Vladimiro Giacché recensisce “Il ruggito del dragone” su Radio Popolare

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Roberto Sidoli, Massimo Leoni, Il ruggito del dragone. Cina: la lunga marcia verso la prosperità, con prefazione di Domenico Losurdo e interventi di Bruno Casati, Aldo Giannuli, Sergio Ricaldone, Milano, Editrice Aurora, 2011, pp. 222, euro 10.

 

“Contributo per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione francese”: così il filosofo tedesco Fichte intitolò una delle sue prime opere. Il libro di cui parliamo oggi potrebbe ben intitolarsi “contributo per la rettifica dei giudizi del pubblico sulla situazione cinese”. Non si tratta però di un pamphlet polemico, né di uno scritto di acritica apologia. Al contrario: Il ruggito del dragone, pubblicato dalla Editrice Aurora di Milano, è un testo molto ben documentato e sorretto da pacate e robuste argomentazioni. Per questo motivo rappresenta il miglior antidoto agli articoli, spesso ottusamente denigratori, quasi sempre assai imprecisi, che sui nostri quotidiani trattano della situazione e dei problemi della Cina. Il rumore di questo vero e proprio martellamento propagandistico è così forte che rende molti dati resi disponibili dal volume di Sidoli e Leoni – provenienti quasi sempre da fonte occidentale, di regola indipendente, spesso ostile alla Cina – assolutamente inattesi: delle vere e proprie scoperte. Da questo libro apprendiamo ad esempio che in uno Stato che ci viene presentato come l’emblema del turbocapitalismo, i manager guadagnano al massimo 18 volte quanto un operaio (e non 1000 come Marchionne) e lo Stato controlla i tre quarti della ricchezza ei settori strategici dell’economia nazionale. Che delle 100 più grandi imprese quotate ben 99 sono a controllo o a maggioranza pubblica: tra esse la Lenovo, che anni fa ha comprato la divisione personal computer dall’IBM; o la Haier, che dal 2009 è il principale produttore mondiale di elettrodomestici bianchi, superando anche la Whirlpool. Che inoltre il settore cooperativo impiega il 20% della manodopera complessiva. Proprio al rilievo delle imprese pubbliche e cooperative nell’insieme dell’economia cinese gli autori riconducono l’assenza di crisi da sovrapproduzione negli ultimi tre decenni, tassi di crescita spettacolari (9-10% annuo) e la resilienza alla crisi che ha massacrato l’Asia nel 1997-8 e, 10 anni dopo, a quella che ha massacrato i Paesi occidentali. Di fatto, sino ad oggi la sviluppo di un forte settore privato dell’economia non ha impedito che le scelte strategiche di investimento e il controllo delle direzioni dello sviluppo restassero saldamente in mano pubblica.

 

Apprendiamo che in termini reali (cioè depurati dall’inflazione) negli ultimi 30 anni i redditi sono aumentati di 7 volte nelle città e di 5 volte nelle campagne. E che dalla metà del 2010 all’inizio del 2011, in meno di un anno, il salario minimo a Pechino è cresciuto di oltre il 40%. Ma soprattutto che il numero delle persone che si trovano in stato di povertà, su 1,4 miliardi di abitanti, è passato da 250 milioni del 1978 ai 15 milioni di 30 anni dopo.

 

Non stupisce quindi che i livelli di soddisfazione, di ottimismo personale e fiducia nel futuro in Cina secondo una ricerca statunitense si collochino al primo posto nel mondo. Un quadro ben diverso dal panorama di miseria, bestiale sfruttamento e oppressione totalitaria che secondo i cliché diffusi a piene mani dalla nostra stampa connotano la Cina contemporanea.

 

Cliché che fanno il paio col mito secondo cui i cinesi sarebbero competitivi soltanto in produzioni relativamente povere (tessile). Peccato che l’anno scorso il nostro deficit commerciale nei confronti della Cina sia stato causato dalle importazioni di pannelli fotovoltaici.

 

Vladimiro Giacché

 

[Recensione andata in onda su Radio Popolare, il 3 e 7 settembre]