La guerra, la possibile tregua ed i nostri compiti. Editoriale

di Francesco Maringiò

Nell’infuocato contesto europeo uno spiraglio sembra aprirsi. Se non è proprio uno spiraglio di pace, almeno quello dell’avvio di una possibile trattativa. Parliamoci chiaramente: è difficile sapere a che punto è la discussione della diplomazia sotterranea che, articolata in diverse componenti, interessi ed obbiettivi (probabilmente trasversali agli stessi paesi coinvolti), partecipa alla trattativa sul conflitto ucraino. Chi non dispone di fonti di prima mano ed è costretto, come noi, a fare i conti con le dichiarazioni ufficiali o – ancora peggio – con le informazioni diffuse dai media che, par excellence, sono diventati i canali della disinformazione di guerra, è costretto a fare maggiore attenzione per non lasciarsi travolgere dalle emozioni del momento e cercare di mettere assieme gli elementi utili all’analisi ed alla comprensione dei fatti.

Primo fatto. Su questo sito il concetto è stato già ampiamente trattato, ma giova accennarlo nuovamente. Quello a cui stiamo assistendo non è una partita che ha come campo di battaglia il territorio ucraino, ma uno scontro che attiene alla definizione degli equilibri mondiali per la prossima era storica. Chiusa la fase dell’unilateralismo statunitense post ’89, si tratta ora di stabilire e definire le caratteristiche e le forme di questo nuovo multipolarismo.

Secondo fatto. Proprio quanto abbiamo appena detto spiega il comportamento dei principali attori statuali. Un esempio su tutti è l’atteggiamento di Usa e Gran Bretagna per un verso e di Cina (ma non solo) ed addirittura Vaticano dall’altro. I primi sono attori cobelligeranti. Non solo perché spediscono armi (assieme all’Ue), ma perché condividono notizie di intelligenze, tecnologie, procedure ed addestramento con l’obbiettivo di sconfiggere la Russia. I secondi chiedono il cessate il fuoco, l’apertura del dialogo e comprendono le ragioni e le cause che hanno portato al precipitare degli eventi. Non è un modo educato per tirarsi fuori, ma un modo preciso per stare dentro alla discussione ed indicare una strada diversa da quella scelta a maggioranza a Washington ed appoggiata (sempre a maggioranza) in Europa.

La Cina poi, lo ripete ad ogni presa di posizione ufficiale, crede nel multipolarismo e soprattutto in un ordine globale basato sul diritto internazionale e che ha come suo fulcro, ancora una volta, l’Organizzazione delle Nazioni Unite. E poiché siamo abituati al fatto che i dirigenti cinesi non parlano mai a caso e misurano bene le parole, è legittimo pensare che ci sia chi vuole far saltare l’Onu e costruire sistemi internazionali nuovi e diversi. Non basta quindi parlare di multipolarismo: bisogna indicarne le forme e specificare cosa questo significa. Anche un mondo diviso in blocchi in guerra tra di loro è un mondo multipolare, ma non è la prospettiva indicata da Pechino.

Veniamo al terzo fatto. Da alcuni giorni viene fatta filtrare dai media la possibilità dell’apertura di una fase negoziale. Anche la visita negli Usa di Mario Draghi andrebbe letta secondo questo prisma. Il Presidente del Consiglio italiano avrebbe ribadito a Biden il sostegno alla linea di cobelligeranza de facto al fianco dell’esercito ucraino e, assieme, la richiesta dei paesi europei di costruire un orizzonte politico capace di portare Mosca e Kiev al tavolo della trattativa. La stessa telefonata tra Austin e Shoigu sarebbe un segnale in questa direzione. Sarebbe dello stesso avviso anche Macron. Il presidente di turno dell’Ue non ha mai aderito alla campagna tesa a mostrificare Putin (con cui ha sempre mantenuto un filo di comunicazione diretta) e recentemente in una telefonata col presidente cinese Xi ha convenuto con lui sull’importanza dell’ipotesi negoziale.

Questa nuova situazione non può che essere salutata con gioia, ma è bene tenere a mente alcuni aspetti. Innanzitutto il fatto che la cessazione delle ostilità è indispensabile per giungere alla pace ma non rappresenta la fine tout court della guerra. Se si vuole evitare che l’Europa sia il campo di battaglia di una lunga guerra di trincea, bisogna affrontare alcuni nodi politici più di fondo. Perché se è vero che questo conflitto non nasce il 24 febbraio scorso tra Russia ed Ucraina, allora non si può pensare di risolverlo tratteggiando semplicemente delle linee di confine con la matita rossa e blu su una mappa geografica. E questo significa trovare una forma stabile per risolvere il problema dei rapporti tra Russia e Nato (ed Occidente) ed i problemi di sicurezza complessivi. Questo tema la Russia lo pone da decenni. Ed oggi, chi vuole risolvere il problema alla radice, sottopone questo tema alle classi dirigenti europee. Mentre i falchi dell’atlantismo ultrà chiedono un ulteriore allargamento della Nato, la Cina pone il tema centrale per il nostro continente: «la Cina sostiene anche l’UE e la Russia ad intraprendere un dialogo paritario sulle questioni di sicurezza europea e ad attuare la filosofia della sicurezza indissociabile, in modo da formare finalmente un meccanismo di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile». Questa è la posizione della Cina, espressa dal Ministro degli Esteri Wang Yi in occasione della conferenza stampa sulla questione ucraina il 25 febbraio scorso.

Un altro aspetto da tenere in mente è invece l’ipocrisia delle classi dirigenti europee, allorquando dicono che la fase negoziale si può aprire proprio grazie all’invio delle armi in Ucraina, iniziativa che ha posto le basi della resistenza e della possibile trattativa. L’ipocrisia è evidente allorquando si foraggia una guerra dove a morire sono giovani cittadini ucraini e russi e non certo provenienti dai paesi che guidano le incursioni con le informazioni di intelligence o addestrano i locali all’uso delle proprie armi. Ma c’è di più. Poiché è in questa temperie che si disegnano gli equilibri del prossimo futuro, il diverso comportamento dell’élite europee anche solo dallo scenario iracheno ci parla di una torsione militarista ed interventista dell’Ue che è sempre più evidente. E se non è evidente all’opinione pubblica continentale, nutrita a media embedded, lo è agli occhi degli altri popoli nel mondo. Figuriamoci pertanto cosa penserebbero se proprio oggi l’UE varasse un proprio esercito. Questo verrebbe immediatamente percepito dai paesi prossimi come una minaccia ed un fattore di instabilità.

In questo quadro c’è una specificità tutta italiana che merita attenzione. Chi sostiene la tesi che è l’invio delle armi ad aver aperto al possibile negoziato, sta affermando a chiare lettere che per l’Italia la guerra è un mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, creando un pesantissimo precedente non solo nella violazione della Costituzione, ma anche nel modo in cui il paese affronterà le crisi internazionali nel prossimo futuro.

È per queste ragioni che, tenendo in debito conto e massima importanza le novità che potrebbero nascere dal quadro politico, non va dimenticato il lavoro che ci attende. Il primo compito è il disvelamento della disinformazione mainstream e la costruzione di un polo di informazione (ed opinione pubblica) alternativo al quadro addomesticato con il quale facciamo i conti in questo periodo. Il secondo, molto più importante, la costruzione ed il radicamento di un movimento contro la guerra, capace di durare nel tempo. Non si tratta più di opporsi a questa o quella iniziativa bellica, ma di lavorare per impedire che le varie tappe della “guerra mondiale a pezzi” trascinino il mondo verso il baratro ed impediscano ad un mondo multipolare, con regole e sistemi democratici, di emergere.