GRAMSCI XXI. Appunti per una discussione tra comunisti

bolscevichi marciapubblichiamo come contributo alla discussione

di Aginform

Ci rendiamo tutti conto che una vera discussione tra comunisti italiani non è mai decollata, in particolare dopo il naufragio dell’esperienza Cossutta-Bertinotti. Sulla scia della tradizione trotskista e di quella emmellista si sono solo erette barricate fra gruppi e fazioni senza che emergesse un confronto vero di contenuti.


Forse i tempi non erano maturi. Cossutta con la sua mozione all’ultimo congresso del PCI aveva raccolto solo il 3% dei consensi e con la decisione di ‘rifondare’ il comunismo aveva imbarcato settori di sinistra che col comunismo avevano ben poco a che fare. La stessa corrente cossuttiana non si era mai misurata veramente all’interno del PCI con un progetto che costituisse una barriera alla devastazione occhettiana e questo spiega perchè poi l’esperienza di Rifondazione si sia andata rapidamente esaurendo.

A ben vedere però, a parte i difetti di origine, il fallimento del progetto di rifondare il comunismo in Italia aveva basi oggettive. Con la crisi del socialismo reale, la controrivoluzione nell’Europa orientale e la fine dell’Unione Sovietica, solo l’improvvisazione di Cossutta e le turlupinature bertinottiane potevano far credere che fosse possibile riprendere il cammino dopo la dissoluzione del PCI.

In realtà così non era. Non lo era per la mancata elaborazione teorica sulla natura della crisi del movimento comunista, per l’incapacità di capire che la dissoluzione del PCI poneva problemi enormi nel rapporto tra comunisti e società italiana, a partire dai ceti popolari, e infine che gli anni ’90 del secolo scorso avevano bisogno di una decantazione che consentisse di intravedere la prospettiva dei cambiamenti epocali e delle loro caratteristiche, da cui far scaturire un progetto di ripresa del movimento comunista anche in Italia.

Non facendo veramente i conti con queste questioni inevitabilmente la crisi si sarebbe acuita e dalla tragedia si sarebbe arrivati anche alla farsa. 

La farsa è stata quella di ricostituire, sic et simpliciter, minuscole organizzazioni identitarie abbarbicate su parole d’ordine che non avevano nessuna dimensione scientifica e nessun legame reale con la società e con i lavoratori in particolare. Qualche ingenuo, se si può parlare di ingenui o più spesso di personaggi che pensavano di poter sfruttare la situazione magari a fini elettorali, ha imboccato questa strada ma i risultati sono stati da zero virgola. Parlare di unità dei comunisti in queste condizioni non porta da nessuna parte, anche se si è agitato il libretto rosso o si è riproposta la bandiera rossa con la falce e il martello. Si vuole prendere finalmente atto di ciò e aprire una discussione su come riprendere un percorso che porti i comunisti a svolgere una funzione reale nella società italiana?

Perchè questo è il punto. Senza trovare il bandolo della matassa ogni operazione identitaria porterà alla stessa, negativa conclusione. Per questo ci permettiamo, ora che i fuochi sono spenti ed è rimasta la cenere, di indicare un percorso che potremmo definire con uno slogan efficace: GRAMSCI XXI, per riproporre una metodologia che nasce dalla storia dei comunisti italiani.

Il richiamo a Gramsci, non vuol essere un approccio intellettualistico che ci porti a definire modelli, come quelli elaborati finora in libri e saggi, che non hanno però di fatto aiutato i comunisti del nostro paese a fare passi avanti. Per noi il motto GRAMSCI XXI assume un altro significato: vuol dire in sostanza  riprendere la tradizione migliore dei comunisti italiani e porla al centro di una riflessione collettiva che ci consenta di avere un retroterra per combattere la confusione e l’idealismo che sono propri del ‘comunismo’ odierno che vediamo coniugato in tutte le salse, dal movimentismo all’anarco-comunismo, dall’identitarismo sterile all’umanitarismo. Invece sono proprio alcuni passaggi storici dei comunisti italiani che ci possono aiutare a sciogliere i nodi che dobbiamo affrontare.

Prima però di andare a definire queste questioni occorre porre dei punti fermi, senza i quali non si possono trarre conclusioni che abbiano una solidità strategica. In altre parole un dibattito tra comunisti deve innanzitutto chiarire le questioni relative alla crisi del movimento comunista e arrivare a giudizi storici e teorici condivisi, frutto di una analisi marxista e materialistica degli ultimi decenni.

In sostanza, per aprire un nuovo percorso, bisogna essere in grado di spiegare i motivi della crisi e le questioni che essa ha posto in termini di conclusioni teoriche e di giudizio storico. Non si può essere comunisti, nel senso che noi indichiamo come collegamento con la storia e l’esperienza del movimento comunista, senza fare i conti col proprio passato e valutare il percorso compiuto.

Le questioni da considerare riguardano il giudizio storico sul periodo 1924-1953, il significato della controrivoluzione kruscioviana e gorbacioviana, le basi oggettive che hanno permesso la caduta del socialismo in URSS e nell’Europa dell’est, la svolta cinese, il peso geopolitico della Cina nello sviluppo dei rapporti di forza con l’imperialismo e infine le questioni teoriche connesse al socialismo con caratteristiche cinesi.

Finora un dibattito a tutto campo su questo non ci risulta che ci sia stato e in quello che rimane del movimento comunista internazionale i rapporti hanno teso a una generica riproposizione di tematiche identitarie che non hanno rimesso in movimento una ricerca interpretativa e teorica all’altezza dei problemi posti dalla crisi del movimento comunista. Lo si vede dal tipo di presenza minoritaria delle organizzazioni comuniste, tranne pochissime eccezioni, nei vari paesi del mondo.

Diceva Marx, senza teoria nessuna rivoluzione. Ma che cosa significa questo per noi oggi? Un ritorno solo ai sacri principi o impegnarci a definire le questioni sul tappeto?

Ovviamente per far questo dobbiamo portare avanti la discussione e l’analisi col famoso ‘pessimismo dell’intelligenza’, superando, è bene dirlo, quella che può sembrare pigrizia teorica, ma che in realtà, in molti casi significa tirarsi fuori dalla responsabilità di prendere posizione su due questioni che hanno caratteristiche dirimenti nella ridefinizione delle basi teoriche dei comunisti: il peso delle condizioni oggettive che hanno reso possibile il processo controrivoluzionario in URSS e negli altri paesi socialisti europei e il significato del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’, la cui valenza non può essere certamente confinata nell’ambito della Cina, ma pone problemi rispetto alla prospettiva di trasformazione socialista a ciascun movimento rivoluzionario in ogni parte del mondo. La svolta denghista dopo la rivoluzione culturale non va infatti verificata solo sulla base dei risultati ottenuti in Cina, ma pone al movimento comunista problemi nuovi sui percorsi che portano alla realizzazione di una società socialista. Senza cambiare la natura rivoluzionaria delle trasformazioni da compiere e senza cadere in illusioni neoriformiste. Non è un caso che la svolta cinese sia stata accompagnata da una gestione ‘dittatoriale’ degli strumenti del potere e della difesa della Cina dagli attacchi imperialisti. Tienanmen docet.

Certamente dobbiamo considerare la nuova situazione con le lenti del materialismo, evitando il ripetersi di posizioni agiografiche e capendo invece gli elementi oggettivi che operano nel nuovo contesto e quali contraddizioni producono.

Se nei decenni passati i comunisti italiani, invece di impelagarsi in improbabili rifondazioni o in avventure identitarie, avessero provveduto a creare solidi strumenti di analisi e di orientamento teorico certamente non ci troveremmo nella miseria attuale. Comunque non è mai troppo tardi ed è necessario farlo oggi, se vogliamo uscire dalla nebbia che ci circonda.

Da questa premessa occorre partire per affrontare un’altra questione su cui fondare un’ipotesi di ripresa dei comunisti in Italia. Si tratta, in questo caso, di definire il contesto internazionale che caratterizza la fase storica attuale e da cui dobbiamo saper ricavare elementi interpretativi di carattere generale. Non si tratta solo di analisi geopolitiche e di definizione di rapporti di forza internazionali tra le forze in campo. Certamente questo è preliminare, ma si tratta poi anche di ricavarne una valutazione di fondo su come si va configurando il processo di avanzata del socialismo nel mondo. Un quadro di questo tipo rende possibile ai comunisti di agire in un contesto di analisi materialistica dei processi mondiali che, per i comunisti, partono dal Manifesto di Marx ed Engels e dalla prima internazionale e con alterne vicende portano alla situazione attuale. In sostanza che cosa è cambiato nel mondo dopo il crollo dell’URSS e su quale nuovo percorso è individuabile l’avanzata delle forze che tendono al socialismo?

Primo puntogli attuali rapporti di forza internazionali. E’ chiaro che per noi comunisti il contesto internazionale e la questione imperialista stanno al centro di una strategia in cui si inserisce, in tempi e modi non automatici, la ‘questione nazionale’.

Le dichiarazioni ‘europeiste’ e ‘atlantiste’ del governo italiano non lasciano dubbi su questo. L’Italia con la sua politica estera viaggia a braccetto con tutto il blocco occidentale, anche nell’aspetto propagandistico delle campagne mediatiche sui ‘diritti umani’ che partono dagli Stati Uniti. L’evoluzione dei rapporti di forza internazionali diventa perciò determinante nelle prospettiva della situazione italiana.

Dopo la vicenda Trump, l’arrivo di Biden sembra un rilancio dell’egemonia degli Stati Uniti nel mondo. A ben vedere però il cane abbaia ma non riesce a mordere. E’ costretto a fare la voce grossa, sapendo però ormai che i rapporti di forza sono cambiati anche se pericolose escalation sono sempre possibili. La Cina regge il confronto e la Russia è un avversario molto temibile sul piano militare e ora lo si sta constatando nel Donbass dove il governo Ucraino rischia di fare la fine di quello della Georgia nel 2008. Ormai il tentativo degli USA di mantenere un’assoluta egemonia mondiale è definitivamente tramontato e l’occidente capitalistico è costretto a prenderne atto anche se tenta disperatamente di mantenere i suoi spazi geopolitici e di mettere in crisi l’avversario. E’ questa una buona novità, ma non esime le organizzazioni comuniste dall’uscire dall’ideologismo antimperialista e affrontare in ogni singolo paese il problema di modificare gli orientamenti filo-occidentali dei propri governi.

Secondo puntol’importanza della Cina nel rafforzamento del movimento per il socialismo nel mondo. Il fatto che il socialismo con caratteristiche cinesi sia riuscito a diventare di fatto la potenza mondiale che compete con gli Stati Uniti per il primato rende oggettivamente possibile, dopo la fase di ritirata degli anni ’90 del secolo scorso, una nuova avanzata del modello socialista di società. Ciò avviene però con caratteristiche molto diverse dal percorso compiuto dal movimento comunista dopo la rivoluzione d’Ottobre. La Cina oggi non è la Russia del 1919 che fondando l’Internazionale comunista lancia l’appello al rovesciamento dei regimi capitalistici. Essa definisce la sua marcia in avanti in rapporto ai risultati raggiunti nella costruzione di una società avanzata nel suo immenso paese e nella capacità di organizzare il suo sviluppo in un sistema di relazioni internazionali pacifiche. Non è dunque l’ideologia che prevale, ma una pratica che comunque corrode il vecchio sistema su cui l’imperialismo ha storicamente impostato i sui rapporti coi paesi controllati. Da qui nasce anche la possibilità per questi paesi di contare su una collaborazione cinese sul terreno economico, scientifico e militare.

Terzo puntoil carattere delle rivoluzioni nel XXI secolo. Quando si dice che nel valutare il peso che la Cina ha oggi nel mondo, non bisogna ricadere in un nuovo tipo di agiografia, il dibattito tra comunisti si sposta necessariamente sull’area imperialista per capire il livello delle contraddizioni e i compiti storici che spettano a coloro che vogliono la trasformazione dei rapporti sociali laddove domina lo sfruttamento e il profitto. Ricordandoci sempre che il comunismo non è un’ideologia, ma ‘il movimento reale che cambia lo stato di cose presenti’.

Ebbene come stanno le cose da questo punto di vista? Dire che l’imperialismo a guida USA sta perdendo l’egemonia nel mondo non vuol dire che non esiste una grande area dove ancora si esercita il suo dominio in collegamento con le classi dominanti capitalistiche o compradore e dove, in vari modi, si sviluppa una conflittualità accesa. Interi continenti, come l’America Latina e l’Africa sono in movimento; c’è un Medio Oriente dove l’imperialismo americano con i suoi alleati israeliani e sauditi cerca disperatamente, anche se con non molto successo, di bloccare i processi di indipendenza. C’è un’Asia dove il continente indiano rappresenta una grande incognita sul futuro dei rapporti di forza internazionali. Come si muovono i comunisti in queste realtà? Che cosa impedisce loro di svolgere un ruolo all’altezza delle contraddizioni?

Anche qui non è l’ideologia che può decidere, occorre una ricostruzione politica e teorica per capire il rapporto tra comunisti e realtà e per dare ai comunisti un ruolo non di pura testimonianza, ma di presenza attiva nei processi reali ai quali assistiamo.

Gli stessi problemi di interpretazione dei processi reali e dei livelli di conflittualità sociali e politici si pongono per l’Europa e, per quanto ci riguarda, per l’Italia.

Il movimento comunista europeo, uno dei più forti del mondo, ha subito una sconfitta epocale, dalla Spagna, alla Francia, all’Italia. I partiti spagnolo e francese hanno subito una trasformazione genetica simile a quella italiana, anche se con esiti finali diversi. In sostanza si è trattato di una perdita di egemonia sui settori sociali di riferimento e di una deriva trasformista. In Europa sono rimasti in piedi di fatto solo due partiti comunisti, in Portogallo e in Grecia. Il primo ha mantenuto una certa influenza di massa perchè ha saputo coniugare identità e capacità di tenuta sociale; il secondo invece, per la persistenza di una posizione schematica, è rimasto in una posizione fortemente minoritaria nella società greca che pure ha attraversato la crisi che conosciamo.

Tuttavia lo sconquasso nelle file dei comunisti non può essere definito solo sulla base dell’opportunismo dei gruppi dirigenti, ma è stato determinato anche da un cambiamento oggettivo della situazione e delle condizioni storiche in cui i comunisti hanno operato. Nella discussione tra comunisti bisognerebbe affrontare anche questi problemi per trovare la giusta chiave interpretativa delle degenerazioni e della possibile ripresa.

Anche per i comunisti italiani si pone il problema di una capacità di analisi dei passaggi storici che li hanno visti estinguersi come partito.

Una prima domanda a questo proposito: era possibile evitare la disfatta? Teoricamente sì, perchè due elementi concorrevano a creare una possibile alternativa alla Bolognina, alla liquidazione occhettiana del PCI. Il partito aveva un’influenza di massa tra i lavoratori che in gran parte rimanevano legati all’esperienza comunista e c’era una situazione di classe ancora in movimento, con una partecipazione sociale abbastanza larga alle lotte. Per raccogliere l’eredità del PCI mancava però un gruppo dirigente sperimentato capace di aprire una fase nuova della lotta di classe e per il socialismo in Italia. I fatti hanno dimostrato che questa condizione mancava.

Questo limite storico ha aggravato ancora di più il senso di sfiducia a livello di massa e non solo gli orfani del comunismo si sono dispersi ma, soprattutto, i ceti di riferimento del PCI sono stati coinvolti da una nebbia mediatica che li ha portati spesso al rifiuto della politica o a seguire il richiamo dei ciarlatani di turno, finendo per subire, in condizioni di assoluta debolezza, il ricatto padronale e il raggiro dei sindacati di regime.

I comunisti che sono rimasti sulla breccia si sono posti e si pongono da tempo una domanda: come risalire la china? Qualcuno ha pensato, in buona o cattiva fede, di prendere la palla e andare in porta definendosi partito dei comunisti, senza giocare la partita. La realtà ha dimostrato però che con gli slogan non si va da nessuna parte. Noi non abbiamo la verità in tasca, ma riteniamo che senza due cose essenziali non ci può essere ripresa: la riappropriazione di un metodo scientifico e materialistico nell’analisi la definizione di un progetto di riorganizzazione delle ‘forze motrici della rivoluzione’, non in astratto, ma nel concreto della situazione italiana. Quelle che definiamo derive identitarie lasciano invece il tempo che trovano. 

Cambiare metodo diventa quindi una necessità da cui non si può prescindere.

La prima questione che poniamo dunque al centro della ripresa è la costituzione di strumenti che abbiano la forza di aprire una ricerca che dia impulso teorico e capacità di interpretazione storica ai compagni. Non si tratta con questo di cadere nell’intellettualismo di chi crea nicchie, anche se rispettabili e utili, senza però incidere sullo sviluppo politico e teorico dei militanti. Si tratta invece di produrre un’aggregazione di comunisti attraverso un lavoro collettivo per arrivare, coi tempi necessari, a una sintesi frutto di un confronto e di una verifica scientifica delle ipotesi in discussione. Avremo la pazienza e l’umiltà di intraprendere questo percorso? Quali strumenti ci vogliamo dare per arrivare a questo risultato?

La seconda questione che vediamo come essenziale nella discussione tra comunisti è su come sia possibile rimettere in movimento la riaggregazione delle ‘forze motrici della rivoluzione’, intendendo con questo il movimento reale che cambia lo stato di cose presente. La possibilità che si riapra per i comunisti italiani una prospettiva di ripresa senza sciogliere questo nodo è pura illusione.

Nei decenni che hanno seguito la liquidazione del PCI, quelli che usiamo definire ‘movimenti’ non hanno avuto come avanguardia i comunisti, quelli che, per intenderci, si richiamano alla storia del movimento comunista. Questo ha impedito un consolidamento delle forze e una sostanziale proiezione strategica in grado di modificare stabilmente i rapporti di forza. L’egemonia è stata appannaggio, e lo è tuttora, di tendenze che con il pensiero comunista hanno ben poco a che fare.

Ci vuole dunque un salto di qualità nella definizione del programma e nella proiezione strategica.

Ci sono due precedenti storici dei comunisti italiani che ci suggeriscono il metodo da seguire in circostanze come le attuali: l’esempio di Gramsci nel 1924, all’epoca dell’Aventino, e le posizioni di Togliatti a Salerno nel 1944.

Come è noto la capacità del partito comunista, sotto la direzione di Gramsci, di agganciare la situazione politica dopo il delitto Matteotti, fu il punto di ripresa che consentì di uscire dall’angolo in cui il bordighismo aveva relegato il partito e di raddoppiare in poco tempo anche il numero degli iscritti. Anche a Salerno il discorso di Togliatti ai quadri del partito fu esplicito: non possiamo ridurci a essere una setta che si limita a fare propaganda, ma dobbiamo indicare alle masse popolari una prospettiva concreta. E le indicazioni che ne scaturirono portarono il PCI dai 6000 iscritti nel settembre 1943 a 2 milioni nel 1945.

La storia ovviamente non si ripete mai allo stesso modo, ma da queste esperienze ci viene una indicazione su come, anche oggi, i comunisti dovrebbero agire in Italia. Definire cioè in concreto il ruolo storico da esercitare e trovare la forza di portare avanti un progetto che passi attraverso le esigenze oggettive che la situazione pone,non con le sole parole, ma con i fatti.

Il nostro parere è che i comunisti dovrebbero essere capaci oggi di affrontare il nodo centrale che ha assunto in Italia lo scontro politico e sociale tra indirizzo liberista, riprodotto brutalmente col ‘golpe’ Draghi, ed esigenze sociali diffuse che lo contrastano quotidianamente. E’ un compito molto difficile perchè la fine del partito comunista ha significato non solo la fine dell’organizzazione, ma anche l’interruzione di un ciclo storico della società italiana in cui le forze dello sfruttamento e della conservazione avevano dovuto fare i conti con un paese che aveva fatto la Resistenza, dato vita alla Repubblica, creato la Costituente, scritto la Costituzione e resistito validamente agli attacchi della restaurazione capitalistica e atlantista.

Sulle possibilità di ripresa pesa la debolezza della situazione attuale, dovuta alle sconfitte del movimento comunista in Europa, alla liquidazione dell’organizzazione di massa dei lavoratori e dei ceti progressisti, alla pesante destrutturazione della base operaia, al ruolo dei sindacati di regime confederali. E tuttavia, anche se il PCI si è dissolto, l’esperienza storica dei comunisti italiani non è svanita, ma permea ancora la parte più avanzata, democratica e popolare del nostro paese, anche se non ha trovato in questi anni un punto di sintesi politico valido.

Le esperienze storiche, quelle vere e positive, lasciano sempre tracce profonde da cui la vecchia talpa tende a riemergere. Una nuova organizzazione dei comunisti deve saper raccogliere questa eredità e farne il passaggio storico della propria ricostruzione. La sfida principale è al modello di società liberista a cui il nuovo governo di unità nazionale sta imprimendo una nuova accelerazione, ma contemporaneamente si tratta anche di riproporre per le forze popolari e progressiste un’egemonia culturale e di indirizzo strategico che è a rischio di perdersi definitivamente, cosa che trasformerebbe l’Italia, che è stata in Europa il punto più alto della guerra antifascista e del movimento democratico e operaio, in un deserto dove regnerebbero definitivamente il qualunquismo e il trasformismo o, peggio ancora, la retorica resistenziale delle istituzioni liberiste.

In questa fase storica, a meno che non intervengano modifiche radicali, deve essere chiaro anche che non si può porre la questione dell’alternativa tra riforme o rivoluzione, ma bisogna individuare concretamente e storicamente il terreno su cui si deve sviluppare il ruolo dei comunisti che è ancora quello con cui dal dopoguerra hanno sfidato con successo le forze reazionarie e che hanno in modo determinante definito come quello della applicazione dei principi costituzionali. La scelta di un altro terreno di scontro ci porterebbe, come avviene attualmente, all’anarco-movimentismo inconcludente o all’ideologismo identitario che ha prodotto tra i comunisti solo divisioni e impotenza e ci ha portati fuori strada.

Liberismo o Costituzione, su questa alternativa dobbiamo saper conquistare la fiducia della parte più avanzata, popolare e progressista della società italiana e saper stabilire una continuità con la storia dei comunisti e con le esperienze più avanzate fatte dai lavoratori e dal popolo italiano dopo la caduta del fascismo.

Raccogliere la bandiera della Costituzione, è questo il ruolo dei comunisti italiani oggi?

Per valutare la correttezza di questa scelta bisogna tener presenti le due questioni che ne rappresentano la chiave interpretativa: 1) la situazione internazionale e 2) il ruolo che una formazione comunista deve svolgere in un paese occidentale come l’Italia. Da questo si può stabilire se effettivamente la Costituzione è la trincea più avanzata da cui ripartire o se ci sono alternative diverse che però andrebbero discusse seriamente con chi le avanza, e verificate nella realtà, cosa che finora non è avvenuta. 

Per essere più espliciti bisogna rendersi conto che i cattivi profeti di questi decenni ci hanno proposto derive ideologiche e percorsi pratici che non hanno portato a nessuna seria conclusione se non quella di moltiplicare gruppi senza una vera base di consenso. La dialettica politica a sinistra ha solo creato da una parte una sinistra che ondeggia continuamente tra esigenze di cambiamento e subalternità al PD e alle forze moderate e dall’altra un radicalismo minoritario e in definitiva, aldilà delle forme in cui si esprime, subalterno anch’esso al sistema.

La proposta che dobbiamo elaborare deve riuscire a rompere questo circuito perverso e portare il movimento per la trasformazione sui binari di un’analisi corretta della fase e degli obiettivi da raggiungere. Dicendo questo non vogliamo anticipare le conclusioni di un dibattito, ma sottolineare l’esigenza di fondo di uscire dai vecchi schemi e riprendere il mare aperto della discussione.

Per essere più precisi riteniamo, per concludere, che la ricostruzione di un movimento politico organizzato dei comunisti deve basarsi sui principi costituzionalmente garantiti che possono disegnare oggi un nuovo modello di società per l’Italia e che riguardano sostanzialmente tre questioni decisive: una nuova politica estera di pace, il controllo pubblico dello sviluppo economico e il rispetto dei diritti dei cittadini e dei lavoratori costituzionalmente riconosciuti.

Su questa prospettiva i comunisti devono unirsi e lavorare assieme dentro un processo più ampio che coinvolga la parte più popolare e progressista della società italiana e la organizzi in un nuovo movimento politico di massa.