Il fallimento dell’Euro

di Pedro Carvalho [*]

 

da www.resistir.info/europa/fracasso_euro.html
Traduzione dal portoghese per www.resistenze.org a cura di Concetta e Valerio

 

failing-euroLa verità è che le promesse fatte il 2 maggio 1998, quando è stato approvato l’elenco degli 11 paesi fondatori dell’Eurozona , non si sono concretizzate. Si dichiarava che l’euro avrebbe portato tassi di crescita economica elevati, nella Strategia di Lisbona si indicava anche tassi di crescita della produzione del 3% all’anno, ma in realtà la crescita media annua è stata solo 1,1% tra il 2001 e il 2010. Si affermava che l’Euro avrebbe portato una forte crescita dell’occupazione, contribuendo alla riduzione degli elevati livelli di disoccupazione nall’Unione Europea (UE), ma ciò che si è verificato è stata una crescita anemica, in media, del 0,6% all’anno, con un tasso di disoccupazione medio del 8,7% e nel 2010 è tornato nuovamente a due cifre, superando il 10%, ovvero quasi 16 milioni di disoccupati nell’Eurozona .

Gli squilibri macroeconomici sono peggiorati, ciò può essere constatato nelle crescenti disparità dei saldi delle bilance commerciali fra i paesi che compongono l’Eurozona (vedi grafico 1), in cui vi sono paesi “importatori di denaro” e quindi debitori e con un crescente livello di indebitamento, come il Portogallo, e paesi ” esportatori di denaro ” e quindi creditori.
Da acritici molti passarono a riconoscere le conseguenze della politica dell’Euro forte, imposta soprattutto dalla Germania fin dall’inizio, nella perdita di competitività dell’UE, specialmente della sua periferia e in particolare dei cosiddetti “paesi della coesione”, come il Portogallo. Passarono a riconoscere le difficoltà di un’unione economica e monetaria, con le conseguenze derivanti dall’applicazione di una politica monetaria comune, a paesi con grandi disparità nei livelli di sviluppo economico e sociale e, quindi, con necessità di politiche differenziate a livello monetario e di cambio.
Ed essendoci quelli che indicano il rischio di implosione dell’Euro, il terreno del “fallimento” è disseminato di federalisti più convinti che, omettendo la supremazia tedesca, ritornano al sogno di unificazione politica dell’Europa – una moneta, uno stato, un governo economico. E, come ci si potrebbe aspettare, tornano ai “padri fondatori” e ai grandi leader del passato. Tornano anche le teorie del nucleo super-integrato, difendendo anche l’”espulsione” delle economie più deboli e periferiche dall’Eurozona.
Ci sono anche coloro che riconoscono la necessità che gli Stati riprendano nelle loro mani gli strumenti della politica economica, monetaria, fiscale e di cambio, sostenendo che i paesi di propria iniziativa devono uscire dall’Eurozona , con una uscita negoziata con compensazione finanziaria.
Ma ciò che è certo è che senza riconoscere l’Euro e l’Unione Economica e Monetaria come strumenti di classe non possiamo comprendere il ruolo che l’Euro ha avuto in questo decennio e tanto meno rispondere alla domanda se l’Euro ha fallito. In termini economici, tutti sapevamo fin dall’inizio che l’Eurozona non era una Zona Monetaria Ottimale, non era neppure un risultato di oggettive necessità economiche, di sviluppo delle forze produttive. L’euro era ed è una decisione politica, una scelta del grande capitale “europeo” nel contesto di integrazione capitalista nel quadro di classe che costituisce l’Unione Europea.
Lo strumento di classe
L’Euro e l’Unione Economica e Monetaria devono essere inquadrati nella risposta del capitale alla crisi di redditività che il sistema capitalistico mondiale attraversa. L’euro è stato parte della risposta del capitale “europeo”, che recepisce le linee guida del “Washington Consensus” che ha caratterizzato la risposta del capitalismo alla crisi negli ultimi 20 anni.[i]
Dietro l’unico obiettivo della politica monetaria – la cosiddetta stabilità dei prezzi, c’è l’obiettivo, ora più chiaramente assunto e ripetuto, di ridurre i costi unitari del lavoro, cioè tornare alla dinamica dei salari dipendente dall’evoluzione della produttività, vale a dire garantire il trasferimento dei guadagni di produttività dal lavoro al capitale, contribuendo ad aumentare il tasso di sfruttamento e con questo garantire sostegno ai profitti.
L’euro creava così un ambiente favorevole alla “moderazione salariale”, togliendo ai paesi la politica monetaria, dei cambi, ma anche di bilancio e quella fiscale, a causa degli obblighi derivanti dal Patto di Stabilità [ii] e dai suoi programmi, gli unici fattori di adeguamento agli shock economici ricadono su salari e occupazione, o meglio, dal deprezzamento dei salari e aumento della disoccupazione. Ovviamente, l’aumento della disoccupazione è l’arma strategica per eccellenza del capitale – l’esercito di riserva, per “disciplinare” il lavoro e “moderare” l’aumento dei salari.
Ma con l’Euro si è anche accentuata la liberalizzazione dei movimenti di capitale e, di conseguenza, il grado di mobilità del capitale multinazionale che opera nel mercato interno europeo, riducendo i costi di internalizzazione e di internazionalizzazione del capitale. Le stesse delocalizzazioni, sia all’interno dell’UE sia verso paesi terzi, si aggiungono alla disoccupazione per “disciplinare il lavoro”. Allo stesso tempo, la riduzione che si è verificata nei tassi di interesse non ha solo contribuito ad abbassare i costi di rifinanziamento del capitale e sostenere artificialmente i tassi di profitto, ma per spingere la classe operaia a indebitarsi, permettendo in tal modo la svalutazione dei salari a causa dell’indebitamento, il che di per sé rappresenta un ampliamento dello sfruttamento del lavoro, ora anche a causa dei pagamenti degli interessi al capitale finanziario.
Allo stesso tempo, la mobilità del capitale mette anche in concorrenza le forze lavoro dei diversi paesi. La riduzione dei costi unitari di lavoro è il motivo di incentivazione della concorrenza inter-capitalistica, sia a livello nazionale che estero, per ottenere maggiori quote di mercato, cioè per l’appropriazione e la centralizzazione della ricchezza prodotta dalla forza lavoro “controllata” da altri capitalisti. Un “gioco a somma zero”, che come mostrato nel Grafico 1 per l’Eurozona, ha vincitori e vinti come conseguenza dello sviluppo diseguale del capitalismo.
Bisogna sottolineare in questo contesto, i guadagni evidenti del grande capitale tedesco, soprattutto finanziario, con l’Euro. La Germania ha eccedenze commerciali a causa del deficit e indebitamento di altri paesi, come il Portogallo.
L’eccedenza commerciale inter-comunitaria tedesca è aumentata del 172,3% tra il 2000 e il 2007, e anche nel 2009, nonostante la recessione, l’eccedenza commerciale è salita a 70,5 milioni di euro, che rappresentano circa il 42% del PIL portoghese di quest’anno. Da parte sua, simmetricamente, paesi come il Portogallo hanno visto il loro deficit commerciale inter-comunitario aggravarsi nello stesso periodo del 23%, la Grecia 34,2%, la Spagna 105,9% e, perfino la Francia, ha avuto un peggioramento del suo deficit del 208,2%. Forse anche qui si spiega che, nonostante le apparenze, l’asse franco-tedesco che ha condotto il processo di integrazione capitalista europea, sia ora solo tedesco.
Questi numeri sono anche la prova della de-industrializzazione dei paesi della cosiddetta “Coesione” e del ruolo cui sono stati votati nell’interno della UE: da un lato, di consumatori, per lo smaltimento delle eccedenze di produzione – sia beni commerciabili, sia beni di produzione, quando non dello stesso armamento – del centro dell’Unione europea; dall’altro lato, di fornitori di manodopera a basso costo per servire gli interessi di spartizione del capitale multinazionale, in una grande rete di subfornitori. Per questo, i Fondi strutturali e di coesione sono stati essenziali, servendo gli interessi del capitale tedesco e associati, così come il Piano Marshall è servito al capitale nord-americano.

Questo è stato chiaramente il caso Portoghese, dove il modello economico è stato basato (e si basa) sui bassi salari e nella ri-esportazione, insieme con la progressiva deindustrializzazione e liquidazione del settore primario sostituito da una terziarizzazione economica basata su settori di basso valore aggiunto. Nel 2010, la produzione industriale in Portogallo era al livello del 1996. Tra il 2001 e il 2010, già sotto l’egida dell’Euro, la produzione industriale nazionale retrocesse del 14,1%. In Grecia, la contrazione è stata maggiore, 20,4%. In Spagna, è stata del 14% e in Francia la contrazione è stata del 6,4%. Il che ancora una volta indica, che l’euro ha rafforzato l’imperialismo tedesco nei confronti degli altri imperialismi, in particolare di quello francese.
Si dice spesso che il suddetto guadagno competitivo della Germania è dovuto principalmente alla stagnazione della crescita dei salari reali dei lavoratori tedeschi durante l’ultimo decennio.
Qui, l’euro non ha fallito, ha adempiuto al ruolo per cui è stato creato. L’Euro è stato ed è uno strumento fondamentale, al servizio dello sfruttamento del lavoro e del ripristino delle condizioni di resa del capitale. Il Grafico 2 è di questo esplicativo. In termini medi annui, in Germania, l’utile netto è cresciuto 81 volte più dei salari reali. In Portogallo è cresciuto 4 volte e nell’Eurozona 7 volte. Parallelamente, i reali costi unitari del lavoro, in termini medi annui, sono diminuiti dello 0,5% in Germania e 0,1%, sia in Portogallo che nell’Eurozona. Ciò tenendo già conto della recessione mondiale del 2009, in cui l’Eurozona ha avuto un calo nel PIL del 4,1%, pregiudicando in questo modo la produttività del lavoro (prodotto per dipendente).
Ma è forse più significativo prendere in considerazione i valori dei dieci anni dell’Euro. Tra il 2001 e il 2010, i profitti del capitale tedesco sono aumentati del 41,7%, mentre i reali costi unitari del lavoro sono diminuiti del 4,6%. Lo stesso è accaduto nell’Eurozona , dove i profitti sono aumentati del 35,8%, mentre i reali costi unitari del lavoro sono diminuiti dell’1,1%. Così in Portogallo, dove i profitti sono cresciuti nell’ultimo decennio del 25,6%, a causa di una riduzione dei reali costi unitari del lavoro dell’1,3%.
Questo è uno strumento che il grande capitale “europeo” non vuole perdere, anche a fronte di rivalità inter-imperialiste esistenti, anche nei paesi che compongono l’area l’Eurozona. In effetti, uno strumento cui le principali organizzazioni di capitale “europeo”, la Business Europe (la confederazione padronale europea) ed ERT (tavola rotonda degli industriali europei), hanno dato un importante contributo alla sua creazione e sostegno.
Le aree e l’integrazione
Essendo centrale la questione del ruolo dell’Euro e del suo controllore, la Banca Centrale Europea per ridurre i costi unitari del lavoro, la verità è che esistevano in parallelo altri obiettivi con la creazione dell’euro. All’inizio, come del resto in altri passaggi della cosiddetta costruzione europea, l’approfondimento dell’integrazione in termini economici ha sempre contribuito ad una maggiore integrazione politica, in un processo continuo di approfondimento verso l’allargamento dell’Unione, come forma per risolvere i blocchi e le crisi del processo di integrazione e di “appianare” le contraddizioni del potere e della distribuzione dei guadagni e delle perdite. L’Euro, una delle pietre lanciate dal trattato di Maastricht, rafforzava in tal modo il percorso dell’integrazione che veniva a compiersi, essenzialmente nel trattato di Lisbona.
Una unione monetaria, la capacità di emettere moneta che è un componente della sovranità di uno Stato, creava le condizioni oggettive per rafforzare le componenti della costituzione di un effettivo governo economico. Già nel 1997, fu creato il Patto di Stabilità, imponendo il processo di condizionamento della politica di bilancio e fiscale dei paesi partecipanti, in parallelo, più tardi, con la Strategia di Lisbona (ora ribattezzata Strategia 2020), nuovi vincoli sono imposti, con programmi di attuazione e di indirizzo adottati a livello comunitario, in relazione alla liberalizzazione di settori chiave nell’area delle comunicazioni, energia, trasporti e dei servizi, delle riforme in relazione al mercato del lavoro e nelle aree sociali, così come il finanziamento dell’economia.
Fino all’attuale “Semestre Europeo” approvato e in corso, che mette praticamente tutti gli ambiti della politica di uno Stato, al vaglio della decisione comunitaria, che diventa così un’imposizione assoluta a qualsiasi modello di sviluppo endogeno che uno Stato sostiene. Ovviamente non per tutti, ma secondo le dimensioni e la potenza dello Stato interessato, perché ciò che vale per i paesi piccoli e medi, non si applica ai grandi, come ha dimostrato il fallimento del Patto di Stabilità, da parte della Germania e della Francia nel 2005.
Naturalmente, a contorno dell’Unione Politica e dell’Unione Economica e Monetaria, c’era anche la creazione di una zona di influenza dell’Euro, per rivaleggiare con quella del dollaro, dando copertura alle esigenze del capitale “europeo”, garantendo all’Euro il ruolo di riserva mondiale. L’unico problema è che a differenza della zona di influenza del dollaro (che continua a dominare i principali mercati delle materie prime), che ha nel suo centro gli Stati Uniti disposti a lavorare come consumatore e debitore in ultima istanza, nel caso dell’Euro esiste una Germania che assume un ruolo opposto, nel contesto di un quasi inesistente bilancio comunitario, che rappresenta circa l’1% del PIL dell’UE, venti volte inferiore a quello del bilancio federale degli Stati Uniti.
Qui sorgono le contraddizioni inter-imperialiste. È disposta la Germania, il capitale tedesco, ad assumere il suo ruolo nella zona di influenza dell’Euro, che implica ovviamente assumere le perdite e condividere i guadagni? E sarà sufficiente? Perché la questione non è tanto se l’Euro ha fallito qui, ma il fatto di sapere da parte del capitale tedesco che l’Euro vale più del Marco come strumento di classe a loro disposizione. È certo che senza un intervento per rispondere ai crescenti squilibri macroeconomici, l’Euro è a rischio di implodere o che l’Eurozona si riduca.
Il punto è che anche se l’Euro ha adempiuto al suo ruolo, nel caso europeo, la verità è che questo non è stato sufficiente a rispondere alla crisi sistemica nella quale il capitalismo è ancora immerso – una crisi di redditività, una crisi di sovra-accumulazione di capitale in tutte le sue forme, in cui il sistema capitalistico mondiale (soprav)vive passando da una crisi all’altra, sostenendo artificialmente “montagne” storiche di debito e capitale fittizio, senza alcuna copertura, senza una riforma effettiva del processo di valorizzazione del capitale. Certo, limitando e adattando il ruolo strumentale di integrazione capitalista europea.
Il “Patto Euro plus”, concordato nel Consiglio Europeo di Primavera del 24 e 25 marzo 2011, mostra chiaramente per cosa è servito e serve l’Euro: ridurre i costi unitari del lavoro. L’austerità imposta dall’Euro, per mezzo di una politica monetaria restrittiva e del/dei PEC(s) [Patto/i di Stabilità- PSC], ha lo scopo strategico di ripristinare le condizioni di redditività del capitale, tramite un aumento dello sfruttamento del lavoro, nel contesto di una crisi sistemica.
L’Euro era ed è una “dichiarazione di guerra” ai lavoratori dei paesi dell’Eurozona e di tutta l’UE. Un decennio di svalutazione sociale e disoccupazione crescente lo dimostra. Nonostante le contraddizioni, l’integrazione capitalista si rafforza creando meccanismi di imposizioni, elevando il livello dell’offensiva di classe in corso.
L’emancipazione dei lavoratori portoghesi e degli altri lavoratori dei paesi che costituiscono l’UE, passa attraverso la presa di coscienza che non ci sono uscite nell’attuale quadro che non passino attraverso una rottura con le politiche attuali, la necessità di sconfiggere lo strumento di classe che è l’Unione Europea, di restituire agli Stati gli strumenti di politica economica, monetaria, fiscale e di tasso di cambio e mettere sotto dominio pubblico i settori strategici per consentire lo sviluppo economico dei paesi, al servizio dei lavoratori e dei popoli. Essere consapevoli che solo la lotta delle masse e l’aumento del grado di organizzazione della lotta può sconfiggere l’offensiva in corso. Tenendo presente che sono finiti i tempi della ineluttabilità e dell’irreversibilità e che ora è il tempo delle opportunità, tenendo conto delle contraddizioni inter-capitaliste. Oggi, come ieri, ciò che è necessario è che i lavoratori e i popoli prendano nelle proprie mani l’affermazione del proprio destino, libero dallo sfruttamento. La lotta all’Euro, agli orientamenti che gli danno supporto e alle politiche che ne derivano, è parte integrante di questa lotta più generale.

[*] Economista.

L’ originale si trova nella rivista “Portugal e a UE”, nº 61, Agosto 2011.

[i]Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Washington consensus è un’espressione, coniata nel 1989 dall’economista John Williamson per descrivere un insieme di 10 direttive di politica economica destinate ai paesi che si trovino in stato di crisi economica, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicato da organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, entrambi aventi sede a Washington.
L’espressione ha poi assunto anche un significato informale, identificando (quasi sempre in senso dispregiativo) un insieme di politiche volte ad esaltare il ruolo del libero mercato a discapito dell’intervento dei governi nell’economia di un paese, secondo i dettami dell’orientamento neoliberista
Le direttive
Washington consensus comprende dieci direttive:
– Una disciplina di politica fiscale volta al perseguimento del pareggio di bilancio
– Il riaggiustamento della spesa pubblica verso interventi mirati: si raccomanda di limitare i sussidi indiscriminati e di favorire invece interventi a sostegno del progresso economico e delle fasce più deboli, come le spese per l’istruzione di base, per la sanità di base e per lo sviluppo di infrastrutture
– Riforma del sistema tributario, volta all’allargamento della base fiscale (intesa come somma globale delle singole basi imponibili) e all’abbassamento dell’aliquota marginale
– Tassi di interesse reali (cioè scontati della componente puramente inflattiva) moderatamente positivi
– Tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato
– Liberalizzazione del commercio e delle importazioni, in particolare con la soppressione delle restrizioni quantitative e con il mantenimento dei dazi ad un livello basso e uniforme
– Apertura e liberalizzazione degli investimenti provenienti dall’estero
– Privatizzazione delle aziende statali
– Deregulation (processo per cui i governi eliminano le restrizioni degli affari al fine di incoraggiare le efficienti operazioni del mercato)
– Tutela del diritto di proprietà privata
[ii] [Da Wikipedia, l’enciclopedia libera: Il Patto di stabilità e crescita (PSC) è un accordo stipulato dai paesi membri dell’Unione Europea, inerente al controllo delle rispettive politiche di bilancio, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione Economica e Monetaria europea (Eurozona)]