di Marco Pondrelli
Sono lontani i tempi in cui la Germania era la locomotiva d’Europa, quando politici e giornalisti italiani ci invitavano a prendere esempio dalla capacità di Berlino di ‘fare le riforme’. In pochi si permettevano di mettere in dubbio questa bella favoletta, spiegando che in realtà le infrastrutture tedesche erano al collasso e che le tanto decantate riforme tedesche erano un miraggio dei nostri giornali.
Il sistema tedesco si è retto su due pilastri, da una parte le riforme di Schröder (hartz IV) si limitavano a tagliare i salari rendendo le merci tedesche più competitive, avendo l’euro impedito le svalutazioni delle monete nazionali. Dall’altra parte il sistema produttivo tedesco poggiava sul gas russo che aveva due preziose caratteristiche: era di ottima qualità ed economico. Questo secondo pilastro è venuto meno con le sanzioni volute da Washington dopo il 2022, il North Stream, come da minacce statunitensi, è stato colpito da un attentato e ha smesso di dare alle Germania energia a basso costo.
Berlino è vittima dalle scelte statunitensi, da locomotiva è divenuta la grande malata d’Europa. La Volkswagen si prepara a scelte drammatiche con chiusure di stabilimenti (almeno tre) e licenziamenti. È il caso più rilevante, ma non l’unico, che testimonia la crisi tedesca. Le banche potrebbero essere il prossimo pezzo del domino che rischia di cadere, oltre all’umiliazione di vedere una banca italiana tentare di acquistare Commerzbank, il rischio è che vengano messe in pericolo le fragili basi su cui poggia il sistema bancario nel suo complesso.
Questa crisi economica è già diventata politica, se nei periodi di vacche grasse la guida di Angela Merkel non era in discussione, oggi il governo Scholz è diventato la colazione dei perdenti. Le recenti elezioni in 3 länder dell’est hanno colpito i 3 partiti di governo e anche in parte la CDU, la quale, in Sassonia, ha assunto posizioni molto critiche verso il sostegno all’Ucraina. È qui tocchiamo il tema centrale, la guerra sta mettendo in ginocchio la Germania, questa è una guerra che gli Stati Uniti combattono contro Mosca ma anche contro Berlino. Washington sta colpendo l’industria tedesca, i capitali abbandonano l’Europa per andare verso gli USA e l’equilibrio geostrategico europeo si sta spostando sull’asse Londra (che non fa parte della Ue)-Varsavia.
Sarebbe facile limitarsi a commentare ‘chi è causa del suo mal pianga sé stesso’, la dura realtà è che la crisi tedesca sta arrivando in Italia. La deindustrializzazione avviata dagli anni ‘90 ci ha trasformato nei ‘controterzisti’ di Berlino e quindi questa crisi non sarà fermata dalle Alpi. Il calo degli occupati (-63 mila a settembre) è il primo campanello d’allarme, per quanto oggi la nostra situazione sia migliore di quella tedesca.
Oltre alla situazione economico-produttiva c’è però un’altra differenza fra Italia e Germania. In Germania sta nascendo e si sta articolando un’opposizione radicale a queste politiche. Non solo i sindacati sono pronti alla lotta contro le scelte del gruppo Volkswagen ma nelle recenti elezioni regionali il nuovo movimento di Sahra Wagenknecht ha ottenuto un importante risultato e l’ha ottenuto su proposte politiche chiare e nette, contro le politiche europeiste di austerità e contro le politiche guerrafondaie atlantiche (che in realtà sono la stessa cosa). Per quanto BSW sia ancora un’esperienza giovane essa sta minando il sistema tradizionale fatto di alternanza senza alternativa.
Certamente oggi è ancora difficile dare un giudizio complessivo di questa realtà ci sentiamo però di dire che l’accusa di rossobrunismo è la solita affermazione senza senso, valida per attaccare chi, pensiamo al recente caso di Ottolina Tv, si oppone alle politiche atlantiste. Se proprio vogliamo trovare dei rossobruni (ma la categoria forse andrebbe chiarita) è più facile trovarli fra chi canta ‘bella ciao’ e poi manda armi al battaglione Azov o fra chi si definisce antifascista e chiude gli occhi su Gaza.
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