Non solo proporzionale. Editoriale

di Marco Pondrelli

Dopo l’elezione del Presidente della Repubblica e a poco più di un anno dal voto è tornata prepotentemente d’attualità la discussione sulla legge elettorale. La storia dei sistemi elettorali dal ’93 ad oggi è drammatica, la legge fatta da Berlusconi (il cosiddetto Porcellum) era pensata per aiutare il centro-destra alle elezioni, Matteo Renzi fece approvare una legge mai applicata (unico caso nella storia) e ritagliata su misura sul risultato del PD alle elezioni europee del 2014, infine l’ultima è stata pensata per impedire al M5S di governare da solo. La conclusione da trarre è che la politica è incapace di pensare ad una riforma democratica complessiva che vada oltre le contingenze quotidiane.

Recentemente si è rafforzato il fronte di chi chiede una legge proporzionale seppur corretta con uno sbarramento o con un premio di maggioranza oppure con entrambi. Qualche maligno potrebbe osservare che negli anni ’90 Rifondazione Comunista chiedeva una riforma con sbarramento al 5 o al 4%, con una sola camera di 400 parlamentari. Questa proposta ispirata al modello tedesco oltre alle legge elettorale era legata anche ad altri correttivi istituzionali come, ad esempio, la sfiducia costruttiva. Fu sicuramente un errore ed oggi una sinistra ridotta ai minimi termini è tornata a chiedere una legge proporzionale pura, in ogni caso se la soglia fissata fosse bassa qualche strano raggruppamento destinato a sciogliersi nei giorni successivi al voto potrebbe anche entrare in Parlamento.

Dobbiamo quindi prendere positivamente atto di questa possibilità? No, dobbiamo continuare a batterci per un proporzionale puro, che non è semplicemente il tentativo di preservare qualche riserva elettorale ma rappresenta la visione di un sistema istituzionale democratico alternativo a quello attuale. Quello che i comunisti devono mettere a fuoco è la crisi della democrazia a partire dal calo della partecipazione, che non riguarda solo il drammatico calo degli elettori ma più in generale la partecipazione alla scelte politiche sempre più presentate come qualcosa di lontano dal popolo. Recentemente per le elezioni suppletive di un collegio romano ha votato poco più dell’11% degli aventi diritto, è un caso limite ma che segna una disaffezione profonda. Questa disaffezione non è generica, non riguarda la ‘gente’ intesa in senso astratto e un po’ demagogico ma le classi più deboli, è quindi una discriminazione di classe.

Se ripensiamo alla nascita della cosiddetta seconda Repubblica troviamo le sue radici all’inizio degli anni ’90; in particolare il ’92 e il ’93 furono gli anni non solo del referendum promosso da Segni, Occhetto e Confindustria per il passaggio al maggioritario ma anche gli anni degli accordi di luglio che abolirono la scala mobile. Entrambe queste scelte erano dirette contro la classe lavoratrice, da una parte si tagliavano salari e diritti, dall’altra si colpivano i rappresentanti del mondo del lavoro. Inoltre accanto alle controriforme portate avanti con i referendum e gli accordi di luglio, si è registrata la fine dei grandi partiti politici di massa, sotto i colpi delle inchieste di Mani Pulite e con la denigrazione arrivata fino ai nostri giorni dei partiti e del sindacato. Il combinato disposto della cancellazione del principio “una testa un voto” (sistema elettorale proporzionale) con la denigrazione dei corpi intermedi che organizzano la partecipazione popolare, ha dato un colpo al cuore alla Costituzione. Un dato di cui nessuno parla e su cui occorrerebbe dedicare studi approfonditi è l’incredibile scarsità di operai in Parlamento. Al M5S possono essere fatte molte (giuste) critiche ma gli va riconosciuto di avere portato nelle istituzioni tanti giovani precari senza voce, un pezzo importante del mondo del lavoro.

Il modello istituzionale che abbiamo di fronte segue l’esempio statunitense. In un interessante libro del 1994 ‘la politica dell’esclusione’ Arnaldo Testi analizzava le riforme prodottesi negli Stati Uniti fra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento, in quella che è passata alla storia come l’età progressista. In questo testo significativamente sottotitolato ‘riforma municipale e declino della partecipazione elettorale negli Stati Uniti del primo Novecento’, lo studioso sosteneva che l’esaltazione del potere esecutivo assieme al depotenziamento delle assemblee legislative ed accompagnato dall’attacco ai partiti di massa aveva prodotto il crollo della partecipazione. Molti autori si sono interrogati sul perché negli USA non sia mai nato un forte partito laburista o socialdemocratico. Secondo alcuni la risposta sta nella mancanza di una vera lotta di classe, la possibilità di espandersi ad est (sterminando i nativi) offriva un alternativa ai lavoratori. Non è così! La lotta di classe negli Stati Uniti c’è stata ma ha vinto la grande borghesia. Gli strumenti per combattere il proletariato americano sono stati due, il primo può essere definito ‘militare’ c’è stata infatti tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 una durissima repressione costata migliaia di morti. Come ha scritto Alessandro Portelli (Woody Guthrie e la cultura popolare americana): ‘dalla memoria collettiva della storia del paese è stato cancellato anche il ricordo dei sanguinosi scontri di classe che l’hanno costellata’. Il secondo strumento sono state le riforme di cui parla Arnaldo Testi nel suo libro, strumenti come il maggioritario, il presidenzialismo o le primarie sono stati usati dalla borghesia per rafforzare la propria egemonia. Oggi i parlamentari statunitensi sono super ricchi, i rappresentanti dell’élite statunitense. L’assalto a Capitol Hill seppure guidato da idee reazionarie rappresentava una ribellione popolare contro la ricchezza della classe dirigente, un pezzo di popolo aveva individuato il nemico anche se lo attaccava seguendo la voce in un altro super-ricco, Donald Trump.

Negli Stati Uniti per fare politica occorre avere soldi, per farlo servono finanziamenti che arrivano dal mondo privato (finanza, industria, multinazionali), in questo scenario la voce della classe lavoratrice non arriva a Washington. Nel momento in cui i giannizzeri del pensiero liberale ci chiedono di difendere le democrazie occidentali in pericolo dobbiamo avere il coraggio di dire che la democrazia in Occidente non è tale. Il Parlamento, l’informazione, l’apparato burocratico dello Stato, le fabbriche e via dicendo sono luoghi sempre meno democratici e lo sono anche in Italia.

Quando Stieglitz scrisse dell’1% dei ricchi contrapposto al 99% del popolo colse un tema che va oltre la semplice analisi economica. Recentemente Emiliano Brancaccio e Luciano Canfora sono intervenuti sul tema della democrazia, pur se da prospettive differenti entrambi colgono il punto fondamentale, quando la ricchezza è concentrata in poche mani non può esservi uguaglianza e quindi non può esservi democrazia.

Queste considerazioni ci portano a dire che oggi il tema della legge elettorale proporzionale è solo il punto di partenza per una più ampia riforma democratica e proprio perché questa è una battaglia democratica essa non deve essere rinchiusa in un dibattito fra costituzionalisti, deve essere una battaglia di popolo perché è parte della lotta di classe.