Bretagna una «guerra eterna» e persino totale, una guerra che poteva concludersi solo con lo «sterminio (extermination) di una o dell’altra parte». Non si tratta solo di una vicenda ormai remota. Ancora tra le due guerre mondiali, per qualche tempo gli Stati Uniti continuarono a considerare la Gran Bretagna come il nemico più probabile. Il piano di guerra da loro approntato nel 1930 e firmato dal generale Douglas MacArthur contemplava persino il ricorso ad armi chimiche .

2. Le guerre coloniali

Rileggiamo la dichiarazione di Marramao del 1991: essa ritiene inesistenti (a torto) le guerre tra le democrazie mentre fa consapevole astrazione dalle guerre coloniali di cui sono protagoniste le cosiddette democrazie. Sono guerre le guerre coloniali? Pur di assolvere le democrazie dovremmo mettere le guerre coloniali sul conto dei popoli coloniali, colpiti in quanto arretrati e barbari? 

A partire dal 1935 Togliatti era chiamato a fronteggiare l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia (o Abissinia). Mussolini dichiarava di voler contribuire alla diffusione della civiltà europea: era necessario farla finita con una «schiavitù millenaria» e con lo «pseudo Stato barbarico e negriero», cioè schiavista, diretto dal «Negus dei negrieri», dal leader degli schiavisti (Mussolini 1979, pp. 292-96). La propaganda del regime non si stancava di insistere: non potevano più essere tollerati gli «orrori della schiavitù»; a Milano il cardinale Schuster benediceva e consacrava l’impresa che «a prezzo di sangue apre le porte d’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana», e, abolendo «la schiavitù, rischiara le tenebre della barbarie» (Salvatorelli, Mira, 1972, vol. 2, pp. 254 e 294). Nonostante fosse condotta mediante l’impiego massiccio di iprite e gas asfissianti e il massacro su larga scala della popolazione civile, la guerra era celebrata come un’operazione civilizzatrice e umanitaria e non priva di elementi democratici, dato che aboliva la schiavitù. Siamo portati a pensare alle sedicenti operazioni umanitarie dei giorni nostri.

Come reagiva Togliatti a tale campagna? Nell’agosto 1935, nel suo Rapporto (La lotta contro la guerra) al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, egli osservava:

«Per intieri decenni, gli indigeni dell’Africa sono stati sottomessi a un regime non soltanto di sfruttamento e di schiavitù, ma di vero e proprio sterminio fisico. Gli anni di crisi hanno accresciuto gli orrori del regime coloniale instaurato dagli europei nell’immenso continente nero. D’altra parte, i fascisti, nella guerra condotta in Libia dal 1924 al 1929, hanno mostrato in modo non equivoco quali sono i metodi fascisti di colonizzazione. Anche in questo campo, il fascismo ha dimostrato di essere la forma più barbara di dominio della borghesia. La guerra dell’Italia in Libia è stata condotta, dal principio alla fine, come una guerra di sterminio delle popolazioni indigene» (TO, 3.2; 760).

Da sempre tendenzialmente genocide, anche quando sono scatenate da paesi a ordinamento liberale e democratico, le guerre coloniali diventano con il fascismo compiutamente e consapevolmente genocide.

Per un altro verso, Togliatti riconosceva che «l’Abissinia è un paese economicamente e politicamente arretrato». È vero, «non vi si ritrova ancora nessuna traccia di un movimento nazionale rivoluzionario e neppure di un semplice movimento democratico»; era ancora largamente presente il «regime feudale». Occorreva allora appoggiare o per lo meno non contrastare il sedicente intervento civilizzatore e umanitario? Nulla di tutto questo. Al contrario Togliatti si dichiarava «pronto a sostenere la lotta di liberazione del popolo abissino contro i briganti fascisti» (TO, 3.2; 761-2); e ciò in considerazione non solo delle infamie proprie dell’espansionismo e del dominio coloniale ma anche del fatto che la lotta anticolonialista, anche se condotta da paesi e popoli ancora al di qua della modernità, è comunque parte integrante del processo rivoluzionario mondiale che mette in crisi l’imperialismo (e il capitalismo).

Disgraziatamente, anche questa lezione di Togliatti è andata smarrita. Nel 2011, la NATO è intervenuta massicciamente contro la Libia di Gheddafi. Per dirla con un filosofo autorevole ben lontano dal comunismo: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverata al regime che l’Occidente era deciso a rovesciare (Todorov 2012). A invocare o ad avallare l’intervento in questa guerra, definita neocoloniale anche da numerosi studiosi, giornalisti e organi di stampa, sono state rispettivamente Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, e Rossana Rossanda, figura storica del «quotidiano comunista» italiano «il manifesto» (cfr. Losurdo 2014, cap. 1, § 10).

3. Una visione «barocca» della lotta antimperialista

Com’è noto, Togliatti era uno dei grandi protagonisti della svolta che nel 1935 spingeva l’Internazionale Comunista a individuare nel nazi-fascismo il nemico principale e a promuovere contro di esso la politica del fronte unito e del fronte popolare. Non era agevole per i comunisti assumere questa posizione. La propaganda trotskista non si stancava di denunciarla come un tradimento dell’anticolonialismo per il fatto che inseriva i due più grandi imperi coloniali del tempo (quello britannico e quello francese) tra i nemici secondari e persino tra i potenziali alleati dell’Unione Sovietica. 

Le resistenze alla nuova linea politica provenivano anche da altre direzioni. Si prenda Carlo Rosselli. Negli ultimi suoi anni di vita, prima di essere assassinato dai sicari di Mussolini nel giugno 1937, il leader del liberalsocialismo non era molto lontano dai comunisti, guardava con simpatia alla «gigantesca esperienza russa» di «rivoluzione socialista» e di «organizzazione socialista della produzione» (Rosselli 1988, p. 381). Sia detto tra parentesi ma con assoluta con chiarezza: il liberalsocialismo di Carlo Rosselli era ben diverso dal liberalsocialismo che successivamente ha caratterizzato Norberto Bobbio!

E, tuttavia, almeno agli inizi Rosselli esprimeva riserve sulla svolta dell’Internazionale Comunista, e le esprimeva in nome dell’ortodossia rivoluzionaria: «La tesi marxista tradizionale è stata accantonata e si è scivolati sempre di più verso la tesi della “guerra democratica”. Il conflitto attuale non sarebbe più il portato di un conflitto imperialistico, ma di un conflitto tra Stati pacifisti (lo Stato proletario) e il fascismo, soprattutto il fascismo tedesco». I partiti comunisti, almeno «nei paesi alleati della Russia, saranno ridotti all’union sacrée» (Rosselli 1989-92, vol. 2, pp. 328-29). E cioè, agitando la bandiera dell’unità antifascista, i comunisti facevano proprie le parole d’ordine patriottarde da loro condannate in occasione della prima guerra mondiale. 

Questo modo di argomentare perdeva di vista o non comprendeva le radicali novità intervenute nel quadro internazionale. Era lo stesso esponente liberalsocialista a scrivere, il 9 novembre 1934, che «la caduta del regime sovietico costituirebbe una tremenda iattura che dobbiamo concorrere ad evitare» (Rosselli 1988, p. 304). Rispetto al 1914, era intervenuta una nuova contraddizione, quella tra capitalismo e socialismo. E questo era solo un aspetto. Vent’anni prima, dopo aver definito la prima guerra mondiale come una «guerra fra i padroni di schiavi, per il consolidamento e il rafforzamento della schiavitù» coloniale, Lenin aveva aggiunto: «L’originalità della situazione sta nel fatto che, in questa guerra, i destini delle colonie vengono decisi dalla lotta armata sul continente» (LO, 21; 275 e 277): ad avere l’iniziativa erano soltanto i «padroni di schiavi», le grandi potenze colonialiste e imperialiste. Ciò non era più vero alla vigilia e in occasione della seconda guerra mondiale: promossa dalla rivoluzione d’ottobre, era già iniziata la rivoluzione anticolonialista mondiale; gli schiavi coloniali si erano lasciata alle spalle la condizione di passività e rassegnazione. E cioè, accanto alla contraddizione inter-imperialista, caratteristica della prima guerra mondiale, agivano sia la contraddizione tra capitalismo e socialismo sia la contraddizione tra le grandi potenze colonialiste da un lato e gli schiavi coloniali in rivolta dall’altro. E quest’ultima contraddizione diventava tanto più acuta a causa della pretesa delle potenze imperialiste all’offensiva (Germania hitleriana, imperialismo giapponese, Italia fascista) di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, assoggettando e schiavizzando anche popoli di antica civiltà (quali la Russia e la Cina). A rischiare l’assoggettamento coloniale o neocoloniale era persino un paese come la Francia. Lenin l’aveva in qualche modo previsto. Nel 1916, mentre l’esercito di Guglielmo II era alle porte di Parigi, il grande rivoluzionario russo da un lato ribadiva il carattere imperialista del conflitto mondiale allora in corso, dall’altro richiamava l’attenzione su un possibile capovolgimento: se il gigantesco scontro fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma […], allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale» (LO, 22; 308). È lo scenario che si verificava in buona parte del mondo tra il 1939 e il 1945: le vittorie di tipo napoleonico conseguite da Hitler in Europa e dal Giappone in Asia finivano in entrambi i casi col provocare guerre di liberazione nazionale. Ignorando la molteplicità delle contraddizioni e il loro intreccio, nell’ottobre 1934 Rosselli definiva la «fase storica che attraversiamo» come «la fase del fascismo, delle guerre imperialistiche e della decadenza capitalistica» (Roselli 1988, p. 301). Se nel rinvio alla «decadenza capitalistica» è forse implicito un accenno all’emergere della Russia sovietica, in ogni caso il quadro qui tracciato ignora del tutto la rivoluzione anticoloniale e le guerre di resistenza e di liberazione nazionale.

Forse, a spiegare le resistenze alla svolta del 1935 non era solo la difficoltà a comprendere le novità intervenute nella situazione internazionale. Proprio perché caratterizzato dall’ambizione di fornire una lettura unitaria della totalità sociale e storica, il marxismo viene talvolta letto (e distorto) come una chiave di lettura che semplifica e appiattisce la complessità dei processi storici e sociali. Gramsci (1975, p. 1442) ha richiamato l’attenzione sulla «deviazione infantile della filosofia della prassi» che, ignorando il ruolo delle idee e delle ideologie, nutre la «convinzione barocca che quanto più si ricorre a oggetti “materiali” tanto più si è ortodossi» e fedeli seguaci del materialismo storico. È una pagina memorabile già sul piano stilistico, oltre che su quello filosofico: i sedicenti campioni dell’ortodossia sono sbeffeggiati quali seguaci di una «convinzione barocca»! Questa disgraziatamente può manifestarsi anche a un diverso livello: nell’analisi dei rapporti internazionali non mancano coloro che ritengono di essere campioni tanto più conseguenti dell’antimperialismo quanto più lungo è l’elenco da loro stilato dei paesi imperialisti, tutti messi sullo stesso piano! 

Va da sé che tale visione barocca era del tutto estranea a Lenin. Questi, nel 1916, nel distinguere il colonialismo classico dal neocolonialismo, fa notare che quest’ultimo si fonda non sull’«annessione politica» bensì su «quella economica» e a tale proposito adduce l’esempio, oltre che dell’Argentina, anche del Portogallo, il quale ultimo «è di fatto un “vassallo” dell’Inghilterra» (LO, 23; 41-42). Il grande rivoluzionario non ignorava certo che il Portogallo era anch’esso detentore di un impero coloniale (contro il quale, ovviamente, la lotta doveva continuare); tuttavia, l’aspetto principale (da non perdere mai di vista) era l’asservimento neocoloniale del Portogallo, entrato in qualche modo a far parte, in ogni caso sul piano economico, dell’Impero britannico. D’altro canto, abbiamo visto Lenin nel 1916 ipotizzare l’assoggettamento neocoloniale inflitto dalla Germania di Guglielmo II a un paese come la Francia, che pure a sua volta deteneva un vasto impero coloniale.

È questa lezione di Lenin che Togliatti aveva alle spalle allorché criticava quella che si potrebbe definire la visione barocca dell’antimperialismo: 

«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico» (TO, 3.2; 747). 

È subito da aggiungere che non si tratta di una dichiarazione isolata e sia pure di straordinaria efficacia. Occorre tener presente che nel momento in cui Togliatti enunciava la svolta di Salerno, in Italia capo del governo era ancora Pietro Badoglio, che non a caso portava il titolo, fra gli altri, di duca di Addis Abeba: era stato partecipe dei deliri e dei crimini imperiali del fascismo. E, tuttavia, questo infame capitolo di storia passava in secondo piano rispetto all’urgenza della lotta di liberazione nazionale contro il regime di occupazione all’Italia imposto dal Terzo Reich con la complicità di Mussolini.

4. Togliatti, Stalin e la guerra fredda

Siamo ora in grado di comprendere l’atteggiamento assunto da Togliatti dopo lo scoppio della guerra fredda. Forse l’anno per lui più imbarazzante era il 1952. Era l’anno in cui cadevano due dichiarazioni di Stalin fra loro difficilmente compatibili. Intervenendo brevemente al XIX Congresso del PCUS e denunciando la subalternità degli alleati o vassalli europei e occidentali di Washington, il leader sovietico chiamava i partiti comunisti a risollevare la bandiera dell’indipendenza nazionale e delle libertà democratiche «buttata a mare» dalla borghesia dei loro paesi. In termini sensibilmente diversi Stalin si esprimeva, sempre l’anno prima della sua morte, scrivendo Problemi economici del socialismo in URSS (§ 6): piuttosto che rassegnarsi all’egemonia incontrastata esercitata dagli Stati Uniti, le altre potenze capitalistiche l’avrebbero sfidata; più acute della stessa contraddizione tra capitalismo e socialismo, le contraddizioni inter-imperialistiche avrebbero prima o dopo provocato una nuova guerra mondiale, com’era avvenuto nel 1914 e nel 1939; e tutto ciò a conferma dell’inevitabilità della guerra nel capitalismo. 

Com’è noto, le cose sono andate in modo esattamente opposto rispetto alle previsioni formulate da Problemi economici del socialismo in URSS: a disgregarsi è stato non il campo imperialista bensì quello socialista; il pericolo più acuto di guerra mondiale si è verificato non in conseguenza della gara per l’egemonia tra le grandi potenze capitalistiche ma della pretesa degli Stati Uniti di contenere e ricacciare indietro socialismo e rivoluzione anticoloniale (si pensi alla crisi del 1962 che non a caso vede il suo epicentro a Cuba); il controllo esercitato da Washington sui suoi alleati e vassalli non è dileguato e semmai si è ulteriormente rafforzato, come dimostrano la fine ingloriosa dell’avventura anglo-francese del 1956 a Suez (con l’estendersi del dominio statunitense anche in Medio Oriente) e il venir meno della sfida gollista in Francia. È evidente l’errore logico contenuto nei Problemi economici del socialismo in URSS: dalla premessa dell’inevitabilità della guerra nel capitalismo non scaturisce in alcun modo la conclusione che lo scontro tra le potenze imperialistiche sia sempre all’ordine del giorno, quasi che tale scontro non comporti mai, o solo per un breve periodo, la distinzione tra vincitori e vinti. Ad esempio, dopo la sconfitta di quello che Lenin definisce l’«imperialismo napoleonico» (LO, 22; 308), per quasi un secolo l’imperialismo britannico è rimasto in pratica senza rivali. E a maggior ragione senza seri rivali in campo imperialista sono rimasti gli USA dopo la fine della seconda guerra mondiale, che ha visto la disfatta di Germania, Giappone e Italia ma anche il dissanguarsi e l’indebolirsi in modo grave di Gran Bretagna e Francia. Resta il fatto che nel 1952 Stalin delineava due scenari contrapposti: il primo, con lo sguardo rivolto all’Europa del tempo, metteva in stato d’accusa la borghesia per la sua capitolazione nei confronti della politica di guerra e di sopraffazione perseguita da Washington; con lo sguardo rivolto soprattutto al futuro, il secondo scenario denunciava la natura intrinsecamente guerrafondaia delle diverse borghesie, messe tutte sullo stesso piano.

Nel suo Rapporto del 10 novembre 1952 al Comitato centrale del PCI, Togliatti invitava a non ricavare «conseguenze sbagliate» dalla tesi dell’inevitabilità della guerra (ribadita da Stalin nei Problemi economici del socialismo in URSS) e a non perdere di vista il compito concreto e immediato della lotta per salvare la pace in quel momento minacciata dalla politica aggressiva messa in atto dagli Stati Uniti contro il campo socialista e contro la rivoluzione anticoloniale (TO, 5; 707). È per questo che il leader del comunismo italiano faceva riferimento in primo luogo e quasi esclusivamente all’altro intervento di Stalin, quello che invitava i comunisti a difendere l’indipendenza nazionale e la stessa democrazia politica messa in pericolo dall’ondata maccartista che minacciava di travalicare l’Atlantico e di investire anche l’Italia e l’Europa occidentale.

Per la verità Togliatti aveva cominciato a elaborare questa linea politica già prima dell’intervento di Stalin al XIX Congresso del PCUS. Nel suo Rapporto al VII Congresso del PCI, svoltosi dal 3 all’8 aprile 1951, egli aveva denunciato l’imperialismo statunitense, impegnato a «turbare tutto il processo di sviluppo e trasformazione di una democrazia italiana» e aveva rivendicato una politica di «indipendenza dell’Italia, di indipendenza della nostra patria da chiunque voglia sottoporre la nostra economia e la nostra vita politica ai suoi interessi e a quelli di un imperialismo straniero» (TO, 5; 591 e 601). Numerosi indizi inducono a ritenere che sia stato Togliatti a influenzare Stalin che dalla tribuna del XIX Congresso invitava i comunisti occidentali a risollevare la bandiera della democrazia e dell’indipendenza nazionale lasciata cadere dalla borghesia. Certo, successivamente, nel Rapporto al Comitato centrale del PCI del 10 novembre 1952, Togliatti insisteva con ancora più forza, puntano il dito contro i «reazionari delle nostre parti», contro i reazionari italiani ed europei:

«Il compagno Stalin ha strappato loro la maschera, ha messo in luce come essi abbiano buttato a mare tutto quello che ci poté essere nel passato nell’azione dei gruppi borghesi liberali e democratici, hanno buttato a mare la bandiera della libertà e dell’indipendenza dei popoli e posto quindi a noi il compito di raccogliere queste bandiere e portarle avanti, di essere i patrioti del nostro paese e in questo diventare forza dirigente della nazione» (TO, 5; 705).

Alla luce delle considerazioni già svolte si può però dire che, citando Stalin, Togliatti citava anche e forse in primo luogo se stesso. La linea che emergeva era chiara ma non nuova: occorreva in primo luogo combattere contro coloro che intendevano «strozzare la libertà e vendere l’indipendenza del paese», che erano pronti a tollerare la trasformazione dell’Italia «in una colonia asservita a un imperialismo straniero»; occorreva colpire e neutralizzare i «gruppi dirigenti dei paesi assoggettati agli Stati Uniti d’America» (TO, 5; 705-6). L’obiettivo perseguito da quest’ultimo paese era così definito: era

«la conquista del dominio sul mondo intiero […]; l’assoggettamento economico, politico e militare, quindi di tutta una serie di paesi che fino a ieri erano paesi indipendenti e anche di capitalismo sviluppato come la Francia e l’Italia; la preparazione di un attacco contro l’Unione Sovietica, contro la Cina, contro i paesi di democrazia popolare. In concreto, per preparare le forze necessarie a questo attacco e realizzare i suoi obiettivi, l’imperialismo americano ha organizzato basi militari nel mondo intiero, invia le proprie truppe e la fa stanziare in paesi che fino a ieri erano indipendenti e che mai avrebbero tollerato l’occupazione di truppe straniere» (TO, 5; 708).

Sarebbe un grave errore leggere questo testo come una banale tirata propagandistica. Siamo invece in presenza di una riflessione teorica e politica: a definire l’imperialismo non è soltanto l’ostilità nei confronti del campo socialista e della rivoluzione anticoloniale; proprio perché a caratterizzarlo è anche la gara per l’egemonia, l’imperialismo può comportare l’assoggettamento, coloniale o semicoloniale, di «paesi indipendenti e anche di capitalismo sviluppato come la Francia e l’Italia», e persino di un paese come la Francia (che nel 1952 aveva a disposizione un largo impero coloniale). La contraddizione tra paesi «di capitalismo sviluppato» non è necessariamente ed esclusivamente una contraddizione inter-imperialistica, può anche essere la contraddizione tra un imperialismo particolarmente potente e aggressivo e una potenziale colonia o semicolonia. Sarebbe un inammissibile abbellimento dell’imperialismo pensare che esso rifugga a priori dalla trasformazione di un paese «di capitalismo sviluppato» in colonia o semicolonia. Togliatti conosceva bene la polemica di Lenin contro Kautsky: «è caratteristica dell’imperialismo […] la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari [come pretendeva Kautsky], ma di metter mano anche su paesi fortemente industriali», anche perché questo può indebolire l’«avversario» (LO, 22, 268).

Sulla base di un preciso bilancio storico e teorico, al fine di sventare il pericolo che l’Italia fosse trascinata dall’imperialismo statunitense in una guerra contro l’Unione Sovietica o contro la Cina popolare, Togliatti faceva appello alla mobilitazione la più ampia possibile: «Il movimento di cui l’Italia ha bisogno deve essere un movimento delle grandi masse del popolo, a qualunque partito, a qualunque gruppo sociale appartengano, per la salvezza della pace. Anche i cittadini oggi più lontani da noi possono e debbono essere attirati al lavoro per questa causa». E dunque: «A noi, partito della classe operaia, spetta, in questo momento come nei momenti più gravi del passato, riconoscere e difendere gli interessi di tutta la nazione» (TO, 5; 602 e 578). Era la rinuncia alla lotta di classe? Pronta era la risposta a questa possibile obiezione: «No, non esiste contrasto tra una politica nazionale e una politica di classe del partito comunista» (TO, 5; 590). Togliatti conosceva troppo bene Che fare? per appiattirsi su una lettura tradunionistica della lotta di classe. Soprattutto, in Unione Sovietica egli aveva potuto seguire direttamente l’epica resistenza di Mosca, Leningrado, Stalingrado contro il tentativo del Terzo Reich di rinverdire e radicalizzare la tradizione coloniale in Europa orientale, riducendo l’intero popolo sovietico alla condizione di schiavi al servizio della sedicente razza dei signori. Togliatti aveva ben compreso che la Grande guerra patriottica era una delle più grandi lotte di classe non solo del Novecento ma della storia mondiale.

Vale la pena di notare che nel novembre del 1938, nel momento in cui l’imperialismo giapponese cercava di sottoporre a un barbaro dominio coloniale e di schiavizzare il popolo cinese nel suo complesso, Mao Zedong teorizzava, in tali circostanze, l’«identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe». Come la Grande guerra patriottica, anche la Guerra di resistenza contro l’imperialismo giapponese è da annoverare tra le più grandi lotte di classe non solo del Novecento ma della storia mondiale (Losurdo 2013, cap. VI, §§ 7-8). Quasi certamente Togliatti ignorava il testo appena citato del leader comunista cinese; tanto più significativo è il fatto che egli giunga alle medesime conclusioni a partire dall’analisi concreta della situazione concreta.

5. L’imperialismo USA e i crescenti pericoli di guerra

Sia chiaro: non si tratta di abbandonarsi al gioco delle analogie. Anche per comprendere il quadro politico dei giorni nostri dobbiamo procedere all’analisi concreta della situazione concreta. È un compito che resta largamente da assolvere. Tuttavia, possiamo già definire alcuni punti fermi.

Va da sé che non dobbiamo stancarci di denunciare il ruolo infame di paesi come la Germania e l’Italia nello smembramento e nella guerra contro la Jugoslavia, o il ruolo infame dell’Italia nella guerra contro la Libia e della Germania nel colpo di Stato in Ucraina; per non parlare del ruolo infame della Francia prima di Sarkozy e poi di Hollande nella guerra contro la Libia e contro la Siria. Ma tutte queste infamie neocoloniali e altre ancora sono state rese possibili dalla strapotenza militare e dal ruolo egemonico degli USA, che talvolta le hanno promosse in modo più o meno diretto. E, tuttavia, nel guardare al pericolo di guerra su larga scala che si profila all’orizzonte non possiamo non tener conto dei profondi mutamenti intervenuti rispetto al passato.

Alla vigilia della prima e della seconda guerra mondiale c’erano due coalizioni militari contrapposte; ai giorni nostri c’è in pratica una sola gigantesca coalizione militare la (NATO) che si espande sempre di più e che continua a essere sotto il ferreo controllo statunitense. Alla viglia della prima e della seconda guerra mondiale i principali paesi capitalistici si accusavano reciprocamente di scatenare la corsa al riarmo; ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti criticano i loro alleati perché non dedicano maggiori risorse al bilancio militare, perché non accelerano a sufficienza la politica di riarmo. Chiaramente, la guerra a cui si pensa a Washington non è la guerra contro la Germania, la Francia o l’Italia, ma quella contro la Cina (il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale e diretto da uno sperimentato partito comunista) e/o la Russia (che con Putin ha avuto il torto, dal punto di vista della Casa Bianca, di scuotersi di dosso il controllo neocoloniale cui si era piegato o adattato Eltsin). E questa guerra su larga scala, che potrebbe persino varcare la soglia nucleare, gli Stati Uniti sperano all’occorrenza di poterla condurre con la partecipazione subalterna, al loro fianco e ai loro ordini, di Germania, Francia, Italia e degli altri paesi della NATO. 

È dunque contro il pericolo di una guerra scatenata dalla superpotenza che, unica al mondo, continua a ritenersi la «nazione eletta da Dio», dalla superpotenza che da un pezzo aspira a garantire a se stessa «la possibilità di un primo colpo [nucleare] impunito» (Romano 2014, p. 29), dalla superpotenza che ha installato anche nel nostro paese basi militari e armi nucleari direttamente o indirettamente controllate da Washington, è contro questo pericolo di guerra concreto che siamo chiamati a lottare. E potremo affrontare questo pericolo crescente con tanta più efficacia quanto più sapremo tener conto, adattandola ovviamente alla situazione odierna, della grande lezione di Palmiro Togliatti.

Riferimenti bibliografici

Gar Alperovitz 1995
The Decision to Use the Atomic Bomb and the Architecture of an American Myth, Knopf, New York

André Fontaine 1968
Histoire de la guerre froide (1967); tr. it., di Rino Dal Sasso, Storia della guerra fredda. Dalla guerra di Corea alla crisi delle alleanze, il Saggiatore, Milano

Antonio Gramsci 1975
Quaderni del carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino

Henry Kissinger 2011
On China, The Penguin Press, New York

Vladimir I. Lenin 1955-70
Opere complete, Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si rinvia direttamente nel testo, facendo precedere dalla sigla LO l’indicazione del volume e della pagina)

Domenico Losurdo 2013
La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari

Domenico Losurdo 2014
La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma

Benito Mussolini 1979
Scritti politici, a cura di Enzo Santarelli, Feltrinelli, Milano

Sergio Romano 2014
Il declino dell’impero americano, Longanesi, Milano

Carlo Rosselli 1988
Scritti politici, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnoli, Guida, Napoli

Carlo Rosselli 1989-92
Scritti dell’esilio, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino

Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira 1972
Storia d’Italia nel periodo fascista (1964), Oscar Mondadori, Milano, 2 voll.

Michael S. Sherry 1995
In the Shadow of War. The United States Since the 1930s,Yale University Press, New Haven and London

Tzvetan Todorov 2012
La guerra impossibile, in «la Repubblica» del 26 giugno, pp. 1 e 29

Palmiro Togliatti 1973-84
Opere, a cura di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si rinvia direttamente nel testo, facendo precedere dalla sigla TO l’indicazione del volume e della pagina) 

NOTE

* Il saggio di Domenico Losurdo, che qui pubblichiamo, è stato già tradotto (da Maria Lucilia Ruy) su «Principíos», la rivista teorica del Partito Comunista del Brasile (PCdoB), e in questi giorni esce anche (tradotto da Hermann Kopp) su «Marxistische Blätter», la rivista teorica del Partito Comunista Tedesco. La lezione di Palmiro Togliatti è quanto mai attuale e preziosa per condurre la lotta per la pace, che oggi più che mai s’impone.

Per una più ampia documentazione relativa ai problemi trattati rinviamo al libro apparso in questi giorni: D. Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma, 2016. Si veda in particolare il cap. 10 (Democrazia universale e «pace definitiva»?).

di Domenico Losurdo, Presidente dell’Associazione politica e culturale MARX XXI*

Togliatti e la lotta per la pace ieri e oggi

«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico».

(Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista)

1. Democrazia e pace?

Conviene prendere le mosse dalla guerra fredda. Per chiarire di quali tempi si trattasse mi limito ad alcuni particolari. Nel gennaio del 1952, per sbloccare la situazione di stallo nelle operazioni militari in Corea, il presidente statunitense Harry S. Truman accarezzava un’idea radicale che trascriveva anche in una nota di diario: si poteva lanciare un ultimatum all’Unione Sovietica e alla Repubblica popolare cinese, chiarendo in anticipo che la mancata ottemperanza «significava che Mosca, San Pietroburgo, Mukden, Vladivostock, Pechino, Shangai, Port Arthur, Dalian, Odessa, Stalingrado e ogni impianto industriale in Cina e in Unione Sovietica sarebbero stati eliminati» (Sherry 1995, p. 182). Non si trattava di un sogno, raccapricciante quanto si voglia ma senza contatti con la realtà: in quegli anni l’arma atomica veniva ripetutamente brandita contro la Cina impegnata a completare la rivoluzione anticoloniale e a conseguire l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale. La minaccia risultava tanto più credibile a causa del ricordo, ancora vivido e terribile, di Hiroshima e Nagasaki: le due bombe atomiche lanciate sul Giappone agonizzante ma con lo sguardo rivolto – su questo concordano autorevoli storici statunitensi (Alperovitz 1995) – anche o in primo luogo all’Unione Sovietica. Del resto, a essere minacciati non erano solo l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese. Il 7 maggio 1954, a Dien Bien Phu, in Vietnam, un esercito popolare guidato dal partito comunista sconfiggeva le truppe di occupazione della Francia colonialista. Alla vigilia della battaglia, il segretario di Stato statunitense Foster Dulles si era così rivolto al primo ministro francese Georges Bidault: «E se vi dessimo due bombe atomiche» (da utilizzare, s’intende, immediatamente contro il Vietnam?) (Fontaine 1968, vol. 2, p. 118).

Nonostante non indietreggiassero neppure dinanzi alla prospettiva dell’olocausto nucleare pur di contenere la rivoluzione anticoloniale (essenziale elemento costitutivo della rivoluzione democratica), nonostante tutto ciò, in quegli anni gli Stati Uniti e i loro alleati propagandavano la NATO da loro fondata come un contributo alla causa della democrazia e della pace. È in questo contesto che va collocato il discorso nel marzo 1949 pronunciato da Togliatti alla Camera dei deputati, in occasione del dibattito relativo all’adesione dell’Italia all’Alleanza Atlantica:

«La principale delle vostre tesi è che le democrazie, come voi le chiamate, non fanno le guerre. Ma, signori, per chi ci prendete? Credete veramente che non abbiamo un minimo di cultura politica o storica? Non è vero che le democrazie non facciano guerre: tutte le guerre coloniali del XIX e XX secolo sono state fatte da regimi che si qualificavano come democratici. Così gli Stati Uniti fecero una guerra di aggressione contro la Spagna per stabilire il loro dominio in una parte del mondo che li interessava; fecero la guerra contro il Messico per conquistare determinate regioni dove vi erano sorgenti notevoli di materie prime; fecero la guerra per alcuni decenni contro le tribù indigene dei pellerossa, per distruggerle, dando uno dei primi esempi di quel crimine di genocidio che oggi è stato giuridicamente qualificato e dovrebbe in avvenire essere perseguito legalmente».

Non si doveva neppure dimenticare «la ‘crociata delle 19 nazioni’, come venne chiamata allora da Churchill» contro la Russia sovietica, ed era peraltro sotto gli occhi di tutti la guerra della Francia contro il Vietnam, in quel momento in pieno svolgimento (TO, 5; 496-97).

Dunque, ben lungi dall’essere sinonimo di pace, le democrazie borghesi si erano rese e continuavano a rendersi responsabili di guerre non poche volte di carattere genocida. In ogni caso, agli occhi del leader del comunismo italiano, prestar fede alla tesi per cui la democrazia borghese sarebbe al riparo dalle pulsioni belliche, significava essere sprovvisti di «cultura politica o storica». Sennonché, tale cultura dileguava realmente alcuni decenni dopo. Al momento dello scoppio della prima guerra contro l’Irak, mentre il Partito comunista italiano si avviava a sciogliersi, un suo illustre filosofo (Giacomo Marramao) dichiarava a «l’Unità» del 25 gennaio 1991: «Nella storia non è mai accaduto che uno Stato democratico facesse guerra a un altro Stato democratico». 

Il tono di tale dichiarazione non ammette repliche o dubbi. Mi permetto tuttavia di citare Henry Kissinger, a cui si possono rimproverare molte cose ma non la mancanza di «cultura politica o storica»:

«Quando scoppiò la prima guerra mondiale, in Europa la maggior parte dei paesi (compresi Gran Bretagna, Francia e Germania) erano governati da istituzioni essenzialmente democratiche. Tuttavia, la prima guerra mondiale – una catastrofe dalla quale l’Europa non si è mai ripresa del tutto – fu entusiasticamente approvata da tutti i parlamenti (democraticamente eletti)» (Kissinger 2011, pp. 425-26). 

In realtà, la guerra non ha risparmiato neppure quelle che amano autocelebrarsi come le più antiche democrazie del mondo. Gran Bretagna e Stati Uniti sono stati in guerra dal 1812 al 1815. E in tale occasione è stato persino uno dei Padri fondatori della repubblica nordamericana, e cioè Thomas Jefferson, a invocare contro la Gran Bretagna una «guerra eterna» e persino totale, una guerra che poteva concludersi solo con lo «sterminio (extermination) di una o dell’altra parte». Non si tratta solo di una vicenda ormai remota. Ancora tra le due guerre mondiali, per qualche tempo gli Stati Uniti continuarono a considerare la Gran Bretagna come il nemico più probabile. Il piano di guerra da loro approntato nel 1930 e firmato dal generale Douglas MacArthur contemplava persino il ricorso ad armi chimiche .

2. Le guerre coloniali

Rileggiamo la dichiarazione di Marramao del 1991: essa ritiene inesistenti (a torto) le guerre tra le democrazie mentre fa consapevole astrazione dalle guerre coloniali di cui sono protagoniste le cosiddette democrazie. Sono guerre le guerre coloniali? Pur di assolvere le democrazie dovremmo mettere le guerre coloniali sul conto dei popoli coloniali, colpiti in quanto arretrati e barbari? 

A partire dal 1935 Togliatti era chiamato a fronteggiare l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia (o Abissinia). Mussolini dichiarava di voler contribuire alla diffusione della civiltà europea: era necessario farla finita con una «schiavitù millenaria» e con lo «pseudo Stato barbarico e negriero», cioè schiavista, diretto dal «Negus dei negrieri», dal leader degli schiavisti (Mussolini 1979, pp. 292-96). La propaganda del regime non si stancava di insistere: non potevano più essere tollerati gli «orrori della schiavitù»; a Milano il cardinale Schuster benediceva e consacrava l’impresa che «a prezzo di sangue apre le porte d’Etiopia alla fede cattolica e alla civiltà romana», e, abolendo «la schiavitù, rischiara le tenebre della barbarie» (Salvatorelli, Mira, 1972, vol. 2, pp. 254 e 294). Nonostante fosse condotta mediante l’impiego massiccio di iprite e gas asfissianti e il massacro su larga scala della popolazione civile, la guerra era celebrata come un’operazione civilizzatrice e umanitaria e non priva di elementi democratici, dato che aboliva la schiavitù. Siamo portati a pensare alle sedicenti operazioni umanitarie dei giorni nostri.

Come reagiva Togliatti a tale campagna? Nell’agosto 1935, nel suo Rapporto (La lotta contro la guerra) al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, egli osservava:

«Per intieri decenni, gli indigeni dell’Africa sono stati sottomessi a un regime non soltanto di sfruttamento e di schiavitù, ma di vero e proprio sterminio fisico. Gli anni di crisi hanno accresciuto gli orrori del regime coloniale instaurato dagli europei nell’immenso continente nero. D’altra parte, i fascisti, nella guerra condotta in Libia dal 1924 al 1929, hanno mostrato in modo non equivoco quali sono i metodi fascisti di colonizzazione. Anche in questo campo, il fascismo ha dimostrato di essere la forma più barbara di dominio della borghesia. La guerra dell’Italia in Libia è stata condotta, dal principio alla fine, come una guerra di sterminio delle popolazioni indigene» (TO, 3.2; 760).

Da sempre tendenzialmente genocide, anche quando sono scatenate da paesi a ordinamento liberale e democratico, le guerre coloniali diventano con il fascismo compiutamente e consapevolmente genocide.

Per un altro verso, Togliatti riconosceva che «l’Abissinia è un paese economicamente e politicamente arretrato». È vero, «non vi si ritrova ancora nessuna traccia di un movimento nazionale rivoluzionario e neppure di un semplice movimento democratico»; era ancora largamente presente il «regime feudale». Occorreva allora appoggiare o per lo meno non contrastare il sedicente intervento civilizzatore e umanitario? Nulla di tutto questo. Al contrario Togliatti si dichiarava «pronto a sostenere la lotta di liberazione del popolo abissino contro i briganti fascisti» (TO, 3.2; 761-2); e ciò in considerazione non solo delle infamie proprie dell’espansionismo e del dominio coloniale ma anche del fatto che la lotta anticolonialista, anche se condotta da paesi e popoli ancora al di qua della modernità, è comunque parte integrante del processo rivoluzionario mondiale che mette in crisi l’imperialismo (e il capitalismo).

Disgraziatamente, anche questa lezione di Togliatti è andata smarrita. Nel 2011, la NATO è intervenuta massicciamente contro la Libia di Gheddafi. Per dirla con un filosofo autorevole ben lontano dal comunismo: «Oggi sappiamo che la guerra ha fatto almeno 30.000 morti, contro le 300 vittime della repressione iniziale» rimproverata al regime che l’Occidente era deciso a rovesciare (Todorov 2012). A invocare o ad avallare l’intervento in questa guerra, definita neocoloniale anche da numerosi studiosi, giornalisti e organi di stampa, sono state rispettivamente Susanna Camusso, segretario generale della CGIL, e Rossana Rossanda, figura storica del «quotidiano comunista» italiano «il manifesto» (cfr. Losurdo 2014, cap. 1, § 10).

3. Una visione «barocca» della lotta antimperialista

Com’è noto, Togliatti era uno dei grandi protagonisti della svolta che nel 1935 spingeva l’Internazionale Comunista a individuare nel nazi-fascismo il nemico principale e a promuovere contro di esso la politica del fronte unito e del fronte popolare. Non era agevole per i comunisti assumere questa posizione. La propaganda trotskista non si stancava di denunciarla come un tradimento dell’anticolonialismo per il fatto che inseriva i due più grandi imperi coloniali del tempo (quello britannico e quello francese) tra i nemici secondari e persino tra i potenziali alleati dell’Unione Sovietica. 

Le resistenze alla nuova linea politica provenivano anche da altre direzioni. Si prenda Carlo Rosselli. Negli ultimi suoi anni di vita, prima di essere assassinato dai sicari di Mussolini nel giugno 1937, il leader del liberalsocialismo non era molto lontano dai comunisti, guardava con simpatia alla «gigantesca esperienza russa» di «rivoluzione socialista» e di «organizzazione socialista della produzione» (Rosselli 1988, p. 381). Sia detto tra parentesi ma con assoluta con chiarezza: il liberalsocialismo di Carlo Rosselli era ben diverso dal liberalsocialismo che successivamente ha caratterizzato Norberto Bobbio!

E, tuttavia, almeno agli inizi Rosselli esprimeva riserve sulla svolta dell’Internazionale Comunista, e le esprimeva in nome dell’ortodossia rivoluzionaria: «La tesi marxista tradizionale è stata accantonata e si è scivolati sempre di più verso la tesi della “guerra democratica”. Il conflitto attuale non sarebbe più il portato di un conflitto imperialistico, ma di un conflitto tra Stati pacifisti (lo Stato proletario) e il fascismo, soprattutto il fascismo tedesco». I partiti comunisti, almeno «nei paesi alleati della Russia, saranno ridotti all’union sacrée» (Rosselli 1989-92, vol. 2, pp. 328-29). E cioè, agitando la bandiera dell’unità antifascista, i comunisti facevano proprie le parole d’ordine patriottarde da loro condannate in occasione della prima guerra mondiale. 

Questo modo di argomentare perdeva di vista o non comprendeva le radicali novità intervenute nel quadro internazionale. Era lo stesso esponente liberalsocialista a scrivere, il 9 novembre 1934, che «la caduta del regime sovietico costituirebbe una tremenda iattura che dobbiamo concorrere ad evitare» (Rosselli 1988, p. 304). Rispetto al 1914, era intervenuta una nuova contraddizione, quella tra capitalismo e socialismo. E questo era solo un aspetto. Vent’anni prima, dopo aver definito la prima guerra mondiale come una «guerra fra i padroni di schiavi, per il consolidamento e il rafforzamento della schiavitù» coloniale, Lenin aveva aggiunto: «L’originalità della situazione sta nel fatto che, in questa guerra, i destini delle colonie vengono decisi dalla lotta armata sul continente» (LO, 21; 275 e 277): ad avere l’iniziativa erano soltanto i «padroni di schiavi», le grandi potenze colonialiste e imperialiste. Ciò non era più vero alla vigilia e in occasione della seconda guerra mondiale: promossa dalla rivoluzione d’ottobre, era già iniziata la rivoluzione anticolonialista mondiale; gli schiavi coloniali si erano lasciata alle spalle la condizione di passività e rassegnazione. E cioè, accanto alla contraddizione inter-imperialista, caratteristica della prima guerra mondiale, agivano sia la contraddizione tra capitalismo e socialismo sia la contraddizione tra le grandi potenze colonialiste da un lato e gli schiavi coloniali in rivolta dall’altro. E quest’ultima contraddizione diventava tanto più acuta a causa della pretesa delle potenze imperialiste all’offensiva (Germania hitleriana, imperialismo giapponese, Italia fascista) di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, assoggettando e schiavizzando anche popoli di antica civiltà (quali la Russia e la Cina). A rischiare l’assoggettamento coloniale o neocoloniale era persino un paese come la Francia. Lenin l’aveva in qualche modo previsto. Nel 1916, mentre l’esercito di Guglielmo II era alle porte di Parigi, il grande rivoluzionario russo da un lato ribadiva il carattere imperialista del conflitto mondiale allora in corso, dall’altro richiamava l’attenzione su un possibile capovolgimento: se il gigantesco scontro fosse terminato «con vittorie di tipo napoleonico e con la soggezione di tutta una serie di Stati nazionali capaci di vita autonoma […], allora sarebbe possibile in Europa una grande guerra nazionale» (LO, 22; 308). È lo scenario che si verificava in buona parte del mondo tra il 1939 e il 1945: le vittorie di tipo napoleonico conseguite da Hitler in Europa e dal Giappone in Asia finivano in entrambi i casi col provocare guerre di liberazione nazionale. Ignorando la molteplicità delle contraddizioni e il loro intreccio, nell’ottobre 1934 Rosselli definiva la «fase storica che attraversiamo» come «la fase del fascismo, delle guerre imperialistiche e della decadenza capitalistica» (Roselli 1988, p. 301). Se nel rinvio alla «decadenza capitalistica» è forse implicito un accenno all’emergere della Russia sovietica, in ogni caso il quadro qui tracciato ignora del tutto la rivoluzione anticoloniale e le guerre di resistenza e di liberazione nazionale.

Forse, a spiegare le resistenze alla svolta del 1935 non era solo la difficoltà a comprendere le novità intervenute nella situazione internazionale. Proprio perché caratterizzato dall’ambizione di fornire una lettura unitaria della totalità sociale e storica, il marxismo viene talvolta letto (e distorto) come una chiave di lettura che semplifica e appiattisce la complessità dei processi storici e sociali. Gramsci (1975, p. 1442) ha richiamato l’attenzione sulla «deviazione infantile della filosofia della prassi» che, ignorando il ruolo delle idee e delle ideologie, nutre la «convinzione barocca che quanto più si ricorre a oggetti “materiali” tanto più si è ortodossi» e fedeli seguaci del materialismo storico. È una pagina memorabile già sul piano stilistico, oltre che su quello filosofico: i sedicenti campioni dell’ortodossia sono sbeffeggiati quali seguaci di una «convinzione barocca»! Questa disgraziatamente può manifestarsi anche a un diverso livello: nell’analisi dei rapporti internazionali non mancano coloro che ritengono di essere campioni tanto più conseguenti dell’antimperialismo quanto più lungo è l’elenco da loro stilato dei paesi imperialisti, tutti messi sullo stesso piano! 

Va da sé che tale visione barocca era del tutto estranea a Lenin. Questi, nel 1916, nel distinguere il colonialismo classico dal neocolonialismo, fa notare che quest’ultimo si fonda non sull’«annessione politica» bensì su «quella economica» e a tale proposito adduce l’esempio, oltre che dell’Argentina, anche del Portogallo, il quale ultimo «è di fatto un “vassallo” dell’Inghilterra» (LO, 23; 41-42). Il grande rivoluzionario non ignorava certo che il Portogallo era anch’esso detentore di un impero coloniale (contro il quale, ovviamente, la lotta doveva continuare); tuttavia, l’aspetto principale (da non perdere mai di vista) era l’asservimento neocoloniale del Portogallo, entrato in qualche modo a far parte, in ogni caso sul piano economico, dell’Impero britannico. D’altro canto, abbiamo visto Lenin nel 1916 ipotizzare l’assoggettamento neocoloniale inflitto dalla Germania di Guglielmo II a un paese come la Francia, che pure a sua volta deteneva un vasto impero coloniale.

È questa lezione di Lenin che Togliatti aveva alle spalle allorché criticava quella che si potrebbe definire la visione barocca dell’antimperialismo: 

«Una delle qualità fondamentali dei bolscevichi […], uno dei punti fondamentali della nostra strategia rivoluzionaria è la capacità di comprendere ad ogni istante quale è il nemico principale e di saper concentrare tutte le forze contro questo nemico» (TO, 3.2; 747). 

È subito da aggiungere che non si tratta di una dichiarazione isolata e sia pure di straordinaria efficacia. Occorre tener presente che nel momento in cui Togliatti enunciava la svolta di Salerno, in Italia capo del governo era ancora Pietro Badoglio, che non a caso portava il titolo, fra gli altri, di duca di Addis Abeba: era stato partecipe dei deliri e dei crimini imperiali del fascismo. E, tuttavia, questo infame capitolo di storia passava in secondo piano rispetto all’urgenza della lotta di liberazione nazionale contro il regime di occupazione all’Italia imposto dal Terzo Reich con la complicità di Mussolini.

4. Togliatti, Stalin e la guerra fredda

Siamo ora in grado di comprendere l’atteggiamento assunto da Togliatti dopo lo scoppio della guerra fredda. Forse l’anno per lui più imbarazzante era il 1952. Era l’anno in cui cadevano due dichiarazioni di Stalin fra loro difficilmente compatibili. Intervenendo brevemente al XIX Congresso del PCUS e denunciando la subalternità degli alleati o vassalli europei e occidentali di Washington, il leader sovietico chiamava i partiti comunisti a risollevare la bandiera dell’indipendenza nazionale e delle libertà democratiche «buttata a mare» dalla borghesia dei loro paesi. In termini sensibilmente diversi Stalin si esprimeva, sempre l’anno prima della sua morte, scrivendo Problemi economici del socialismo in URSS (§ 6): piuttosto che rassegnarsi all’egemonia incontrastata esercitata dagli Stati Uniti, le altre potenze capitalistiche l’avrebbero sfidata; più acute della stessa contraddizione tra capitalismo e socialismo, le contraddizioni inter-imperialistiche avrebbero prima o dopo provocato una nuova guerra mondiale, com’era avvenuto nel 1914 e nel 1939; e tutto ciò a conferma dell’inevitabilità della guerra nel capitalismo. 

Com’è noto, le cose sono andate in modo esattamente opposto rispetto alle previsioni formulate da Problemi economici del socialismo in URSS: a disgregarsi è stato non il campo imperialista bensì quello socialista; il pericolo più acuto di guerra mondiale si è verificato non in conseguenza della gara per l’egemonia tra le grandi potenze capitalistiche ma della pretesa degli Stati Uniti di contenere e ricacciare indietro socialismo e rivoluzione anticoloniale (si pensi alla crisi del 1962 che non a caso vede il suo epicentro a Cuba); il controllo esercitato da Washington sui suoi alleati e vassalli non è dileguato e semmai si è ulteriormente rafforzato, come dimostrano la fine ingloriosa dell’avventura anglo-francese del 1956 a Suez (con l’estendersi del dominio statunitense anche in Medio Oriente) e il venir meno della sfida gollista in Francia. È evidente l’errore logico contenuto nei Problemi economici del socialismo in URSS: dalla premessa dell’inevitabilità della guerra nel capitalismo non scaturisce in alcun modo la conclusione che lo scontro tra le potenze imperialistiche sia sempre all’ordine del giorno, quasi che tale scontro non comporti mai, o solo per un breve periodo, la distinzione tra vincitori e vinti. Ad esempio, dopo la sconfitta di quello che Lenin definisce l’«imperialismo napoleonico» (LO, 22; 308), per quasi un secolo l’imperialismo britannico è rimasto in pratica senza rivali. E a maggior ragione senza seri rivali in campo imperialista sono rimasti gli USA dopo la fine della seconda guerra mondiale, che ha visto la disfatta di Germania, Giappone e Italia ma anche il dissanguarsi e l’indebolirsi in modo grave di Gran Bretagna e Francia. Resta il fatto che nel 1952 Stalin delineava due scenari contrapposti: il primo, con lo sguardo rivolto all’Europa del tempo, metteva in stato d’accusa la borghesia per la sua capitolazione nei confronti della politica di guerra e di sopraffazione perseguita da Washington; con lo sguardo rivolto soprattutto al futuro, il secondo scenario denunciava la natura intrinsecamente guerrafondaia delle diverse borghesie, messe tutte sullo stesso piano.

Nel suo Rapporto del 10 novembre 1952 al Comitato centrale del PCI, Togliatti invitava a non ricavare «conseguenze sbagliate» dalla tesi dell’inevitabilità della guerra (ribadita da Stalin nei Problemi economici del socialismo in URSS) e a non perdere di vista il compito concreto e immediato della lotta per salvare la pace in quel momento minacciata dalla politica aggressiva messa in atto dagli Stati Uniti contro il campo socialista e contro la rivoluzione anticoloniale (TO, 5; 707). È per questo che il leader del comunismo italiano faceva riferimento in primo luogo e quasi esclusivamente all’altro intervento di Stalin, quello che invitava i comunisti a difendere l’indipendenza nazionale e la stessa democrazia politica messa in pericolo dall’ondata maccartista che minacciava di travalicare l’Atlantico e di investire anche l’Italia e l’Europa occidentale.

Per la verità Togliatti aveva cominciato a elaborare questa linea politica già prima dell’intervento di Stalin al XIX Congresso del PCUS. Nel suo Rapporto al VII Congresso del PCI, svoltosi dal 3 all’8 aprile 1951, egli aveva denunciato l’imperialismo statunitense, impegnato a «turbare tutto il processo di sviluppo e trasformazione di una democrazia italiana» e aveva rivendicato una politica di «indipendenza dell’Italia, di indipendenza della nostra patria da chiunque voglia sottoporre la nostra economia e la nostra vita politica ai suoi interessi e a quelli di un imperialismo straniero» (TO, 5; 591 e 601). Numerosi indizi inducono a ritenere che sia stato Togliatti a influenzare Stalin che dalla tribuna del XIX Congresso invitava i comunisti occidentali a risollevare la bandiera della democrazia e dell’indipendenza nazionale lasciata cadere dalla borghesia. Certo, successivamente, nel Rapporto al Comitato centrale del PCI del 10 novembre 1952, Togliatti insisteva con ancora più forza, puntano il dito contro i «reazionari delle nostre parti», contro i reazionari italiani ed europei:

 «Il compagno Stalin ha strappato loro la maschera, ha messo in luce come essi abbiano buttato a mare tutto quello che ci poté essere nel passato nell’azione dei gruppi borghesi liberali e democratici, hanno buttato a mare la bandiera della libertà e dell’indipendenza dei popoli e posto quindi a noi il compito di raccogliere queste bandiere e portarle avanti, di essere i patrioti del nostro paese e in questo diventare forza dirigente della nazione» (TO, 5; 705).

Alla luce delle considerazioni già svolte si può però dire che, citando Stalin, Togliatti citava anche e forse in primo luogo se stesso. La linea che emergeva era chiara ma non nuova: occorreva in primo luogo combattere contro coloro che intendevano «strozzare la libertà e vendere l’indipendenza del paese», che erano pronti a tollerare la trasformazione dell’Italia «in una colonia asservita a un imperialismo straniero»; occorreva colpire e neutralizzare i «gruppi dirigenti dei paesi assoggettati agli Stati Uniti d’America» (TO, 5; 705-6). L’obiettivo perseguito da quest’ultimo paese era così definito: era

 «la conquista del dominio sul mondo intiero […]; l’assoggettamento economico, politico e militare, quindi di tutta una serie di paesi che fino a ieri erano paesi indipendenti e anche di capitalismo sviluppato come la Francia e l’Italia; la preparazione di un attacco contro l’Unione Sovietica, contro la Cina, contro i paesi di democrazia popolare. In concreto, per preparare le forze necessarie a questo attacco e realizzare i suoi obiettivi, l’imperialismo americano ha organizzato basi militari nel mondo intiero, invia le proprie truppe e la fa stanziare in paesi che fino a ieri erano indipendenti e che mai avrebbero tollerato l’occupazione di truppe straniere» (TO, 5; 708).

Sarebbe un grave errore leggere questo testo come una banale tirata propagandistica. Siamo invece in presenza di una riflessione teorica e politica: a definire l’imperialismo non è soltanto l’ostilità nei confronti del campo socialista e della rivoluzione anticoloniale; proprio perché a caratterizzarlo è anche la gara per l’egemonia, l’imperialismo può comportare l’assoggettamento, coloniale o semicoloniale, di «paesi indipendenti e anche di capitalismo sviluppato come la Francia e l’Italia», e persino di un paese come la Francia (che nel 1952 aveva a disposizione un largo impero coloniale). La contraddizione tra paesi «di capitalismo sviluppato» non è necessariamente ed esclusivamente una contraddizione inter-imperialistica, può anche essere la contraddizione tra un imperialismo particolarmente potente e aggressivo e una potenziale colonia o semicolonia. Sarebbe un inammissibile abbellimento dell’imperialismo pensare che esso rifugga a priori dalla trasformazione di un paese «di capitalismo sviluppato» in colonia o semicolonia. Togliatti conosceva bene la polemica di Lenin contro Kautsky: «è caratteristica dell’imperialismo […] la sua smania non soltanto di conquistare territori agrari [come pretendeva Kautsky], ma di metter mano anche su paesi fortemente industriali», anche perché questo può indebolire l’«avversario» (LO, 22, 268).

Sulla base di un preciso bilancio storico e teorico, al fine di sventare il pericolo che l’Italia fosse trascinata dall’imperialismo statunitense in una guerra contro l’Unione Sovietica o contro la Cina popolare, Togliatti faceva appello alla mobilitazione la più ampia possibile: «Il movimento di cui l’Italia ha bisogno deve essere un movimento delle grandi masse del popolo, a qualunque partito, a qualunque gruppo sociale appartengano, per la salvezza della pace. Anche i cittadini oggi più lontani da noi possono e debbono essere attirati al lavoro per questa causa». E dunque: «A noi, partito della classe operaia, spetta, in questo momento come nei momenti più gravi del passato, riconoscere e difendere gli interessi di tutta la nazione» (TO, 5; 602 e 578). Era la rinuncia alla lotta di classe? Pronta era la risposta a questa possibile obiezione: «No, non esiste contrasto tra una politica nazionale e una politica di classe del partito comunista» (TO, 5; 590). Togliatti conosceva troppo bene Che fare? per appiattirsi su una lettura tradunionistica della lotta di classe. Soprattutto, in Unione Sovietica egli aveva potuto seguire direttamente l’epica resistenza di Mosca, Leningrado, Stalingrado contro il tentativo del Terzo Reich di rinverdire e radicalizzare la tradizione coloniale in Europa orientale, riducendo l’intero popolo sovietico alla condizione di schiavi al servizio della sedicente razza dei signori. Togliatti aveva ben compreso che la Grande guerra patriottica era una delle più grandi lotte di classe non solo del Novecento ma della storia mondiale.

Vale la pena di notare che nel novembre del 1938, nel momento in cui l’imperialismo giapponese cercava di sottoporre a un barbaro dominio coloniale e di schiavizzare il popolo cinese nel suo complesso, Mao Zedong teorizzava, in tali circostanze, l’«identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe». Come la Grande guerra patriottica, anche la Guerra di resistenza contro l’imperialismo giapponese è da annoverare tra le più grandi lotte di classe non solo del Novecento ma della storia mondiale (Losurdo 2013, cap. VI, §§ 7-8). Quasi certamente Togliatti ignorava il testo appena citato del leader comunista cinese; tanto più significativo è il fatto che egli giunga alle medesime conclusioni a partire dall’analisi concreta della situazione concreta.

6. L’imperialismo USA e i crescenti pericoli di guerra

Sia chiaro: non si tratta di abbandonarsi al gioco delle analogie. Anche per comprendere il quadro politico dei giorni nostri dobbiamo procedere all’analisi concreta della situazione concreta. È un compito che resta largamente da assolvere. Tuttavia, possiamo già definire alcuni punti fermi.

Va da sé che non dobbiamo stancarci di denunciare il ruolo infame di paesi come la Germania e l’Italia nello smembramento e nella guerra contro la Jugoslavia, o il ruolo infame dell’Italia nella guerra contro la Libia e della Germania nel colpo di Stato in Ucraina; per non parlare del ruolo infame della Francia prima di Sarkozy e poi di Hollande nella guerra contro la Libia e contro la Siria. Ma tutte queste infamie neocoloniali e altre ancora sono state rese possibili dalla strapotenza militare e dal ruolo egemonico degli USA, che talvolta le hanno promosse in modo più o meno diretto. E, tuttavia, nel guardare al pericolo di guerra su larga scala che si profila all’orizzonte non possiamo non tener conto dei profondi mutamenti intervenuti rispetto al passato.

Alla vigilia della prima e della seconda guerra mondiale c’erano due coalizioni militari contrapposte; ai giorni nostri c’è in pratica una sola gigantesca coalizione militare la (NATO) che si espande sempre di più e che continua a essere sotto il ferreo controllo statunitense. Alla viglia della prima e della seconda guerra mondiale i principali paesi capitalistici si accusavano reciprocamente di scatenare la corsa al riarmo; ai giorni nostri, invece, gli Stati Uniti criticano i loro alleati perché non dedicano maggiori risorse al bilancio militare, perché non accelerano a sufficienza la politica di riarmo. Chiaramente, la guerra a cui si pensa a Washington non è la guerra contro la Germania, la Francia o l’Italia, ma quella contro la Cina (il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale e diretto da uno sperimentato partito comunista) e/o la Russia (che con Putin ha avuto il torto, dal punto di vista della Casa Bianca, di scuotersi di dosso il controllo neocoloniale cui si era piegato o adattato Eltsin). E questa guerra su larga scala, che potrebbe persino varcare la soglia nucleare, gli Stati Uniti sperano all’occorrenza di poterla condurre con la partecipazione subalterna, al loro fianco e ai loro ordini, di Germania, Francia, Italia e degli altri paesi della NATO. 

È dunque contro il pericolo di una guerra scatenata dalla superpotenza che, unica al mondo, continua a ritenersi la «nazione eletta da Dio», dalla superpotenza che da un pezzo aspira a garantire a se stessa «la possibilità di un primo colpo [nucleare] impunito» (Romano 2014, p. 29), dalla superpotenza che ha installato anche nel nostro paese basi militari e armi nucleari direttamente o indirettamente controllate da Washington, è contro questo pericolo di guerra concreto che siamo chiamati a lottare. E potremo affrontare questo pericolo crescente con tanta più efficacia quanto più sapremo tener conto, adattandola ovviamente alla situazione odierna, della grande lezione di Palmiro Togliatti.

Riferimenti bibliografici

Gar Alperovitz 1995
The Decision to Use the Atomic Bomb and the Architecture of an American Myth, Knopf, New York

André Fontaine 1968
Histoire de la guerre froide (1967); tr. it., di Rino Dal Sasso, Storia della guerra fredda. Dalla guerra di Corea alla crisi delle alleanze, il Saggiatore, Milano

Antonio Gramsci 1975
Quaderni del carcere, ed. critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino

Henry Kissinger 2011
On China, The Penguin Press, New York

Vladimir I. Lenin 1955-70
Opere complete, Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si rinvia direttamente nel testo, facendo precedere dalla sigla LO l’indicazione del volume e della pagina)

Domenico Losurdo 2013
La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari

Domenico Losurdo 2014
La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma

Benito Mussolini 1979
Scritti politici, a cura di Enzo Santarelli, Feltrinelli, Milano

Sergio Romano 2014
Il declino dell’impero americano, Longanesi, Milano

Carlo Rosselli 1988
Scritti politici, a cura di Zeffiro Ciuffoletti e Paolo Bagnoli, Guida, Napoli

Carlo Rosselli 1989-92
Scritti dell’esilio, a cura di Costanzo Casucci, Einaudi, Torino

Luigi Salvatorelli, Giovanni Mira 1972
Storia d’Italia nel periodo fascista (1964), Oscar Mondadori, Milano, 2 voll.

Michael S. Sherry 1995
In the Shadow of War. The United States Since the 1930s,Yale University Press, New Haven and London

Tzvetan Todorov 2012
La guerra impossibile, in «la Repubblica» del 26 giugno, pp. 1 e 29

Palmiro Togliatti 1973-84
Opere, a cura di Ernesto Ragionieri, Editori Riuniti, Roma (a questa edizione si rinvia direttamente nel testo, facendo precedere dalla sigla TO l’indicazione del volume e della pagina)