Quell’estate 1950

Scandalo al sole. La cosa inaudita apparve proprio quell’estate 1950, e aveva un nome già di per sé sospetto: lo chiamavano bikini. E lasciava scoperto l’ombelico. Era il costume da bagno scostumato. Il due-pezzi che sconvolse le spiagge italiane.

Per la verità, fuori dai confini nazionali, il bikini già si copriva di gloria, facendo una gran bella figura indosso alle più belle donne del momento. A lanciarlo nel 1946 sono lo stilista svizzero Louis Eard e il sarto francese Jacques Heim, è una vera “rivoluzione”. La principessa Margaret, sorella addirittura della regina d’Inghilterra, finisce trionfalmente sui giornali, fotografata in Costa Smeralda mentre, indossando il trasgressivo due pezzi, scende dallo yacht di un magnate dell’epoca. Le più ardite esibiscono il bikini “scandaloso” firmato Fath, in jersey di cotone, a righe e con tre peccaminosissime stringhe ai fianchi. Gina Lollobrigida è tra le prime attrici italiane ad esibirsi con l’ombelico scoperto, facendosi fotografare con un bikini a pois a bordo di una piscina romana: si dice che, proprio grazie a questa foto, la Lollo sia stata poi chiamata in America dal produttore Hughes, il quale la scritturerà per il film “Trapezio”. Anche Marilyn Monroe si fa fotografare con un sia pur castigato bikini (che non fa vedere l’ombelico); invece “la più bella del mondo”, che all’epoca è Brigitte Bardot, di lì a poco, spettacolarmente infischiandosene del comune senso del pudore, si recherà in visita sulla portaerei Enterprise con un bikini ridotto all’estremo minimo. L’accompagna il marito Roger Vadim che, raccontando l’episodio nel suo libro “Bardot, Deneuve, Fonda”, scrive che lei aveva indosso «un’ombra più che un indumento» e conclude: «Quando lasciò la nave, Brigitte si era fatta duemila amici». Pour cause.

Luccichii, pulviscolo magico, splendori sull’erba, l’Italia tutta guarda e ammira come la piccola fiammiferaia. Estatica. Ma il bikini non passa, anzi è fermamente contestato: su certe spiagge di facili “costumi”, come in Versilia e in Romagna, arrivano (per davvero!) i carabinieri, in divisa e tutto; arrivano (per davvero!) a constatare, ammonire, misurare, dare il foglio di via al due pezzi troppo ardito. La caccia al bikini è stata infatti ufficialmente lanciata dal governo clerical-dc, guardiano del comune senso del pudore; e devono passare alcuni anni prima che il costume osè possa essere lasciato in pace.

A Portofino e Riccione le belle procaci si esibiscono dunque per lo più in prendisole, (così si chiamava), in costume intero munito di fasciante gonnellino e giacca accappatoio di spugna (miracolosamente) ricomparsa; a Capri si vedono i primi shorts, le camicette annodate in vita, i favolosi pantaloni alla pescatora, le cuffie di petali di gomma, i grandi cappelli di paglia.

Prima estate ’50. A suo modo palpitante, vogliosa, molto “povera ma bella”, molto “vorrei ma non posso”. Ma anche messaggera del definitivo vade retro agli ultimi retaggi della guerra, portatrice di volenteroso esorcismo contro la miseria cupa che ha dominato sovrana gli ultimi anni. Tanto che sono comparse le leggendarie “maggiorate”, seni e fianchi e curve che esplodono da quei nuovi e anch’essi favolosi tessuti che si chiamano “helance”, nylon testurizzato, roba speciale che non si stropiccia, non si stira e si asciuga in fretta. Così peccaminose e seduttive su quei rotocalchi che hanno incominciato ad invadere le edicole.

Italia poveraccia di quell’estate ’50. La terribile guerra è finita da cinque anni, ma i segni lasciati in pesante eredità sono lì ben evidenti. Siamo ignoranti, straccioni, rustici.

Su poco più di 47 milioni di abitanti, sette milioni e mezzo sono analfabeti, 13 milioni non hanno alcun titolo di studio e sanno solo fare la firma e leggere qualcosa, 25 milioni hanno la licenza elementare, solo tre milioni e mezzo vantano la terza media inferiore, i diplomati sono un milione e mezzo, i laureati poco più di 400 mila.

Quelli che lavorano sono il 41 per cento, quelli che non lavorano quasi il 60 per cento, e di quelli che lavorano, poco meno della metà sono addetti all’agricoltura, braccianti, contadini poveri, mezzadri. Le auto circolanti sono meno di mezzo milione, gli autobus solo 13 mila, gli autocarri solo 167 mila (compresi i 125 mila “residuati bellici”); la paga di un operaio è di 25-30 mila mensili (il giornale costa 29 lire, il pane 100 lire al chilo, la carne 800). Una pensione media è intorno alle 4.500.

Una Italia con le pezze al sedere. Ma la Lambretta (costa 125 mila lire), primo amore sfrenato degli italiani di città, ha le ali ai piedi, se ne sfornano 110 mila all’anno e la Radiomarelli (che costa 18 mila lire, quasi un intero stipendio) diventa un oggetto di consumo. L’Italia che cambia, nonostante tutto. E proprio nel gennaio del ’50 un altro lascito di guerra va in soffitta: il Tesoro dichiara fuori corso le famose am-lire, rimaste fino allora in circolazone: sono le banconote stampate negli Usa durante il conflitto e introdotte in Italia dalla Amg, l’Alllied military governement. Addio alle armi.

A luglio, ecco un altro evento che segna “dopoguerra finito”: il giorno 5, da Roma Ciampino, con a bordo festanti autorità italiane e americane, è partito un Dc6 per New York. La società Lai ha inaugurato la prima linea aerea per l’America, strano ma vero.

L’estate ’50 vestivamo alla caprese e le pin-up prorompevano dalle copertine; ma in realtà correva un pessimo anno. Vi ricordate di quel 1948? Beh, era soltanto due anni prima e si vedeva. Due anni prima – quel ’48, un 18 aprile – la Dc ha rotto gli argini alle elezioni, portandosi a casa una maggioranza quasi assoluta, il Fronte popolare di Pci e Psi uniti si è fermato sul bagnasciuga del 38 per cento. Inizia l’era dei governi dc, quel ’48, con De Gasperi al comando; gli Usa sono soddisfatti, il Vaticano pure (26 mila parrocchie e 66 mila chiese, Gedda con l’Azione cattolica e “il microfono di Dio” padre Lombardi sono mobilitati nella lotta ai “rossi” e in giugno addirittura viene approvata la scomunica contro chi vota comunista); il 3 luglio Washington riconoscente fa scattare il Piano Marshall; il 14 luglio c’è l’attentato a Togliatti e l’Italia è sull’orlo della guerra civile; il 26 luglio la componente cattolica esce dalla Cgil e manda alle ortiche l’unità sindacale; il 12 novembre la Nato è cosa fatta. Era il ’48, due anni prima.

Il ’50, appunto, ne porta tutti i brutti segni, sotto l’egida della guerra fredda ormai in corso. Il 9 gennaio a Modena sono uccisi 6 dimostranti e feriti un centinaio, sono in funzione i celerini del nuovo ministro degli Interni che ha nome Scelba; in marzo la forza pubblica è in campo nel corso di occupazioni di terre al Sud, ma anche in Lombardia, nel Veneto, nel Lazio; in maggio nasce la Cisnal, il sindacato missino. Animo, intanto la Fiat mette sul mercato la 1400 e la Lancia la prestigiosa Aurelia, e la Topolino, ancora sogno proibito per quasi tutti, è già diventata, nel suo piccolo, un’auto di massa e un agognato status symbol.

Cipria, tacchi a spillo, Dior, wooden-wagon, cioè le giardinette con le fiancate in legno; Rossellini gira “Stromboli terra di Dio” e si innamora di Ingrid Bergman (e questo fa arrabbiare moltissimo la ripudiata Anna Magnani che lo gratifica di regolamentare torta in faccia); in America esce “Giungla d’asfalto”, Huston svela la violenza della grande città.

La guerra fredda dà subito i suoi frutti. In giugno, esattamente il 25, scoppia la guerra di Corea: i due stati in cui il Paese è stato diviso alla fine della guerra – il Nord filosovietico, il Sud semi-colonia Usa – si scontrano con le armi, casus belli il rifiuto del governo sudcoreano, fantoccio in mano americana, di accettare le elezioni per la riunificazione nazionale. L’esercito nordcoreano con 80 mila uomini si muove in direzione di Seul, l’Onu (in quel momento l’Urss è assente dal Consiglio di sicurezza in segno di protesta contro il mancato riconoscimento della Cina al Palazzo di Vetro) scende in campo in difesa della Corea del Sud, inviando truppe verso il fatale “38° parallelo”. Urss e Usa si fronteggiano pericolosamente, molto pericolosamente.

Quello strano “Parallelo” laggiù, in quel luogo sconosciuto e lontano, sconvolge la placida estate dei costumi drappeggiati e delle scarpette di paglia, dei fiocchetti e falpalà; i giornali all’improvviso si riempiono di lampi allarmanti, lo spettro di una guerra nucleare appare, il mondo è col fiato sospeso. Lo scontro tra le due Superpotenze inevitabilmente rimbalza nell’Italia “atlantica”, dove Pci e sinistra sono all’attacco di Mac Arthur e Ridgway, i due generali americani che laggiù conducono il conflitto per conto di Seul. Muoiono un milione di persone, muoiono per niente; la guerra finisce con un nulla di fatto, il 38° parallelo resta là al suo posto di confine artificiale, e inizia un trattato di pace lungo quasi cinquant’anni.

Non c’è un buon clima, in Italia, anche se Dieu ha già creato la femme BB, la Cassa del Mezzogiorno visto la luce, e qualche mese più tardi si metterà a fiorire la stupefacente stagione delle Madonne Pellegrine, quelle singolari statue che, in processione qua e là per l’Italia e su comando dei Comitati civici, piangeranno a calde lacrime sull’incombente pericolo comunista. Un’Italia così, dove dei 104 film che quell’anno si producono (tra cui “Miracolo a Milano” e “Napoli milionaria”), solo 72 riescono a superare l’occhiuto esame della censura governativa-clericale (e il “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir, uscito in Francia nel ’49, è messo all’indice).

Però in luglio è estate piena, e la notizia piomba come un fulmine sulle testé conquistate sdraio balneari. Salvatore Giuliano è stato ucciso. Scoppia il “romanzo nero” di quell’Italietta stremata, bacchettona e americaneggiante. Lui è un bandito a suo modo famoso, sedicente capo di un movimento separazionista siciliano, è il re di Montelepre, uno che scrive a Truman in persona, professandosi ardente amico di Washington e altrettanto ardente nemico di Mosca. Uno che, con la sua banda, a colpi di mitragliatrice, il Primo Maggio 1947 apre il fuoco su un corteo di braccianti a Portella delle Ginestre. «La carneficina durò un paio di minuti. Alla fine la mitragliatrice tacque e un silenzio carico di paura piombò sulla piccola vallata», si legge in una cronaca di quel giorno. «Era il Primo Maggio e a Portella delle Ginestre si era appena compiuta la prima strage dell’Italia repubblicana: 11 morti, due bambini e nove adulti, 27 feriti. Tutti poveri contadini siciliani|». Un “lavoretto” svolto ovviamente per conto dei latifondisti e della Cia, che lo foraggia abbondantemente. Nel mese successivo la sua banda distrugge sei sezioni del Pci.

Che a sparare dalle alture sulla folla radunata a celebrare la festa del lavoro erano stati gli uomini di Salvatore Giuliano, gli italiani lo scopriranno solo quattro mesi più tardi. Lui si è dato alla macchia. Per tre anni diventa la primula rossa favoleggiata, e dal suo “imprendibile” nascondiglio lascia uscire memoriali, messaggi, lettere, clamorose interviste a belle inviate di giornali stranieri. Ma ecco, ora, in quel 5 di luglio 1950, la morte improvvisa e strana che fa il giro della stampa di tutto il mondo: il leggendario bandito è stato sorpreso e ucciso in un conflitto a fuoco coi carabinieri.

Poi, come è noto, si verrà a sapere che è tutto falso. Salvatore Giuliano è stato fulminato nel sonno con sei colpi di pistola dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, che il colonnello dei carabinieri Luca ha convinto a tradire. Quel Gaspare Pisciotta che nel ’54 verrà messo a tacere per sempre con un provvidenziale caffè al cianuro servito nel carcere dell’Ucciardone, dove lui si trova in attesa di processo.

L’estate va. Si continua a tirare la cinghia, sui tacchi a spillo, nei costumi con la scollatura a cuore, a bordo delle Lambrette che fanno colpo sulle ragazze di bocca buona del tempo. Si tira la cinghia e si hanno sempre le pezze al sedere; nonostante il Piano Marshall al Sud fanno fagotto e continuano ad emigrare come ai primi del secolo.

Però ora c’è Grand Hotel, il fantastico rotocalco creato dal geniale Cino Del Duca appena nel ’46. C’è Grand Hotel, e sulle sue pagine si può sognare a buon mercato, sognare su quelle facce di uomini e donne così belli e così ben disegnati da Walter Molino, su quelle storie strappalacrime, edificanti, dove l’amore ha sempre il lieto fine.

C’è Grand Hotel, l’evasione consolatrice, (piuttosto che niente).