L’India del neo-liberismo globale e delle lotte contadine. Ruolo dei Partiti Comunisti.

india sciopero generalericeviamo e pubblichiamo

di Maria Morigi

Noi conosciamo l’India dello sfruttamento e dell’oppressione coloniale anche grazie agli articoli destinati al pubblico statunitense di Karl Marx esule a Londra, in cui sono descritti l’annientamento dell’industria indigena, lo sradicamento del telaio a mano, l’imposizione di relazioni sociali funzionali all’uso capitalistico delle risorse naturali e umane: si trattava del ‘modo di produzione asiatico’ che ritroveremo nel primo libro del Capitale e negli scritti etno-antropologici, dove Marx illustra i cosiddetti “comunismi originari”, cioè le forme che precedono le economie capitaliste (Rif: Karl Marx  “La dominazione britannica in India (o l’Inghilterra rivoluzionaria malgrado sé stessa)” – Pubblicato in New York Daily Tribune, n° 3804, 25 giugno 1853). Marx da Londra poté documentare minuziosamente le repressioni di rivolte (ad esempio gli ammutinati Sepoy, hindu mercenari ingaggiati dalla Compagnia delle Indie), impiccagioni di massa di civili ribelli e di intere comunità insorte, incendi di villaggi e atti di barbarie nei confronti dei sovversivi. Una repressione resa possibile anche dalla collaborazione dell’ élite indiana cui erano concessi ampi privilegi economici e sociali. Prezzo altissimo pagato dall’India per mantenere una burocrazia e un sistema di controllo imposti dall’accanimento imperiale britannico.

Insurrezioni popolari,  “India Shining” e globalismo

Oggi siamo coscienti che non è facile catalogare le masse popolari indiane in un quadro coerente, poiché l’India è Paese in cui le profonde cesure sociali ed etniche tra Induismo e Islam, tra ricchezza e povertà, tra sottosviluppo e prestigiosi traguardi del softpower, non riescono affatto a comporsi. Il  “radicalismo” taglia trasversalmente la società nelle sue varie componenti e milioni di diseredati sono accomunati solamente dall’appartenenza religiosa. 

Un secolo e mezzo dopo gli scritti di Marx, alla fine del 2019 vediamo un’ India sconvolta da Nord a Sud dalla protesta contro la legge sulla cittadinanza. Giudicata dagli oppositori antimusulmana, settaria e discriminatoria, la legge è stata proposta dal premier Narendra Modi leader del partito nazionalista indù Bharatiya Janata (BJP) e assiduo imitatore del modello Trump. Nelle intenzioni del premier la legge ha l’obiettivo di rendere più facile ottenere la cittadinanza per i profughi di tre paesi vicini (Afghanistan, Pakistan e Bangladesh), ma NON se musulmani[1]. 

Di nuovo, a gennaio 2020, circa 200 milioni di indiani manifestano contro le politiche governative neo-liberiste. Il malcontento popolare è scatenato da incremento dei prezzi, tasso di disoccupazione record, massiccia estorsione di ricchezza pubblica da parte di pochi miliardari.

Sul piano internazionale il 27 ottobre 2020 a Nuova Delhi viene firmato dai Ministri della Difesa e degli Affari Esteri  indiani e dal Segretario di Stato USA, Mike Pompeo, un nuovo Patto di Difesa. L’accordo BECA (Basic Exchange and Cooperagion Agreement) consente alle due potenze di condividere le intelligence da satellite per sorvegliare gli avversari (vale a dire la Cina) e di soppiantare le forniture russe. Anche questa è una forma di controllo globale!. Il Partito Comunista dell’ India (Marxista) denuncia l’accordo come un mezzo di Washington per usare l’India come pedina nel confronto con la Repubblica Popolare Cinese, e insiste sul fatto che Nuova Delhi dovrebbe avere una politica estera in sintonia con le sue tradizioni neutraliste, basata su buone relazioni con i paesi vicini (Pakistan, Cina e Iran). I comunisti sottolineano inoltre che la sinergia tra comunicazioni e sistemi elettronici influenzerà negativamente l’indipendenza della Difesa indiana rendendo l’India subalterna al controllo USA. 

Proprio in questi giorni una vera insurrezione popolare sta creando il più grande sciopero generale (bharat bandh) della storia dell’umanità (250milioni di persone), organizzato dai sindacati contadini e dai partiti socialisti e comunisti. Le proteste iniziate qualche mese fa sono culminate nella marcia su Delhi dello scorso 26 novembre. Una riforma agricola che colpisce i piccoli contadini (40% della forza lavoro in India) andando a “completare” le leggi approvate a fine settembre sulla liberalizzazione del commercio agricolo in favore di grandi aziende e multinazionali. Di nuovo le masse popolari si oppongono al governo di Narendra Modi, anche se i fronti della resistenza e del dissenso sono molteplici. Qualche gruppo infatti pratica un’ opposizione più morbida suggerita dal dibattito interno su vantaggi e convenienze corporative, cosicché il fronte anti-Modi non è unico, ma variegato in differenti interessi e posizioni.

Oltre a ciò bisogna considerare che ormai pochi indiani credono all’ottimismo della prima campagna “India Shining” inneggiante alla nuova globalizzazione, lanciata dalla National Democratic Alliance (NDA) composta da partiti di centrodestra e di destra, guidata dal Bharatiya Janata Party (BJP). La coalizione ha governato dal 1998 al 2004 ed è tornata al potere alle elezioni del 2014 con Narendra Modi. Nelle elezioni del 2019, l’alleanza ha ulteriormente aumentato i seggi arrivando al 45,43%. Ma, nella più grande democrazia al mondo, una cosa è il voto che premia la luccicante facciata degli interessi economici globali di poche aziende rampanti, ben altra cosa è la reale condizione del Paese in termini di occupazione, risorse, servizi e stato sociale. L’India Shining per di più rappresenta la tendenza ad interpretare il globalismo attraverso un esagerato potenziamento dell’identità nazionale hindu, con l’ esclusione/riduzione delle altre identità, specie quella musulmana.

I Partiti Comunisti indiani

Praticamente la democrazia indiana, la più grande al mondo, conferma il processo in atto che vede trionfare il nuovo capitalismo liberista di mercato. In questo quadro le necessità di sicurezza sono prioritarie per il governo, poiché senza sicurezza non può continuare all’infinito la corsa del PIL.  Modi è un imprenditore, conosce solo la logica del profitto e dell’efficienza, sa promettere misure sociali e sviluppo, tuttavia non accontenterà mai la grande India religiosa dei villaggi, né quella dei milioni di emarginati e neppure l’India degli intellettuali e del Communist Party of India (CPI) che nella sua storia di formazione tra marxismo-leninismo-maoismo, la scissione del 1964 e le successive divisioni locali, non è mai riuscito, purtroppo, ad essere una voce alternativa a quella del Congresso.

I vari partiti di sinistra indiani riescono a vincere le elezioni localmente, come in Kerala, Bengala e Tripura, ma hanno anche preso posizioni spesso in contrasto con gli interessi di lavoratori e gente comune. Ricordiamo i casi di Nandigram e di Singur, dove dal 2006 il governo voleva costruire giganteschi impianti industriali (Tata per la produzione di auto low cost nell’area di Singur), e i contadini si incatenavano alle recinzioni per impedire gli espropri forzosi dei campi. Le proteste e le reazioni governative alle proteste rappresentarono una nuova “dialettica sociale”, con la polizia e i militanti del Partito Comunista (al governo nel Bengala) da una parte, e una informe resistenza di contadini e disperati dall’altra. Si è vista persino la creazione di speciali milizie in motocicletta – direttamente organizzate dal Partito Comunista Marxista – per prevenire le manifestazioni. Si sono viste violenze e omicidi degli oppositori all’insediamento industriale e qualche giovane donna leader della protesta, stuprata e fatta a pezzi. Le immagini di militari che sparavano sulla folla hanno fatto il giro del mondo e sollevato un movimento di massa a livello nazionale e internazionale che ha rafforzato le lotte locali e segnato la vittoria, almeno per quel momento (2008). 

La guerriglia maoista dei cosiddetti Naxaliti ha cercato di inserirsi nel contrasto tra “anime comuniste”  focalizzando le azioni di lotta contro le Zone Economiche Speciali, quelle aree in cui dal 2005 lo Stato indiano concede vantaggi fiscali per favorire la costruzione di nuovi impianti industriali. I Naxaliti nel congresso clandestino del 2004 sono riusciti nell’unificazione dei vari tronconi ribelli in un movimento sotto la guida di Muppala Lakshman Rao detto Ganapathi (o Ganesha, dio dalla testa di elefante venerato come colui che rimuove gli ostacoli, patrono delle arti, delle scienze e della saggezza) il Fidel Castro indiano, ora Segretario del Partito Comunista d’India (Maoista).

Gli episodi ricordati sopra di Nandigram e di Singur hanno accentuato il divario tra metropoli e villaggi, tra terziario avanzato e risaie, tra nuovi benestanti ed eterni proletari. 

Significativo il caso di Buddhadeb Bhattacharjee attualmente primo ministro del Bengala Occidentale, che fa parte del Comitato Centrale del Partito Comunista d’India o CPM (Marxista). Bhattacharjee, considerato l’artefice del boom economico bengalese, vince regolarmente le elezioni locali, tanto che viene chiamato “il Buddha rosso”: un abbaglio anche questo perché il comunista “Buddha rosso” è su posizioni di totale liberismo, apprezzato dai maggiori capitalisti indiani – Birla e Tata – di cui condivide ogni iniziativa industriale, anche a discapito degli interessi dei contadini le cui terre vengono espropriate o acquistate a prezzi bassissimi per lasciare spazio alle nuove fabbriche (anche in India la chiamano “innovazione”!). La crescita della ricchezza nel Paese ha radicalizzato i contrasti, tanto che a Calcutta la scissione del vecchio partito comunista ha portato a due schieramenti distinti: quello dei “miglioristi” di Bhattacharjee e quello dei rivoluzionari eredi di Charu Mazumdar, ideologo del movimento Naxalita  secondo cui la rivoluzione deve prevedere la lotta armata sul modello della rivoluzione cinese. 

Due  fronti totalmente opposti: da un lato il partito “marxista” al governo, che teorizza economia di mercato e investimenti stranieri come strumenti per liberare le masse dalla loro secolare povertà; dall’altro i fuoriusciti che ora declinano una versione ideologica rurale, accusando il “Buddha rosso” di avere tradito l’ideale marxista. I nipoti del comunismo indiano rappresentano ormai due blocchi sociali tra i quali la globalizzazione ha scavato un abisso profondo: la classe operaia legata al mito dello sviluppo (anche al prezzo di allearsi con il grande capitale) si contrappone ai ceti agricoli rimasti esclusi dal benessere e convinti che non ricaveranno beneficio dalla globalizzazione, anzi subiranno nuovi torti, nuove tasse e requisizioni di terre.

La terza via

Tuttavia chi in  India sogna ancora la rivoluzione deve oggi fare i conti con un partito non marxista come il Trinamol Congress, guidato dalla “pasionaria” Mamata Banerjee, leader dei contadini in lotta contro i mega-progetti industriali. Nel 1997 la Banerjee è uscita dal Partito del Congresso fondando la propria formazione che in breve è diventato il principale partito di opposizione in Bengala Occidentale, contrastando la politica di Buddhadeb Bhattacharjee e del Partito Comunista d’India (Marxista). Nel 2007, all’epoca dei fatti sopra ricordati di Nandigram e di Singur, Mamata Banerjee ha iniziato una durissima campagna a favore dei contadini costretti a lasciare le loro terre per la costruzione dei nuovi impianti.

Nelle elezioni del 2011 il Trinamool Congress ha conquistato la maggioranza dei seggi al Parlamento di Calcutta a discapito della storica Alleanza di sinistra. Mamata Banerjee, prima donna ad essere Primo Ministro del Bengala Occidentale nel 2011, prese come prima decisione di restituire la proprietà di 400 acri di terra ai coltivatori del Singur espropriati dal precedente governo. 

Nel marzo 2016, è stata rieletta per un secondo mandato come Primo Ministro del Bengala Occidentale. Così nella grande corsa al globalismo questa India tradizionalmente comunista sta vivendo il paradosso di un’esponente politica non marxista amata dai diseredati perché difende il proletariato di campagna e gli emarginati contro gli interessi che accomunano grandi imprenditori e “aristocrazia operaia”.

Note: 

1.  Dati del censimento 2011 sulle comunità religiose pubblicati dal Registrar General of India. Durante il periodo  2001 – 2011, i fedeli islamici sono saliti al 14,23%., passando da 138 milioni a 172,2 milioni. La comunità indù invece si ferma allo 0,7% di crescita, con 966,3 milioni di seguaci. Nei cinque Stati a maggiore rappresentanza musulmana (Maharashtra, Gujarat, Rajasthan, Madhya Pradesh e Uttar Pradesh) la crescita media dei fedeli islamici è al di sopra di quelli indù