Il petrolio disegna nuove alleanze

oil 10di Demostenes Floros
da aboutenergy.com

La nascita dell’OPEC+ ha sancito la centralità della Russia come attore geopolitico ed energetico al fianco dell’Arabia Saudita, mentre cala il peso di Washington sull’Organizzazione. Sullo sfondo si rafforza l’alleanza tra Mosca e Pechino

Nuovi tagli di produzione per limitare l’offerta di petrolio: lo hanno annunciato il 6 dicembre scorso i 24 paesi che compongono l’OPEC+. La coalizione tra il Cartello dei paesi esportatori di petrolio e i paesi non OPEC, a guida russa, ha inaspettatamente aumentato i tagli produttivi per un ammontare di 500.000 b/g, incrementandoli da 1.200.000 b/g a 1.700.000 b/g fino al 31 marzo 2020.

L’obiettivo dei produttori di petrolio è di ridurre l’eccesso di offerta attualmente presente nel mercato. In realtà, l’OPEC+ aveva già effettuato tagli per un importo superiore rispetto a quelli ufficialmente approvati il 30 novembre 2018 e implementati a partire dal primo gennaio 2019. Ad esempio, a novembre scorso, l’OPEC+ ha tagliato 242.000 b/g in più rispetto alle quote prestabilite. Questo è il motivo principale per cui i prezzi del barile non sono significativamente aumentati nei giorni seguenti la stipula dell’accordo. Di fatto, nel momento in cui scriviamo (12 dicembre), il Brent viene scambiato a 63,93 $/b, mentre il WTI a 58,91 $/ b, circa 1 $/b in più rispetto al 6 dicembre.

In conformità con le stime fornite dall’International Energy Agency (IEA) il 15 novembre scorso, le entrate lorde medie giornaliere della Federazione Russa sono risultate essere pari a 670 milioni di dollari nel corso dei primi dieci mesi dell’anno corrente, in aumento di 170 milioni di dollari rispetto allo stesso periodo del 2016, prima che la neo nata OPEC+ riducesse la produzione di 1.800.000 b/g il 30 novembre 2016. Al contempo, l’Arabia Saudita – che ha tagliato il proprio output di oltre 700.000 b/g tra gennaio-ottobre– ha incamerato entrate per 630 milioni di dollari al giorno, cioè 125 milioni di dollari aggiuntivi rispetto al medesimo periodo del 2016.

Durante l’ultimo meeting di Vienna, i produttori OPEC e la Russia sono riusciti a raggiungere un importante accordo grazie al fatto che i primi hanno accettato una precisa richiesta russa, consistente nell’escludere i gas condensati dal calcolo del proprio tetto produttivo. In precedenza, solamente i membri dell’OPEC godevano di tale diritto. Nonostante non sussista una definizione comune di gas condensati, secondo la terminologia utilizzata dalla IEA, per petrolio si intende la somma tra greggio, liquidi separati dal gas naturale (in inglese, NGL – Natural Gas Liquids) e gas condensati, cioè liquidi condensati dai gas naturali (Gas Condensate). Più precisamente, per liquidi associati, si intende la somma di liquidi separati e liquidi condensati. Grazie a questo nuovo metodo di calcolo, il quale è stato esteso a tutti i produttori non-OPEC, l’output russo è risultato inferiore rispetto a quello calcolato con il metodo precedente, conformandosi più agevolmente anche agli ultimi tagli decisi in sede OPEC+.

A tal riguardo, un secondo aspetto merita di essere approfondito.

La maggior parte dei giacimenti di gas naturale contiene una mescolanza di gas, tra cui anche i condensati, che vengono estratti contemporaneamente. Tenuto conto delle nuove norme decise il 6 dicembre, d’ora in poi, nel caso in cui la Federazione Russa (Gazprom, Lukoil, ecc.) desiderasse sfruttare nuovi giacimenti gasieri – ad esempio, in Siberia – al fine di soddisfare la domanda crescente di gas naturale della Cina, potrebbe farlo senza la preoccupazione di dovere limitare la produzione di condensati onde rispettare la propria quota estrattivo di petrolio. Per di più, il prezzo di mercato dei gas condensati è superiore rispetto a quello del gas naturale.

Dopo il colpo di Stato in Ucraina nel 2014, in virtù del quale si è giunti anche al referendum in Crimea, gli Stati Uniti d’America – così come l’Unione Europea – hanno imposto sanzioni nei confronti della Federazione Russa. A cinque anni di distanza da quegli eventi, l’influenza politica di Mosca sull’OPEC è un dato di fatto, mentre il peso statunitense sull’Organizzazione, la quale era sempre stata considerata una sorta di “giardino di casa di Washington” da parte delle elite americane, sta sensibilmente diminuendo come abbiamo avuto modo di anticipare sin dal nostro report di giugno 2019.

Al tempo, ponemmo in evidenza i seguenti tre aspetti politici fondamentali:

– L’istituzionalizzazione dell’OPEC+ sancisce la centralità della Federazione Russa, sia come principale esportatore di energia al mondo (a partire da petrolio e gas naturale) sia, come indispensabile attore geopolitico della nascente architettura internazionale multipolare;

– L’OPEC+ rafforza il coordinamento delle politiche dei produttori convenzionali dinnanzi alla sfida lanciata loro nel corso degli ultimi anni dai cosiddetti frackers, o produttori non convenzionali (le esportazioni di Russia e Arabia Saudita coprono il 25% circa dell’export globale di greggio);

– Storicamente, l’Arabia Saudita è considerata lo swing producer globale, nella misura in cui ha la capacità di limitare deliberatamente il proprio output nel tentativo di soddisfare le fluttuazioni della domanda del mercato, mantenendo offerta e domanda globali sostanzialmente in equilibrio. Negli ultimi anni, grazie all’implementazione della tecnica del fracking, alcuni analisti hanno ritenuto che gli Stati Uniti avrebbero sostituito, o perlomeno affiancato, l’Arabia Saudita in questo preciso ruolo. L’impressione è che con la nascita dell’OPEC+ e con la Cina frattanto divenuta il principale importatore di petrolio al mondo, i sauditi già condividono questa responsabilità con la Federazione Russa più che con gli USA.

Ora, tocca alla Cina fare la prossima mossa sullo scacchiere energetico globale.

Il 2 dicembre 2019, è stato lanciato il Power of Siberia, il quale rifornirà la Cina con gas naturale russo. Di conseguenza, nel medio periodo, esiste la concreta possibilità che l’oro blu siberiano possa sostituire parte delle esportazioni di gas naturale liquefatto USA (GNL) in quanto meno costoso rispetto al concorrente americano, ma anche in virtù del rafforzamento della cooperazione strategica tra le due super potenze eurasiatiche. Tuttavia, la decisione della Cina potrebbe potenzialmente influenzare anche l’esito dell’accordo commerciale tutt’ora in corso tra Pechino e Washington, come ha correttamente rilevato Oilprice.com il 2 dicembre 2019 .

Ultimi dati e stime sull’oil & gas

Secondo le statistiche stilate dal Drilling Productivity Report divulgato dall’Energy Information Administration (IEA) il 18 novembre scorso, la produzione di greggio non convenzionale USA è prevista aumentare di 49.000 b/g, per complessivi 9.133.000 b/g, a dicembre 2019. L’output di greggio statunitense, dopo il precedente picco di 9.627.000 b/g raggiunto ad aprile 2015, è decresciuto fino al minimo di 8.428.000 b/g toccato il 1 luglio 2016. Dopodiché, esso ha ripreso ad aumentare fino al record stimato di 12.900.000 b/g toccato il 22 novembre scorso (stime settimanali).

Secondo le statistiche divulgate da Baker Hughes il 6 dicembre, le 799 trivelle attualmente attive negli Stati Uniti, di cui 633 (83,0%) sono petrolifere e 133 (16,6%), più 3 mista (0,4%), risultano essere 18 in meno rispetto a quelle rilevate il 6 novembre, il minimo dal 17 marzo 2017. Le statistiche sopra menzionate mostrano che l’industria statunitense del fracking, che è stata definita dal presidente russo, Vladimir Putin, come “barbarica”, ha raggiunto nuovi massimi nella produzione di petrolio, così come l’ennesimo trimestre di cash flow negativo. “Fino a quando le società di fracking non potranno dimostrare di essere in grado di produrre liquidità così come idrocarburi, gli investitori cauti sarebbero saggi nel considerare il settore come un’impresa speculativa con prospettive deboli e un modello di business non comprovato”, hanno scritto Clark Williams-Derry e Kathy Hipple nel rapporto IEEFA. Al terzo trimestre, 32 società operanti nell’oil & gas hanno presentato istanza di fallimento, secondo Haynes e Boone.

A settembre 2019, le importazioni di greggio da parte degli USA sono crollate di ben 466.000 b/g a 6.478.000 b/d. Quest’ultime erano state 6.944.000 b/d ad agosto 2019, 6.935.000 b/g a luglio, 7.141.000 b/g a giugno, 7.158.000 b/g a maggio, 7.025.000 b/g ad aprile, 6.759.000 b/g a marzo 2019, 6.652.000 b/g 2019 a febbraio 2019 e 7.520.000 b/g gennaio 2019. Nel corso del 2019, la media dell’import di greggio statunitense è stata di 7.017.000 b/g, in diminuzione rispetto ai 6.957.000 b/g nel 2018 e ai 7.969.000 b/g nel 2017. Secondo i dati delle dogane cinesi, il principale importatore di petrolio al mondo ha aumentato le proprie importazioni dell’11,5% rispetto allo stesso mese del 2018, per una media di 10.720.000 b/g.

Il trend petrolifero e valutario

A novembre 2019, nonostante le scorte commerciali USA siano costantemente aumentate da 438.853.000 barili il 25 ottobre a 451.952.000 barili il 22 novembre, il prezzo del barile è aumentato di circa 2,5 $/b in virtù del crescente ottimismo in merito al superamento dell’attuale disputa commerciale tra gli Stati Uniti d’America e la Cina, il cui effetti stanno influenzando negativamente la crescita della domanda petrolifera. In particolare, la qualità Brent North Sea ha aperto le transazioni a 59,67 $/b e ha chiuso a 62,43 $/b, mentre il West Texas Intermediate ha iniziato scambiando a 54,34 $/b, per poi chiudere a 55,65 $/b.