Qualcosa si muove. Editoriale

di Francesco Maringiò

Più gas ed armamenti dagli Usa, più spese militari, più assertività nei confronti di Pechino. Il bilancio dell’incontro tra Meloni e Trump si è risolto in un magnifico 4-0 a favore del Tycoon. Almeno questo è il verdetto se guardiamo agli elementi strutturali. Se invece ci fermiamo alle dichiarazioni e lo show a favore di telecamere, allora possiamo registrare un pallido pareggio: 1-1 (o 0-0, se preferite) con le due squadre che si sono vicendevolmente fatte i complimenti ed elargiti sorrisi di circostanza. Meloni ha reinterpretato infatti lo slogan MAGA in chiave suprematista occidentale: «il mio obbiettivo – ha dichiarato nello Studio Ovale – è fare l’Occidente di nuovo grande», mentre Trump l’ha riempita di complimenti; un esercizio evidente di “iperbole veritiera” funzionale al negoziato, proprio come egli stesso insegna nel suo celebre libro “The art of deal” del 1987.

Tutto questo mentre il mondo mostra i segni di una instabilità senza precedenti. 

Questa domenica di Pasqua infatti non accenna a fermarsi la tragedia di Gaza e del popolo palestinese. Ora che anche l’ospedale Battista Al-Ahli a Gaza City è stato distrutto dall’aviazione israeliana, il 35º ospedale dall’inizio dell’invasione, non resta alcuna struttura sanitaria in piedi che possa lenire il dolore della popolazione palestinese della striscia, colpita da un incessante attacco che nessun organismo internazionale ha provato seriamente a bloccare. Ma è una domenica di Pasqua di sangue e violenze anche “nell’altra Palestina”, nella Cisgiordania, dove le operazioni militari ad opera dell’esercito sono continuate in questi anni, in palese violazione di ogni principio del diritto internazionale. Di fronte a tutto questo, il silenzio delle istituzioni europee e degli organismi internazionali è semplicemente vergognoso e mostra, semmai ce ne fosse ancora bisogno, il substrato culturale delle nostre società, intrise di suprematismo occidentale ed incantate dal coro dei media di regime.

Accanto a questa violenza cieca e drammaticamente manifesta, si erge la militarizzazione della nostra società, per preparare la guerra. Come ha recentemente affermato Fabio Mini: «il futuro è la proiezione di quello che si fa nel presente, secondo determinate linee guida. Se noi oggi stiamo preparando la guerra contro la Russia il futuro è la guerra contro la Russia». È questo che le classi dirigenti europee stanno preparando. Scartando anche rispetto agli Usa – che da questa guerra persa ne stanno uscendo – le élite europee stanno spingendo l’acceleratore verso lo scontro totale con la Federazione Russa, come opzione principale per continuare ad esercitare ancora un’egemonia nel continente. Da qui nascono affermazioni e prese di posizione (dalle quali non si distaccano le più alte cariche dello Stato italiano) che sono una manipolazione evidente della storia e, per riprendere le parole del generale Mini, la preparazione della guerra di domani.

A questo si aggiunge il nuovo salto di qualità: l’individuazione della Repubblica Popolare Cinese come futuro, prossimo, nemico. Una linea sponsorizzata da Washington e che, per ora, ha disarticolato le posizioni delle varie cancellerie, ma che presto può trovare una nuova unità, infarcita dalla solita retorica del suprematismo occidentale che descrive se stesso come “minacciato dalle autarchie”. 

Il punto centrale da cogliere resta il cambio di paradigma che si registra nel continente europeo. Se il futuro è la guerra, allora gli spazi ed il compromesso democratico nato nel secondo dopoguerra non sono più accettabili. Ed infatti si procede rapidamente alla chiusura degli spazi di contendibilità democratica all’interno del quadro liberale. Da un lato la debolezza del movimento operaio e dall’altro la preparazione della guerra, rendono il gioco della democrazia liberale un “lusso” che non tutte le classi dirigenti vogliono più permettersi. Lo abbiamo visto nelle scorse settimane in Romania, con la sospensione dell’esito elettorale prima e l’esclusione di Georgescu poi. Ma è una storia che lambisce anche le pagine della nostra cronaca parlamentare, se addirittura uno come Bettini (un ideologo del PD, quindi uno le cui posizioni trovano poca simpatia in chi scrive – e sicuramente in chi legge – questo articolo) è arrivato ad ammettere che il governo Conte è caduto per una “convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli”. Con buona pace, quindi, del volere del popolo e della democrazia del paese.

In questo quadro il punto di partenza per tornare ad invertire la rotta è partire da un obbiettivo concreto ed immediato: mandare a casa la classe dirigente che, dopo aver perso la guerra (quella ucraina) rilancia il conflitto su larga scala nel continente. Mandarli tutti a casa è il primo passo per tornare a fare politica e far pesare, nel piatto del confronto, la volontà del popolo italiano. E quella di #tuttiacasa è una parola d’ordine attorno alla quale è partita una mobilitazione importante, che ha riempito i teatri di Roma e Bologna all’inverosimile e che si è data un appuntamento strategico il prossimo 24 maggio a Milano, in Piazza San Babila. Proprio in quella piazza che ha visto, negli ultimi anni, l’incessante impegno antimilitarista dei compagni del Comitato Contro la guerra di Milano. Organizzata dall’associazione Multipopolare ed OttolinaTv, insieme a tanti compagni di strada, tra cui anche Marx21, la mobilitazione del 24 punta a costruire un grande evento contro il sistema di guerra e per mandare a casa il partito unico delle armi e degli affari. E la riuscita di quella piazza è una scommessa importante che può riaprire davvero la partita in questo paese.

Siamo consci che il tuttiacasa è uno slogan che dovrà essere riempito di contenuti. Dire no alla Nato e all’Unione europea è un primo passo, rispetto al quale sappiamo di non essere una minoranza. Le voci critiche che dissentono contro le folli politiche belliciste sono sempre più forti. Guardando con attenzione a quello che accade (nel mondo ma anche in Europa) non si può non notare un risveglio nella mobilitazione contro la guerra: contro la carneficina israeliana a Gaza, innanzi tutto, ma anche contro la partecipazione dei governi europei alla corsa al riarmo ed alla guerra. Siamo di fronte alla più grande mobilitazione di massa a livello globale dalla guerra in Iraq ed è dentro questa mobilitazione che riusciremo a metterci in connessione con la lotta dei paesi che costruiscono un mondo multipolare. La saldatura tra le lotte contro le fazioni più belliciste e pericolose delle classi dirigenti dei paesi occidentali e la lotta dei popoli oppressi dal sistema imperialista mondiale è la chiave per riaprire la partita, anche nel nostro paese.

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