Lotta per la pace e per il lavoro. Editoriale

di Marco Pondrelli

In questi mesi ci siamo occupati della crisi ucraina, anche se sarebbe più corretto dire che sono otto anni che ce ne occupiamo, a differenza della stampa italiana per la quale il conflitto è scoppiato il 24 febbraio. Come abbiamo già avuto modo di dire la resa del battaglione neonazista Azov nell’Azovstal è un passaggio importante. Nonostante i mass media siano ricorsi alla censura per evitare di usare la parola ‘resa’ (un po’ come durante il secondo conflitto mondiale per i giornali fascisti la ritirata sul fronte russo era un ripiegamento) la vittoria russa è chiara ed avrà molteplici conseguenza. Da un punto di vista di immagine la sconfitta mina l’idea di imbattibilità del battaglione Azov, questo potrebbe aprire scontri interni al governo ucraino (già si notano le prime crepe), inoltre è grande l’interesse per capire cosa uscirà dal processo e cosa uscirà dall’Azovstal.

Se questa è la situazione sul campo è interessante occuparsi anche del fronte interno: italiano ed europeo. Abbiamo sentito per mesi che la Russia non avrebbe resistito alle sanzioni. Sicuramente i contraccolpi, per quanti prevedibili e previsti, sono arrivati a Mosca ma se Atene (Russia) piange Sparta (Italia) non ride. All’inizio del conflitto molti politici spavaldi si erano detti pronti a rinunciare ad un punto di PIL per aiutare l’Ucraina (e quindi anche il battaglione Azov), non essendo i loro stipendi legati alla performance del Paese è una promessa che sono intenzionati a mantenere, fino all’arma finale: rinunciare al gas russo.

Proviamo ad uscire dalla retorica ed analizzare la situazione del nostro Paese. Alla vigilia del lockdown l’Italia non aveva ancora recuperato quanto perso a causa delle crisi del 2007-08. Il Covid ha rappresentato un altro grande balzo all’indietro, l’aumento del Pil nel 2021 è stato giustamente interpretato come un rimbalzo che però non ci ha permesso di riguadagnare la ricchezza persa dallo scoppio della pandemia. Il precipitare della crisi ucraina sta bloccato la ripresa del 2022, l’aumento dell’inflazione farà il resto producendo un aumento dei prezzi a fronte di salari in calo. Questi non sono solo numeri, tutto questo vuole dire povertà, aumento delle diseguaglianze e disoccupazione.

La risposta dell’Unione europea alla crisi del Covid era stata la sospensione del patto di stabilità e il PNNR, quest’ultimo presentato come un’inversione storica delle politiche di austerity si sta rivelando per ciò che è, cifre insufficienti legate a condizioni che determinando l’agenda politica italiana dei prossimi anni a prescindere dai risultati elettorali. Per quanto riguarda poi la sospensione del Patto di Stabilità essa non prefigura la nascita di una nuova Europa solidale e democratica, questo atto non era contrario ai trattati europei che prevedono il blocco di alcune misure di fronte a crisi eccezionali. Il punto da mettere a fuoco è che ad oggi non c’è nell’agenza politica europea una discussione per trasformare le regole europee in modo da aiutare i paesi in difficoltà. Restano al momento le vecchie regole è la commissione europea ha chiarito che il Patto di Stabilità resterà bloccato anche nel 2023 ma allo stesso tempo ha affermato che la fase ‘espansiva’ è finita scrivendo nel proprio documento che “i piani di bilancio degli Stati per il prossimo anno dovrebbero essere ancorati a percorsi prudenti di aggiustamento a medio termine che riflettano le sfide della sostenibilità di bilancio associate agli elevati livelli di debito-pil che sono ulteriormente aumentati a causa della pandemia’.

Questo significa che a fronte di una crisi complessiva economica occorre tornare a guardare a deficit e debito. Il rischio concreto è che i Paesi come l’Italia siano al centro di una ondata di sfiducia con conseguente aumento dello spread fra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi. Si aprirebbe una fase già vista. La tenuta dell’euro sarebbe a rischio e l’Italia verrebbe presa di mira per il suo debito eccessivo, le sarebbe chiesto di vendere pezzi del suo patrimonio (esempio l’ENI), queste politiche di privatizzazione e liberalizzazione del nostro mercato non porterebbero alla diminuzione del debito ma all’ulteriore de-industrializzazione del Paese e quindi al nostro ulteriore impoverimento.

Ci diranno a breve che abbiamo vissuto sopra le nostre possibilità e che sono necessari dei sacrifici, ma chi farà questi sacrifici? Ho toccato con mano il problema delle liste d’attesa in sanità nella progressista Emilia-Romagna e quindi ipotizzabile che questi sacrifici saranno a carico dei soliti noti. Recentemente sono stati pubblicati gli stipendi dei principali manager italiani, John Elkann guadagna oltre 35 milioni, poi ci sono gli eredi di Marchionne che percepiscono più di 26 milioni e Kunze Concewitz della Campari 22 milioni, questi sono i primi 3 ma la lista è molto lunga. Di fronte ad una crisi come quella che si sta prospettando è demagogia o populismo (qualsiasi cosa significhi questa parola) chiedere che siano loro a pagare?

Ci aspetta una battaglia nei prossimi mesi ma purtroppo non c’è un esercito pronto a combatterla. La prima necessità è aprire il movimento per la pace alla lotta per il lavoro. Come sempre la guerra la pagano e la combattono le classi subordinate, dire che non dobbiamo essere co-belligeranti vuole dire difendere i lavoratori e le lavoratrici del nostro Paese. Per farlo occorre un salto di qualità i comunisti e la sinistra devono unirsi, unirsi senza rinunciare alle proprie idee, non ci serve un’unità di facciata, un nuovo cartello elettorale che si scioglie il giorno dopo il voto, quello che ci serve è un fronte ampio che unisca soggetti politici che sono su posizioni diversi ma che condividono la necessità di una battaglia comune per la pace e per il lavoro.

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