La crisi della democrazia moderna. Editoriale

di Francesco Maringiò

Non è bastato lo spirito olimpionico a far cessare i tamburi di guerra. Anzi: l’avvicinarsi dell’apertura dei Giochi invernali di Pechino 2022 ha visto aumentare la pressione e le minacce di un inasprimento militare sul fronte orientale dell’Europa. L’Ucraina è diventata l’epicentro di una nuova escalation militare guidata dagli Stati Uniti con la complicità assoluta dell’Unione europea che in tutti questi anni ha taciuto sul golpe che ha rovesciato il governo Janukovyc e portando al potere bande che si ispirano apertamente al nazionalismo fascista ucraino ed al nazifascismo. Una rivoluzione colorata in pieno stile, avvallata e fomentata dalle cancellerie europee e dagli Stati Uniti, desiderosi di arruolare l’Ucraina dentro la Nato e spingere così le proprie truppe ed i sistemi missilistici al confine con la Federazione Russa. L’incessante campagna mediatica che descrive i russi come gli aggressori è solo l’ultima tappa di questa pericolosa corsa verso il baratro e per la quale occorre riprendere una vasta mobilitazione contro la guerra, prima che sia troppo tardi.

Tuttavia non bisogna fermarsi solo a questo. Bisogna prendere consapevolezza che è la natura stessa della guerra ad essere cambiata nel corso degli ultimi decenni. Ce lo spiegano bene esponenti del pensiero strategico cinese come i generali Qiao Liang e Wang Xiangsui che ci invitano a considerare la guerra moderna come uno scontro in campi tra loro diversissimi (comunicazione, nuovi mass media, flussi di investimenti) che ha come obiettivo non più (o non solo) la conquista di un territorio ma l’interruzione dell’afflusso di investimenti internazionali verso la regione colpita (o sanzionata) ed il rientro del capitale in fuga nei mercati americani, con l’obiettivo di mantenere egemone il ruolo del dollaro (e degli Usa) nel mondo. Quindi, quello a cui stiamo assistendo è già guerra, non c’è bisogno che si levino i missili per considerare aperte le ostilità. La crisi in Ucraina si approfondisce per colpire la Federazione Russa ed aumentare la fuga di capitali da questo paese, oltre che per colpire l’Europa. A conferma di quanto scriviamo ci vengono in soccorso i dati, che registrano un calo di 20 volte degli investimenti esteri in società russe nel 2020, il peggiore dalla metà degli anni Novanta. Gli investimenti in titoli di società sono diminuiti di 14,1 mld $ ed i capitali in uscita nel secondo trimestre hanno superato quelli dell’intero 2019 (Dati della Banca Centrale di Russia, riportati da Lettere da Mosca). Per quanto riguarda l’Europa è fin troppo evidente che questo conflitto latente ha lo scopo di evitare lo sviluppo di una cooperazione a lungo termine con Mosca che possa portare all’emergere di un continente eurasiatico e, nell’immediato, influenza i flussi di capitali ed aumenta il costo dell’energia con pensanti ripercussioni non solo sui cittadini e la loro già scarsa capacità di spesa, ma anche sulla manifattura del continente. Si spiegano così le ragioni della competizione inter imperialistica tra la Germania e gli Stati Uniti.

La lotta contro questa nuova guerra (che è al tempo stesso una nuova guerra “fredda” ed “ibrida”) deve rappresentare il terreno prioritario dell’impegno dei comunisti, capace di riconoscere che la contraddizione principale del nostro tempo è quella che vede l’imperialismo attaccare l’area auro-asiatica, imperniata sull’alleanza tra Cina e Russia, garante dell’ascesa del multipolarismo nel mondo e nelle relazioni internazionali.

Con la rielezione di Sergio Mattarella a Presidente della Repubblica abbiamo assistito ad un cambio profondo della Costituzione materiale di questo Paese. Per dirla con le parole di Luciano Canfora: «in questo scenario, che si è determinato negli ultimi 20-25 anni, è fondamentale conquistare il Quirinale (…) [che] è diventato un potere preponderante (…) il Capo dello Stato ha come appendice la carica di primo ministro che guida governi che legiferano, mentre il Parlamento in ginocchio dice “signorsì”» (Fonte: La Stampa, 31/1/2022). È quindi una tendenza di medio periodo, che inizia almeno a cavallo degli anni Novanta quando, con l’attacco al sistema dei partiti (causa/effetto di Tangentopoli), un drastico e rovinoso cambio nei rapporti di classe e di forza a livello internazionale (con la sconfitta dell’Urss e del blocco delle democrazie popolari) e la sostanziale subordinazione al processo di integrazione europeo, si è sostanzialmente cancellato lo spazio per la politica, che è per sua natura conflitto e rappresentazione di interessi particolari. Tutte le riforme istituzionali (non ultimo il taglio dei parlamentari), le forzature istituzionali (governi “tecnici”, governi “del presidente”, …) e la riduzione al silenzio del conflitto sociale hanno determinato le condizioni per cui dello schieramento parlamentare fanno parte unicamente esponenti di quello che Gramsci chiamava il «partito unico articolato». Esso assume oggi la forma di un monopartitismo competitivo con i partiti politici ridotti a correnti di un unico largo partito liberale, che ricevono il suffragio da una frazione della società sempre più ristretta numericamente quanto connotata da un punto di vista di classe. Tale processo sta producendo una progressiva «autoesclusione dallo spazio politico dei gruppi sociali che si trovano ormai nella duplice condizione di socialmente deboli e politicamente non rappresentati» (Luciano Canfora, La democrazia dei signori, Edizioni Laterza 2022). Espunti i rappresentati delle classi subalterne, il conflitto politico (ed istituzionale) nasce da una dialettica traversare ai partiti che riflette uno scontro che c’è nel Paese tra una frazione di una borghesia i cui interessi sono legati alla dimensione nazionale del proprio profitto ed un’altra internazionalizzata e legata maggiorante al capitale finanziario transazionale. Quella che sta vincendo lo scontro, dettando l’agenda politica, è questa seconda ed è quella che ha in Draghi ed in una riforma presidenzialista del sistema il suo manifesto programmatico. Ma la partita è tutt’altro che chiusa.

Per i popoli europei, la sconfitta del campo socialista non ha portato con sé soltanto ad un cambio di rapporti di forza a sfavore delle classi subalterne, alla distruzione di welfare e ricchezza, ad un arretramento delle condizioni materiali di vita e di lavoro della classe operaia, ma ha reso impossibile una declinazione in chiave democratica dello stesso liberalismo, che oggi pare voler archiviare quelle forme di convivenza civile alle quali siamo stati abituati nei decenni passati e voler impedire ogni forma di riconoscimento del conflitto (quindi della politica tout court) e delle classi subalterne.

Nell’editoriale della scorsa settimana il Direttore Marco Pondrelli sottolineava come «fuori dal Parlamento il malessere è sempre più forte, [e che] continua però a mancare una forza politica che riesca a trasformare il disagio sociale in proposta e lotta politica». Tale alternativa non può prescindere dalle cause profonde che portano alla crisi della democrazia liberale moderna, sia nella declinazione internazionale che nella gestione dei singoli stati nazionali. Volgendo lo sguardo al nostro paese, si avverte la debolezza strutturale delle forze comuniste e di alternativa nel fornire una risposta strategica alla crisi in corso e nel raccogliere sufficiente massa critica nella società, in grado di incidere concretamente nei processi reali e di classe del nostro paese. L’auspicio è che si superi questa fase di frammentazione e competizione nella costruzione di un fronte politico e sociale che faccia, della mobilitazione contro la nuova guerra fredda ed ibrida e nella difesa della Costituzione del ’48, l’impegno prioritario per una lunga stagione di lotta politica.