Poesia e romanzo nella selva delle merci

Leopardi scrisse L’Infinito a 21 anni; Rilke a ventitrè si era cimentato in lavori di narrativa e teatro; Rimbaud, addirittura, a 17 si era già calato in quel fuoco d’inferno che immortalò d’un sol fiato nei suoi versi, lasciando ai posteri un riferimento polare per la poesia di tutte le traiettorie successive. Oggi, invece, tracciare almeno un contorno del concetto di letteratura contemporanea giovane, cercare di focalizzarla il meno approssimativamente possibile, significa per prima cosa rapportarsi ad un’idea di giovinezza estremamente dilatata, sfrangiata, pluridimensionata. Inoltre, le voci, quelle poetiche in modo molto più accentuato rispetto a quelle narrative, sono plurali e brulicanti; versi diversi e spesso distanti si chiamano gli uni con gli altri con la forza di dissonanze umbratili nel sottobosco del pensare poetico. E allora invertiamo una consuetudine consolidata: iniziamo proprio dalla poesia. Gli anni ’50 e ’60 disegnano gli ultimi veri tentativi in Italia di organizzare gruppi intellettuali attorno a cenacoli comuni, polarizzati verso obiettivi culturali che imprimessero un’accelerazione condivisa alla conoscenza. Dopo sperimentalismo, neoavanguardia e Gruppo 63, non ci sono più linee di tendenza onnicomprensive, né manifesti di gruppo che individuino in un esponente, unico o quasi, un nucleo di riferimento. Se questa mancanza, da una parte, misura una ricchezza più articolata dell’espressione, dall’altra segna l’impossibilità di estrapolare un nome sugli altri, uno per tutti da indicare come fulcro catalizzante della parola poetica. Alcune testimonianze sulla poesia contemporanea, come l’antologia di Cucchi e Riccardi, la rivista Atelier, l’antologia di Mario Santagostini, ne danno una dimostrazione pratica: al di là di alcuni pochissimi nomi comuni a tutte, c’è una vastità di differenti esperienze geografiche, generazionali e di generi, un bel panorama insomma di articolazioni della scrittura che si espandono senza più verticalizzare. L’idea è quella di una rete di scritture che si sovrappone alle vecchie gerarchie canoniche, che non ha più recinti nemmeno nelle pulsioni che la generano. Non ci si rifà più ad una scuola di uno ieri forzatamente recente: ogni singolo poeta costruisce in modo autonomo e al singolare i propri riferimenti alla tradizione poetica; con esiti che si dilatano nel tempo e nello spazio, e creano talvolta piacevoli spiazzamenti emotivi per i lettori. Per chi scrive poesia oggi, insomma, non è più d’obbligo parteggiare per Ungaretti o per Montale, ma risalire con il proprio gusto ad esempi anche stranieri o lontani nei secoli. Ogni esperienza individuale usa il linguaggio nel modo personale che è stato reso possibile dalle sperimentazioni e sedimentazioni che l’hanno preceduto. Dal Romanticismo in poi, e anche in seguito all’irruenza del metodo psicanalitico, alla furia con cui è entrato nell’esperienza comune, il senso della cultura e delle parole che la rappresentano si è frastagliato e frantumato in una cascata di possibilità. Anche l’unità dell’io si è di conseguenza frantumata. Che senso ha, oggi, dire “io” nel modo sfrontato accorato e nobilmente spavaldo in cui lo dicevano i classici o i moderni, che senso ha questo pronome senza più singolarità, rimasto sullo sfondo come un’onda dispersa? Roberto Roversi ancora lo fa, audacemente, e parla in prima persona: autorizzato dalla sapienza del suo verso di vegliardo, dalle pedine con cui ha costruito la sua postazione di osservatore della storia. Può quindi defilarsi dall’ovvietà e dal paternalismo se ad esempio parla delle guerre dell’oggi, sfumando l’impatto nella testimonianza di buon titolo di quelle vissute ieri. È fisiologico al nostro qui e ora che ogni confine si spezzi, che s’intagli di suggestioni provenienti dalla diversificazione; anche il margine tra narrativa e lirica si sgretola, lascia spazio a scritture a più dimensioni, con risultati estremamente interessanti. Il dialetto non è scomparso; alcuni giovani, ad esempio Flavio Santi ed Edoardo Zuccato, ne hanno reinventato un uso contemporaneo che assume pariteticamente l’italiano quale strumento di divulgazione e mescidazione; un dialetto innovativo rispetto al lirismo ancora pascoliano alla Tonino Guerra. Ma in poesia qualche irsuta stella polare rimane ancora, il Roversi citato, Sanguineti o Zanzotto; e comunque il brulicare dei tentativi mette in luce parecchi buoni frutti. In narrativa, invece, il panorama è di sicuro più glabro, almeno per quanto riguarda le opere che raggiungono la pubblicazione. Morti Calvino o Pasolini i riferimenti culturali sono andati scemando, un pernicioso mercato editoriale incastra scientificamente mosaici di parole e di marketing: il libro, il racconto, il romanzo, non sono più il banco di prova con cui l’autore tasta il polso alle sue capacità. Il pubblico e la critica, fino a mezzo secolo fa, potevano essere feroci, distruttivi ed elusivi, ma erano comunque disposti ad impegnare nella lettura grandi risorse di tempo e di fatica a comprendere. Esisteva l’opera mondo: uno scritto in cui autore e lettore, ognuno per la sua parte, si davano la voce a vicenda nell’impegno e nel coinvolgimento che aveva l’opera come fulcro. Oggi si costruisce l’identikit del best-seller e dell’autore che deve scriverlo in fretta e ad uso della fretta, dopo di che se ne produce in serie una miriade di versioni, al ritmo di una l’anno o più. Esempio eclatante: Vespa. Eh sì, anche qui è tutta questione di fretta e di mercato: il lettore medio non è più disposto a misurarsi con il grande romanzo storico, a nutrire la sua curiosità con l’autore che lo marca con delicatezza e passione verso l’approfondimento; vuole uno svago mordi e fuggi, vuole che qualcuno lo guidi a sapere, piuttosto che a scoprire, che cosa gli piace leggere. Bella, attuale in questo senso la metafora che Guido Morselli dava della pseudo cultura: la chiamava il turismo della mente. Così c’è il duplice aspetto del buon libro relegato alla disconoscenza e di caterve di libri inutili, nati morti, o creati solo per il consumo di lettori occasionali e numerosi; certa involuzione di alcune librerie Feltrinelli è un indice preoccupante di questo stallo culturale impilato e confezionato in best-seller all’americana. A galla dell’offerta media del mercato rimangono così i soliti noti: il romanzo giovanilista, anche se in misura inferiore rispetto agli anni ’90; il romanzo epistolare dove lo strumento carta è sostituito da mail o chat, con l’effetto pericoloso di rendere sempre più surreale il mondo vero, sempre più reale il mondo fittizio della rete; narrativa d’anticipazione cyberpunk e di fantascienza; narrativa del delitto dal noir, al thriller; narrazione fantastica e paradossale; romanzo storico, più o meno ben scritto ma con congegni stilistici spesso noiosi, che lo rendono poco appetibile alla curiosità;narrativa memoriale e narrativa dello scoop stile Codice da Vinci. I generi sono tutti parimenti dignitosi e degni, ciò che in molti casi manca rispetto agli autori di buon calibro a cui magari si sono riferiti i nuovi scrittori, è la dimensione della cultura: non statico clichè di conoscenze, ma percorso appassionato sempre sul punto di farsi e rifarsi, inerpicato sulla fatica di un conoscere continuamente maggiore, diverso, curioso, eclettico. È questo che genera il sapore della sperimentazione linguistica, piuttosto che la sedimentazione di concetti ingabbiati in parole irrancidite, invariate. Nella direzione del movimento, e nell’ottica della citata opera mondo, si muove il gruppo di scrittori Wu Ming: fin dalle loro prime opere, da Q a 54, sono fedeli a una visione del romanzo come un grande contenitore di forme e di intonazioni, necessariamente romanzo storico per il gioco dei diversi piani temporali su cui interagiscono. All’orizzonte rimangono alcune altre, poche e poco conosciute, testimonianze di nicchia. Simone Morandini, un antesignano del gruppo dei bilancisti prima solo veneziani poi di un buon numero di altre province e regioni, usa la parola scritta per dar corpo alle necessità etiche che muovono il gruppo nella sua attività economico-culturale. E forse questa alchimia di due campi così apparentemente diversi è una reale novità: sulla scia di economisti eterodossi come Serge Latouche, Morandini sviluppa l’idea di un’economia etica; come forma di cultura che possa far uscire dalla ferrea logica del mercato globale, e indirizzarsi verso alternative di consumo critico, di “de-consumismo”, di auto produzione. È economia perché riguarda il nostro mondo di consumatori in relazione ai produttori del sud del mondo, dello sfruttamento del loro lavoro e delle risorse del pianeta; è cultura per lo stesso motivo. Infine qualche piccola realtà raccolta intorno a progetti editoriali di non forte impatto mediatico; case editrici che però tentano di gettare una rete alle parole che diversificano contenuti importanti nel mare magno dell’ovvietà. Ad esempio ObarraO, per sua stessa definizione cerca di dare contributi narrativi al gesto umano dell’arte e della scienza, ma anche di gettare ponti tra i mondi opposti dell’oriente e dell’occidente, esplorando la letteratura del sud est asiatico e promuovendo il pensiero occidentale più avanzato. Il sito editoriale propone inoltre una serie di link interessanti su altri siti d’informazione che privilegiano appunto correnti culturali alternative. Così come alternativa è anche la milanese Kaos edizioni. È vero, forse fa leva sull’uso sensazionalistico della denuncia, ne fa strumento d’impatto e di frizione. Ma le sue dimensioni di mercato non giustificano un dubbio che può sorgere, e cioè che agisca per puro calcolo; è comunque da apprezzare per il coraggio araldico, quasi donchisciottesco di non gettare accuse generiche, ma di citare nomi, cognomi, date e situazioni. Dà un volto quindi ai fantasmi che aleggiano su TG e canali mediatici senza trovare in essi dimora se non, spesso, quella della menzogna e del non detto. Kaos parla chiaro, e scusate se è poco.

* Ringrazio per i contributi il professor Alberto Bertoni, docente di letteratura all’Università di Bologna e il Gruppo di lettura i Quindici.