Il Partito Comunista Cinese allo specchio

pcc 19mocongressodi Diego Angelo Bertozzi
e Francesco Maringiò per Marx21.it

Congresso e Socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era

Per settimane l’avvicinamento al 19° congresso del Partito comunista cinese è parso, soprattutto in occidente, un inseguirsi frenetico di puntate di un serial televisivo, tutto incentrato su dinamiche esclusivamente personali, in special modo sulla figura del segretario Xi Jinping il cui unico obiettivo – questo il senso della trama – era quello di perpetuare il proprio potere a scapito degli avversari di turno, promuovendo amici e sodali. A poche ore dalla sua conclusione (dove tutto sembrava scontato, a leggere i media mainstream) la realtà si è incaricata ancora una volta di fornirci un quadro diverso e più complesso. A partire dal protagonista assoluto, che non è stato l’intrigo di palazzo ma il Partito Comunista Cinese con i suoi poco meno che 90 milioni di iscritti.

Per lungo tempo (sicuramente dal dopo 1989) si è teso a separare il “miracolo economico” cinese dalla leadership politica che quel miracolo stava realizzando. Basta scorrere i giornali per rendersene conto: il PCC si era praticamente eclissato in qualsiasi cronaca e sembrava quasi che i successi fossero frutto di una tecnocrazia al potere che, mantenendo nome e simboli antichi, avesse oramai abbracciato il capitalismo più sfrenato. Così si è voluto ignorare storia, presente e prospettive di un organismo collettivo nato ormai un secolo fa, passato attraverso sconfitte, tragedie, vittorie, che ha saputo riflettere e cambiare indirizzi politici per meglio realizzare il compito che fin dall’inizio ha caratterizzato il proprio autonomo modello di socialismo: la fuoriuscita della Cina dalla condizioni di paria internazionale per riportarla alla condizione di eguale tra le nazioni, garantendo alla propria sterminata popolazione il principale dei diritti umani, che è quello alla vita. Un obiettivo che è ormai alla portata, grazie anche alla capacità messa in mostra di riflettere sulla storia e sui fallimenti (e anche sui successi) del movimento socialista internazionale.

Le riforme portate avanti dal 18° Comitato Centrale e dal Segretario Xi Jinping hanno imposto all’attenzione di tutto il mondo il ritorno del Partito come cuore pulsante del paese. Sono da intendersi in questo senso le forzature – quando non vere e proprie caricature – del dibattito interno al PCC e la demonizzazione del suo Segretario. Mettere in secondo piano l’attore collettivo, quasi altro non fosse che un mastodontico corpo senza vita, sclerotizzato nell’assenza di riflessione, e ostaggio delle decisioni di una cricca o di una casta, è una subdola operazione tesa a delegittimare il più grande partito del mondo, a svuotare di ogni senso politico la sua azione, a rafforzare chi, da destra e sinistra, da lustri denuncia il tradimento degli ideali socialisti.

Bene ha fatto un attento studioso della Cina come Stefano Cammelli a sottolineare come non ci sia “nemmeno alcun mistero da svelare: i documenti, le relazioni politiche, le dichiarazioni pubbliche dei dirigenti sono pubblicate ogni giorno sulla stampa e sul web cinese”. Va anche detto che una visione meno “occidentale” di un simile evento politico sarebbe quanto meno utile, visto che ci troviamo di fronte ad un Paese il cui ruolo globale è ormai fuori discussione.

Da dove si parte

Più prosaicamente, quindi, il congresso è stato preceduto dall’enunciazione da parte dell’Ufficio nazionale di statistica dei risultati conseguiti nel quinquennio precedente, a sottolineare la continuità dell’azione del partito al di là di chi si trova al momento al timone. Vediamone alcuni: il prodotto interno lordo è cresciuto con un tasso medio annuo del 7,2% nel corso del periodo 2013-16 contro il 2,6% della crescita media globale; nel 2016 il Pil della Cina con i suoi 11,2 triliardi di dollari ha rappresentato circa il 15% dell’economia mondiale, segnando un aumento del 3,4% a partire dal 2012; nello stesso periodo il contributo medio della Cina alla crescita mondiale è stato di circa il 30%, il più alto rispetto ad economie avanzate come quella statunitense, giapponese e dell’Unione europea. Nello stesso quadriennio sono stati creati ogni anno oltre 13 milioni di posti di lavoro nelle aree urbane e nei primi otto mesi del 2017 è stata raggiunta la quota di quasi 10 milioni; il tasso di disoccupazione è del 4,83% (il più basso dal 2012); il reddito pro capite disponibile dei residenti ha segnato nel 2016 un incremento annuo del 7,6%; nelle campagne il numero delle persone che vivono in povertà è sceso nel 2016 a 43,35 milioni dai 98.990.000 del 2012. Inoltre l’aspettativa di vita media è passata dai 74,83 anni nel 2010 a 76,34 anni nel 2015. Non è tutto perché altri dati mostrano le trasformazioni in atto nella struttura economica cinese: le spese in ricerca e sviluppo sono aumentate dal 2012 di oltre il 50%, coprendo una quota superiore al 2% del Pil; sono oltre 13 milioni le nuove imprese registrate nel 2016 grazie ad un incremento dal 2015 di oltre il 30%; il settore dei servizi copre una quota del Pil superiore al 51% (nel 2012 era del 45%);  dal 2013 al 2016, il settore dei servizi è cresciuto ad un tasso annuo dell’8%, 0,8 punti percentuali più veloce della crescita media del Pil; alla fine del 2016, il rapporto dei residenti urbani permanenti per popolazione ha segnato un totale pari al 57,35%, rispetto al 52.57% della fine del 2012. Infine il contributo dei consumi finali alla crescita economica ha tenuto una media del 55% nel 2013-2016 mentre nel 1° semestre di quest’anno ha raggiunto il 63,4%.

Una Cina globale

Poi ci sono gli obiettivi annunciati a medio e lungo termine, che altre generazioni al governo del partito e del Paese dovranno raggiungere e per il conseguimento dei quali è necessario rafforzare la guida del partito (“saldo come una roccia”): innanzi tutto la modernizzazione socialista di base entro il 2035 e poi la presa di coscienza del fatto che la Cina si avvia ormai ad essere una potenza la cui azione politica e diplomatica ha riflessi globali e il cui peso – anche economico – si farà sempre più sentire sia nei consessi che hanno governato il sistema internazionale all’indomani della seconda guerra mondiale (Onu e Fondo Monetario internazionale) che in quelle che già la vedono nel ruolo di primo attore (Brics, Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, AIIB, Belt & Road Initiative). Questo significa forse che la prudente politica di Deng sia stata messa in soffitta come in molti amano ripetere? La risposta migliore – ordinaria se pensiamo al fatto che stiamo riflettendo sul congresso di un partito che ancora oggi rivendica il suo legame con il marxismo-leninismo – è che le linee guida che hanno determinato la svolta riformista e di apertura all’esterno a fine anni Settanta restano valide proprio perché si sono adeguate – e con esse la prassi – al modificarsi del quadro internazionale. Come allora anche oggi la Cina popolare necessita per il raggiungimento dei suoi obiettivi di ambiente pacifico, privo di tensioni eccessive e di una collaborazione tra Stati ed organizzazioni; non serve alcuno stravolgimento dell’attuale sistema internazionale – nel quale la Cina è cresciuta e si sta sviluppando – quanto semmai un suo adeguamento all’emergere di nuove potenze regionali e alle richieste di una popolazione mondiale che risiede fuori dall’occidente. Accusata da più parti di rifuggire alle proprie responsabilità, oggi la Cina si fa “globale” per difendere quei principi di collaborazione internazionale e apertura dei mercati che l’emergere delle tentazioni isolazioniste e protezionistiche mettono in discussione.

Del resto questi aspetti sono ben racchiusi nei tre princìpi cardine che hanno caratterizzato il primo quinquennio della segreteria di Xi Jinping, ovvero: la “politica con caratteristiche cinesi tra grandi potenze”, il “nuovo tipo di relazioni tra grandi potenze” ed il “One Belt One Road” ovvero la Nuova Via della Seta (a cui si aggiunge l’obiettivo del “sogno di un esercito forte”).

Proprio per evitare l’esplosione reale di una guerra commerciale, nel suo discorso di apertura al congresso, Xi Jinping ha rivolto un chiaro messaggio a Stati Uniti ed Unione europea, da tempo allarmati per la capacità delle aziende “globali” cinesi – molte delle quali di proprietà statale – di fare breccia nei loro mercati: Pechino si impegna a dare slancio  alla “politica della porta aperta” in relazione alla presenza straniera nel proprio mercato interno nel quale il settore dei servizi è in piena espansione e dovrà rispondere alla domanda di una popolazione sempre più urbana e ricca. Come già annunciato nelle settimane precedenti il congresso, c’è l’impegno verso una maggiore protezione dei diritti e degli interessi legittimi degli investitori stranieri. L’innalzamento delle quote di partecipazione straniere alle joint venture con aziende cinesi dovrà tuttavia convivere con quella che in occidente è vista sempre più come una presenza ingombrante quale quella delle cellule del partito comunista cinese. A margine del congresso Qi Yu, vice capo del Dipartimento organizzazione del partito comunista ne ha difeso in questi termini il ruolo: “I dirigenti senior di alcune società straniere hanno affermato che le organizzazioni di partito possono aiutarli a comprendere tempestivamente le politiche cinesi, a risolvere le controversie sugli stipendi e a fornire energia positiva allo sviluppo della società”. Insomma, discorso chiuso sul mantenimento della loro presenza.

Se da un lato la scelta della politica di apertura è irreversibile (così come la difesa del sistema politico cinese contro ogni importazione di modelli stranieri) anche perché indispensabile per portare il Paese alla condizione di leader nella produzione di alta qualità e alla scalata nella catena di valore globale, dall’altro è riaffermata con forza la volontà di difendere gli interessi del Paese, a partire dalla propria sicurezza contro ogni tentativo di mettere in causa sovranità ed integrità territoriale. Un passaggio del lungo di scorso del segretario è stato molto chiaro: “Vogliamo risolutamente salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale e non tollereremo in alcun modo la tragedia della divisione del Paese. Tutte le attività che mirano a dividere la patria saranno contrastate fermamente da tutti i cinesi. Abbiamo una ferma volontà, una sufficiente fede e una capacità adeguata per sconfiggere qualsiasi tentativo di “indipendenza di Taiwan” in qualsiasi forma. Non permetteremo mai a nessuna persona, organizzazione, partito politico, in qualsiasi momento, in qualsiasi forma, di separare qualsiasi pezzo di territorio cinese dalla Cina”. L’annunciato rafforzamento dell’esercito, la cui modernizzazione dovrà renderlo entro il 2050 di “classe” mondiale, è conseguenza tanto di questa necessità di sicurezza interna, quanto delle sempre maggiori responsabilità che la Cina si è assunta e assumerà nel garantire la sicurezza globale, come mostrano la partecipazione alla lotta alla pirateria marittima, la presenza anche militare nelle operazioni di pace dell’Onu, la costruzione del primo avamposto militare estero a Gibuti e la necessità di garantire sicurezza ai propri investimenti, imprese e cittadini impegnati all’estero.

Lotta alla povertà, attenzione ai bisogni “globali” del popolo e socialismo per una nuova era

Agli albori della politica di riforma e apertura Deng Xiaoping aveva individuato in quella tra arretrato sviluppo delle forze produttive e bisogni del popolo la contraddizione principale con la quale il Paese avrebbe dovuto confrontarsi per lungo tempo. Contraddizione che Xi Jinping ha nuovamente sottolineato nel suo discorso, aggiornandola alle crescenti aspettative di una popolazione che sta sconfiggendo la povertà e che si trova di fronte alle diverse problematiche emerse dopo oltre un trentennio di prodigioso sviluppo economico. Nei prossimi decenni la dirigenza cinese si impegna a risolvere quella tra “uno sviluppo sbilanciato ed inadeguato” e la “crescente necessità di una vita migliore per i cittadini” che si concretizza nella richiesta di bisogni materiali e culturali crescenti e di una maggiore attenzione alla qualità della vita.

Qui sta il nerbo della sfida che la leadership che verrà eletta al termine del congresso – e che dovrà guidare il Paese per i prossimi 5 anni – deve raccogliere: da un alto la Cina si trova nella sua “fase iniziale” di costruzione della società socialista, durante la quale ancora una parte della popolazione lotta per sfuggire alla povertà e per avere accesso ai bisogni basici, dall’altro lato la crescita del Paese ha generato nuovi bisogni e posto le basi per rispondervi. In questo bilanciamento di bisogni e richieste della popolazione si genera una contraddizione che non può essere risolta con l’attuale modello di sviluppo e che richiede pertanto un salto sul piano dell’innovazione, della crescita e del cambio del modello economico fin qui perseguito. Un ri-bilanciamento che non riguarda solo i bisogni della popolazione ma che investe il tema dello sviluppo compatibile con la protezione dell’ambiente e la lotta all’inquinamento, con la riduzione delle disparità tra la zona costiera e l’interno, col bilanciamento demografico (per evitare che la Cina “diventi vecchia prima di diventare ricca”) che ha effetti sulla costruzione del welfare e con investimenti ed accordi commerciali esteri che non sottraggano risorse alle esigenze domestiche.

È per rispondere a queste sfide che la relazione introduttiva al congresso ha introdotto il tema del Pensiero del Socialismo con caratteristiche cinese per una nuova era e che rappresenta pertanto la filosofia delle governance adottata dal Comitato Centrale del Pcc durante la segreteria di Xi Jinping: un corpus di riforme ed esperimenti in parte iniziati già durante il quinquennio precedente, in grado di raggiungere quella che il gruppo dirigente definisce la “modernizzazione socialista” (ossia l’innovazione del marxismo sulla base delle realtà concreta) ed il “rinnovamento del paese” (mostrando in questo uno straordinario coraggio politico) attraverso la politica dei “quattro -princìpi- comprensivi” (ossia: la costruzione di una società moderatamente prospera; il rafforzamento delle riforme; il governo della nazione secondo la legge; il rigido controllo del Partito).

L’adozione di questi princìpi si combina oggi con nuove politiche e riforme che il Partito è chiamato ad adottare nei prossimi cinque anni per raggiungere i due obiettivi centenari già delineati dal 13° piano quinquennale, ossia il raggiungimento di una società moderatamente prospera entro il 2021, centenario della fondazione del PCC ed il raggiungimento di un’economia prospera ed avanzata entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese.

Quali saranno i tratti fondamentali di questo “socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” è ancora troppo presto per dirlo. La discussione è stata appone aperta dal congresso in corso e le decisioni verranno presentate nel corso dei vari Plenum che il nuovo Comitato Centrale sarà chiamato a svolgere. E francamente non vogliamo ingrossare le fila di quanti (a parte rare eccezioni) hanno inondato i media di previsioni, analisi ed articoli (quasi tutti uguali) sulla Cina che verrà. Quello che ci pare evidente è che il 19 Congresso si svolge in un clima internazionale nuovo, con la Cina protagonista dei grandi dossier globali ed un’economia domestica che, assieme ad una crescita invidiata dalle principali economie del pianeta, sta vivendo una trasformazione strategica. Il partito chiamato a discutere in questi giorni (e nei mesi precedenti l’assise nazionale) è un partito nuovo (l’88% dei delegati è entrato nel PCC dopo le riforme di Deng) e rinnovato (grazie alla vigorosa campagna contro la corruzione) che deve fare i conti con l’esercizio di una leadership globale, a partire della figura apicale del segretario Xi Jinping. E pertanto, le decisioni ed il modello di governance (del paese e del partito stesso) che presenteranno, non avrà un’importanza apicale “solo” per i destini della Cina, ma del mondo intero.