La Cina popolare. Origini e percorsi del socialismo con caratteristiche cinesi. Diego Angelo Bertozzi

Bertozzi di Marco Pondrelli

Il libro di Bertozzi è un contributo importante che, giustamente, Vladimiro Giacché nella prefazione definisce ‘pregevole’ e ‘indispensabile’ [pag. 4], nonostante la pubblicistica sulla Cina sia migliorata rispetto a qualche anno fa, pur continuando ad essere pubblicati testi di scarso valore scientifico o palesemente e aprioristicamente anticinesi.

Questo testo ha il merito di riassumere in una forma molto chiara e discorsiva oltre 100 anni di storia cinese, partendo dall’intervento occidentale (in primis britannico). Non si può capire la Cina contemporanea senza prendere coscienza delle terribili umiliazioni e dei terribili massacri che questo paese ha subìto. Quella che negli anni ’30 dell’Ottocento era una potenza di rango mondiale, circa 100 anni dopo era divenuta “un’economia in rovina, se si pensa che nel momento del suo apice (1936-37) l’intera capacità produttiva industriale del Paese era meno di un ottavo di quella della Russia del 1917 e circa un cinquantesimo di quella delle nazioni più avanzate” [pag. 93].

Lo lotta dei comunisti è innanzitutto una lotta di liberazione nazionale, ecco perché quando Mao Zedong individuò nel Giappone il nemico principale aprì alla collaborazione con il Kuomintang. Questa scelta non fu il tradimento della Lunga Marcia ma la sua naturale evoluzione rispetto ad un quadro in evoluzione, potremmo dire analisi concreta rispetto alla situazione concreta. Come osserva giustamente l’Autore, la Lunga Marcia in ogni caso è stata determinante per il PCC e per la nascita di una classe dirigente per la Cina [pag. 73].

Come Bertozzi spiega molto bene, dopo la Rivoluzione diviene prioritario consolidare questa vittoria. La Cina del post ’49 era sotto attacco, non è casuale che negli anni ’50 viene ‘scoperto’ il Tibet, che per il Dipartimento di Stato USA può “essere considerato come un bastione contro l’espansione del comunismo in Asia” [pag. 108]. Come ben documentato da Domenico Losurdo, il Tibet hollywoodiano è un’invenzione che vuole vendere un’immagine di quel paese, prima del ’49, come luogo di armonia e serenità. In realtà le cose stavano in modo ben diverso, in Tibet vigeva la servitù della gleba, la schiavitù, le punizioni corporali; più che di armonia e serenità si può parlare di violenza e sopraffazione. I problemi per Pechino dopo la Rivoluzione non si fermavano qui, non si può scordare o tacere il blocco economico a cui Pechino era sottoposta, il giudizio storico su Mao Zedong deve tenere presente tutto questo ed è proprio per questi motivi che l’Autore si sottrae all’odierna vulgata che equipara Mao a Hitler. Come giustamente scrive Bertozzi, non si possono mettere sullo stesso piano i morti conseguenti a scelte politiche sbagliate (il grande balzo) con uno sterminio accuratamente pianificato [pag. 175], anche perché queste considerazioni non tengono conto del fatto che le potenze imperialistiche lavorano per affamare la Cina, quindi i morti conseguenti alla carestia sono un risultato dell’obiettivo che l’Occidente si era prefisso.

Anche il PCC ha dato di Mao un giudizio articolato, condannando gli errori e sottolineando i meriti, rifiutando così la strada kruscioviana di totale condanna di Stalin arrivando financo a disconoscerne i meriti che egli ebbe nella Grande Guerra Patriottica.

La morte di Mao apre le porte a Deng Xiaoping che inaugura la stagione delle riforme e dell’apertura. Le riforme partite nel 1978 si pongono l’obiettivo di liberare le forze produttive della Cina, convinzioni che si rafforzeranno dopo i fatti di piazza Tienanmen (1989) a cui seguirà, nel 1992, il viaggio di Deng nel sud del Paese, quando il leader cinese dichiarò che “la purezza ideologica non fa crescere il riso” [pag. 231]. Vengono così introdotti nel sistema cinese elementi di mercato che si accompagnano alla pianificazione statale. Le riforme partite nel ’78 hanno ottenuto i risultati sperati, a un grande aumento del PIL si è accompagnata una enorme riduzione della povertà.

L’ultima parte del libro è, a mio giudizio, quella più interessante perché affronta le sfide che la Cina ha di fronte a se stessa oggi. Queste sfide, anche quelle che toccano lo sviluppo interno, hanno una proiezione internazionale, perché senza un contesto mondiale pacifico si fa più difficile raggiungere gli obiettivi.

Se oggi possiamo definire la Cina una potenza ‘revisionista’ è perché essa vuole ridiscutere il sistema internazionale e gli equilibri mondiali unipolari. I motivi dello scontro con gli Stati Uniti stanno qui. Le tensioni sono massime nell’Indo-Pacifico a partire dal Mar Cinese Meridionale, come osserva l’Autore “sono queste acque, sulle quali transita il 70 per cento del petrolio destinato alla Cina, a garantire lo sviluppo economico e le iniziative diplomatico-commerciali legate alla Via della Seta marittima” [pag. 329], ecco perché gli Stati Uniti concentrano in questo quadrante il proprio sforzo. Il Pivot to Asia è stato un punto fermo dell’amministrazione Obama, poi trasformato nel Quad di Trump confermato da Biden. Gli USA vogliono creare un’alleanza anti-cinese per bloccare la pacifica ascesa di Pechino.

Se l’azione di Washington (a prescindere dal nome del suo presidente) è militare la risposta cinese è, come scrive Bertozzi, ‘diplomatico-economica’ [pag. 354]. Questo è un passaggio fondamentale per capire la politica estera cinese che non si limita al piano militare (su cui Pechino sta facendo grandi passi avanti) ma che si orienta anche su quello economico. Per fare un esempio, Australia e Giappone (entrambi facenti parte del Quad) hanno stretti e importanti rapporti commerciali con la Cina: cosa succederebbe alle loro economie in caso di un inasprimento della situazione mondiale? Hanno convenienza questi Stati a soffiare sul fuoco dello scontro? È una domanda a cui, leggendo il libro, non si può che dare una risposta negativa.

È in quest’ottica che va letta la Nuova Via della Seta cinese, che non rappresenta un attacco ai nostri valori (quali?) ma un’opportunità per la nostra economia.

Per concludere, va detto che la Cina, a differenza di quello che destra e sinistra dicevano in passato, non ha abbandonato la via verso il socialismo, in quest’ottica il ruolo del Partito è fondamentale, tanto è vero che nei ‘Quattro Comprensivi’, la parte della teorizzazione di Xi Jinping che è entrata nella Costituzione, un punto è dedicato al ‘rispetto di una rigida disciplina di Partito’ [pag. 293]. I dirigenti cinesi sanno che il crollo dell’URSS è stato prodotto anche dalla corruzione di cui era stato preda il PCUS, a Pechino l’esempio sovietico è ben presente, vengono considerati attentamente i meriti e i punti di forza di quell’esperienza ma anche gli errori che ne hanno decretato la fine.

Il libro di Bertozzi ha il merito di riassumere i temi più importanti della storia e della politica cinese e lo fa senza essere schiavo dell’ideologia né pro né anti cinese, con un’analisi rigorosa e scientifica di questo Paese, sempre più importante per le sorti del mondo.