La riabilitazione del colonialismo come “nuova via democratica”

di Diego Angelo Bertozzi per Marx21.it

  

 

jalil larussaMentre la Libia di Gheddafi, figlia di una rivoluzione nazionale e sociale al contempo, ha sempre chiesto all’Italia di riconoscere fino in fondo la responsabilità dei crimini commessi durante l’occupazione coloniale (1911 – 1943), la cosiddetta nuova Libia del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) riabilita, invece, quello stesso passato coloniale per alimentare ulteriormente la criminalizzazione di tutta l’esperienza della Jamahirija. Jalil, presidente del CNT, ha voluto ricordare, con il compiacimento del ministro della difesa Ignazio La Russa, che “i libici sanno perfettamente che il periodo del colonialismo italiano procedeva in concomitanza con un’era di grandi costruzioni e sviluppo” e sottolineare come “in quel periodo la legge andasse nel corso naturale, cause giuste, processi giusti.

E c’era sviluppo agricolo” [1].


D’ora in avanti la riconfermata almeno a parole amicizia tra Italia e Libia avrà come base la condivisione del mito del colonialismo italiano dal volto umano, distintosi nel suo corso storico da quello violento e genocida delle altre potenze coloniali. Insomma, bombardamenti terroristici, deportazioni, campi di concentramento ed esecuzioni sommarie impallidiscono di fronte al lascito di civiltà che il paese nordafricano ha ereditato dalla dominazione italiana. Siamo alla classica riproposizione della tematica da “missione di civiltà” del popolo inetto e incapace di mettere a frutto le terre che accidentalmente occupa. La stessa accusa che, per fare alcuni esempi, ha colpito indiani d’America, aborigeni e palestinesi.

Sono i nuovi rappresentanti di un popolo vittima del colonialismo a dare nuova linfa alla persistente tendenza italiana a non fare i conti con una delle pagine più oscure della nostra storia nazionale, preferendo tutt’al più derubricarla a parentesi della malattia fascista che avrebbe colpito il corpo altrimenti sano dell’Italia liberale.


Dobbiamo, infatti, ricordare che la prima vera condanna ufficiale del colonialismo italiano in Libia fu pronunciata nel 1999 da Massimo D’Alema, allora Presidente del Consiglio, che fece omaggio ai martiri libici di Sciara Sciat in quanto “eroi nazionali giustiziati dagli italiani”- Il comunicato congiunto italo-libico dello stesso anno recitava: “Il Governo italiano esprime il rammarico per le sofferenze arrecate al popolo libico a seguito della colonizzazione italiana”. Il Trattato di amicizia del 2008, concluso dal governo Berlusconi, pareva chiudere definitivamente la disputa.


L’aggressione della Nato ancora in atto, con il ruolo fondamentale dell’Italia, non solo ha stracciato le promesse di carta, ma rischia di spargere nuovamente una coltre di fumo sul passato coloniale italiano in Africa. Le dichiarazioni di Jalil possono risultare meno sorprendenti e più conseguenti se si pensa al fatto che ci troviamo di fronte ad un riedizione da ventunesimo secolo del “Quisling” portato al potere e legittimato dal determinante sostegno delle micidiali armi di distruzione della Nato.


Vale tuttavia la pena di ricordare per sommi capi cosa ha significato per il popolo libico la pratica coloniale dell’Italia liberale e fascista, così diversa da quel paradiso di certezza del diritto e civiltà giuridica narrato da Jalil.
La volontà di sterminio connaturale alle imprese coloniali caratterizza la politica italiana fin dall’invasione della Tripolitania e della Cirenaica nel 1911 con Giolitti a capo del governo. Mentre in Italia ci si prepara alla estensione del diritto di voto e la stampa trasuda nazionalismo, in Libia, come racconta l’inviato della Stampa Giuseppe Bernone, “le esecuzioni capitali che sono durate tre giorni e che hanno inviato ad Allah mille fedeli” sono considerate misure necessarie per “stabilire nell’animo arabo il senso della cosa giudicante e la certezza della nostra forza” [2]. Quando a Sciara Sciat le truppe italiane subiscono un doloroso rovescio, si risponde con la forca eretta in Piazza del Pane a Tripoli per dare una lezione all’arabo traditore colpevole di un vile attacco. In un rapporto al generale Santangelo, comandante delle truppe in Tripolitania, il colonnello Pantano sottolinea come si “raccontano con compiacenza e come utili e belle imprese cose sbalorditive; arabi trovati feriti gravemente e inondati di petrolio o benzina e bruciati; altri gettati vivi in pozzi e chiusivi dentro; altri fucilati senz’altra ragione che quella di un feroce capriccio. Vi sono ufficiali che si incaricano personalmente di simili esecuzioni” [3]. Giolitti si rivolge al generale Caneva: “Quanto ai rivoltosi arrestati, che non sono fucilati costì, li manderà alle isole Tremiti, nel mar Adriatico, con domicili coatti” [4]. Così dal 29 ottobre del 1911 al 5 gennaio del 1912, muoiono di stenti quasi duecento dei 1367 deportati giunti nello stesso periodo.


A partire dal 1917, dopo una ribellione generalizzata che ha costretto gli italiani al controllo delle sole coste, bombe incendiarie e mitragliamenti dall’alto sono utilizzati per fare terra bruciata intorno ai ribelli e dal 1926, con il Fascismo ormai prossimo a diventare regime, per colpire indiscriminatamente la popolazione civile, i campi coltivati e le mandrie ricorrendo anche a gas come l’iprite. La Libia, quindi, l’utile palestra di sperimentazione di armi micidiali in vista della successiva invasione dell’Eritrea.


Badoglio, nominato governatore di Tripolitania e Cirenaica nel 1929, chiaro fin da subito nel mostrare quale sarà il modus operandi dei dominatori: “Se mi obbligate alla guerra la farò con criteri e mezzi potenti, cui rimarrà il ricordo. Nessun ribelle avrà pace: né lui, né la sua famiglia, né i suoi arredi, né i suoi armamenti. Distruggerò tutto, uomini e cose” [5]. E ancora: “Noi siamo qui la nazione dominante che ha cacciato via l’inetto dominatore e vi si sostituita per esercitare un’alta missione di civiltà. L’arabo, o per meglio dire tutta la popolazione indigena, deve acquisire questa profonda convinzione: che noi siamo qui e vi resteremo in eterno” [6]. Per piegare una diffusa resistenza si arriva alla deportazione della popolazione sulla quale fatta ricadere comunque la responsabilità degli attacchi portati dai guerriglieri. Le fucilazioni senza alcun processo sono il drammatico portato di una generalizzata accusa di connivenza con i ribelli. Se Omar al Mukhtar è il volto del nemico, tutta la Libia risulta un organismo infetto che ha bisogno di una drastica cura.


Nel 1931 oltre 100mila arabi sono deportati dalla Cirenaica attraverso una marcia di sofferenza per finire in veri e propri lager saranno 13 in tutto tra i quali i più tragicamente noti sono quelli di Marsa Brega e Soluch. Una traversata di regioni semidesertiche che ricorda quelle a cui erano stati costretti gli indiani d’America dal presidente democratico Andrew Jackson con l’Indian Removal Act del 1830. Scrive Egidi, commissario regionale di Bengasi: “Non furono ammessi ritardi durante le tappe. Chi indugiava veniva passato direttamente per le armi L’obiettivo era quello di “ridurre la popolazione alla più squallida fame se esse non si assoggettano definitivamente agli ordini” [7]. Insomma, questa la civiltà e la certezza del diritto che caratterizzavano la dominazione italiana di contro agli orrori dell’era gheddafiana.

 

Le lodi del “liberatore” Jibril al colonialismo non costituiscono una isolata presa di posizione. Il cinese Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace del 2010, andato ben oltre. Ad essere riabilitato non è stato, in questo caso, il colonialismo di una media potenza come l’Italia liberale e fascista, ma ben quello del cartello di tutte le grandi potenze (Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Italia, Russia zarista e Giappone) che per un secolo intero ha umiliato e sterminato il popolo cinese attraverso il commercio dell’oppio, la politica delle cannoniere, le spedizioni punitive e la costituzione di sfere di influenza. In una intervista del 1988 comparsa sul “South China Morning Post”, il futuro campione dei diritti umani, celebrato in occidente a destra come a sinistra, è passato sopra la più che secolare sofferenza del proprio popolo dichiarando che “ci vorrebbero 300 anni di colonialismo” perché “in 100 anni di colonialismo, Hong Kong diventato quello che vediamo oggi“. Dunque “Vista la grandezza della Cina, certamente ci vorrebbero 300 anni perché una colonia sia in grado di trasformarsi come la Hong Kong di oggi” [8]. Ma non è poi così sicuro che tale cura possa essere sufficiente: “Dubito che 300 anni siano abbastanza“.


Sempre Liu Xiaobo, già sostenitore della guerra di Bush all’Iraq e della protezione Usa ad Israele contro l’atavico odio islamico, nel 2006 ha chiarito che la “modernizzazione significa in sostanza occidentalizzazione, la scelta di una vita umana coincide con la scelta del modo di vita occidentale. La differenza tra un sistema di governo occidentale e quello cinese è quella tra l’umano e l’inumano, non c’è una via di mezzo […] . L’occidentalizzazione non è una scelta di una nazione ma una scelta per il genere umano” [9]. Se le parole di Jalil si limitano a riabilitare un periodo del passato per giustificare la fine del regime di Gheddafi, il premio Nobel per la pace, invece, si augura per la rinascita della Cina una nuova fase di colonizzazione con una durata triplicata rispetto a quella patita dal 1840 al 1949. Insomma i difensori della libertà che tanto piacciono all’imperialismo nostrano sono i più entusiasti avvocati del colonialismo quando si tratta di gettare a mare, anche con l’intervento militare straniero, governi che difendono strenuamente la sovranità delle proprie vie di sviluppo. L’invocazione del colonialismo, nelle sue manifestazioni peggiori, diventa più che legittimo se l’obiettivo è quello del “regime change”, a Tripoli come in un futuro a Pechino.

 

NOTE


“Libia: Jalil (CNT), il colonialismo stato meglio di Gheddafi, www.agi.it, 9 ottobre 2011.
SALERNO E., Genocidio in Libia, manifestolibri, Roma, 2005, pag. 29.
Ibidem, pag. 27.
DEL BOCA A., Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza, 2005, pag. 112.
ARUFFO A., Storia del colonialismo italiano, Datanews, Roma, 2003, pag. 67.
Ibidem, pag, 73.
Ibidem, pag. 76.
8 Liu Xiaobo, Liu Xiaobo, the “Dark Horse” of Literature, Open Magazine, 27 November 1988.
Liu Xiaobo, “My 19 Years of Ties with “Open Magazine”, Open Magazine, 19 December 2006.