di: Francesco Galofaro, Università IULM di Milano
Donald Trump ha battuto Kamala Harris alle elezioni USA. Tralasciando considerazioni fuori luogo sui diritti, si dovrebbe dedicare qualche attenzione in più alla sfera economica. L’economia degli Stati Uniti ha conosciuto un’impennata dell’inflazione a partire da aprile 2021, che ha raggiunto il 9,1% in luglio ‘22, ed è tornata sotto controllo solo nel luglio del ‘23. In termini reali, quindi, durante la gestione Biden, salari e stipendi si sono significativamente ridotti. La guerra e il sostegno a Kiev non sono stati la causa diretta dell’aumento dei prezzi, come è accaduto in Europa, ma certamente non hanno giovato, in una situazione già grave. E anche se oggi i dati dell’inflazione sono nella norma, dopo la cura da cavallo imposta dalla FED ai tassi di interesse, la prospettiva non è rosea: gli ultimi mesi della campagna elettorale hanno visto una crescita della disoccupazione, che ha toccato il 4,3% in luglio per attestarsi al 4,1%. Mentre si fa strada il timore di una recessione, alcune riviste economiche (ad es. Forbes) hanno indicato l’eccesso di immigrazione tra le cause.
In questa situazione, Trump ha saputo incarnare il bisogno di cambiamento degli elettori, impoveriti dalle scelte economiche del governo Biden e senza prospettive solide per il prossimo futuro. Lo stile della comunicazione di Trump, ruvida e diretta, suggeriva decisioni rapide e veloci: il genere di intervento che serve per scongiurare una minaccia incombente. Invece di dedicare discussioni oziose all’influenza esercitata dalla giovane cantante avvenente o dal lottatore famoso, sarebbe bene considerare questi aspetti per interpretare la vittoria di Trump. Kamala Harris non è stata percepita come una novità né come una leader in grado di imporre scelte in controtendenza con quelle portate avanti dall’amministrazione di cui ha fatto parte nel ruolo non marginale di vicepresidente.
Cosa accadrà ora? Molto poco, per il momento. Prima di rassegnarsi all’oscurantismo scientifico, all’apocalisse ecologica e perfino – come mi è capitato di sentire – al ritorno del COVID, ci si soffermi sul fatto che, tra i sostenitori di Trump, c’è Elon Musk. Per quanto si tratti di un personaggio controverso, con un potere smisurato, è difficile considerarlo come un nemico della ricerca e del progresso tecnico scientifico. Alcuni processi industriali avviati a livello globale, come quelli che ruotano intorno all’auto elettrica, non possono essere fermati. La transizione energetica potrà rallentare, ma è difficile che si ritorni al petrolio e al carbone. Il punto è che, in gran parte, le politiche “green” sono in realtà sostegni a processi di innovazione capitalistica di processo e di prodotto. Per esempio, a volere essere davvero ecologisti, si dovrebbero potenziare i trasporti pubblici, non mirare alla media di tre auto ibride a famiglia; si dovrebbero imporre alle automobili gli stessi criteri di efficienza energetica che esigiamo dai frullatori e tassare le aziende automobilistiche che producono i modelli di auto più inquinanti, non proteggerle, come la UE ha fatto con la Volkswagen. Tra i segreti della vittoria di Trump c’è la discrasia tra l’utopia intellettuale e aristocratica del terziario avanzato e la frustrazione della classe media e dei lavoratori impoveriti, che si sentono presi in giro.
Allo stesso tempo, però, quanti pensano che Trump fermerà la guerra in Ucraina dovrebbero mostrare cautela. La chiave per interpretare Trump consiste nel fatto che si tratta di un personaggio autocontraddittorio. Come accade spesso in politica, nella traduzione tra i giudizi politici su quel che occorre fare e le azioni di governo conseguenti vi è un ampio margine, altrimenti noto come “pragmatismo”. La guerra in Ucraina è negli interessi di un grosso pezzo di borghesia USA: la sua parte più avanzata e cosmopolita. È imperialista in senso tecnico: permette di ristrutturare l’economia europea in funzione di quella americana e delle sue esportazioni, mitigando alcuni fattori di crisi e riducendo la competizione. Certamente, la dottrina di Trump in politica estera, durante il suo primo mandato, è stata quella di concentrarsi sulla guerra commerciale e di considerare come primo avversario la Cina. La prosecuzione di questa politica implica un alleggerimento delle relazioni con la Russia. Questo si può ottenere attraverso un trasferimento parziale degli oneri sui paesi dell’Unione europea. Trump si comporterà con la guerra come ha fatto con l’aborto; tecnicamente, si dichiara antiabortista; in pratica, scarica la responsabilità di scelta sui singoli Stati. Allo stesso modo, oneri e responsabilità della mancata vittoria contro Putin saranno addossati alle Ursula von der Leyen e ai Mark Rutte di turno.
A proposito della guerra in Ucraina, sarà bene però approfittare del cambio di amministrazione per trarre un bilancio economico, sociale e politico. La prospettiva è quella di costi militari in crescita a fronte di risultati deludenti sul piano militare. La scelta di discutere con la Russia su un piano assertivo e di escludere a priori la prospettiva dei colloqui non è nell’interesse dei cittadini europei, ai quali è stato presentato il conto delle ambizioni di piccoli governi in cerca di un ruolo da protagonista nelle relazioni internazionali e di potentati economici che nutrono illusioni circa la ricostruzione futura. Dilagano movimenti xenofobi e organizzazioni politiche razziste, alimentate precisamente dal tabù di discutere politicamente soluzioni basate sulla ripresa del dialogo. Il sacrificio richiesto dalle signore e dai signori della guerra di Bruxelles può spingersi fino al suicidio della democrazia?
Sostieni il nostro lavoro con una piccola donazione
Unisciti al nostro canale telegram