pubblichiamo la prefazione al libro di Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese, appena pubblichiamo dalle edizioni MarxVentuno
di Vladimiro Giacché
Credo che il modo migliore per introdurre alla lettura di questo libro di Cheng Enfu sia partire da un’osservazione contenuta nella prefazione di John Bellamy Foster all’edizione inglese: “Per i marxisti occidentali, ciò che probabilmente sarà più sorprendente è l’approccio poliedrico al marxismo mostrato in tutta quest’opera”. Foster ha ragione. Uno dei motivi di interesse di questo libro è il fatto di avvicinarci a un uso del marxismo dalle molte sfaccettature, e comunque molto diverso da quello al quale siamo abituati in Occidente. In effetti, le distanze che separano il marxismo occidentale dal marxismo cinese sono notevoli a più riguardi. In un mio saggio recente le ho compendiate così:
Primo, un diverso approccio al pensiero di Marx e di Engels. Questo pensiero è considerato in Cina quale una organica visione del mondo e al tempo stesso un metodo utilizzato come guida per la prassi. Per contro, il marxismo occidentale si è ormai abituato a dissezionare il pensiero di Marx e di Engels per poi rivolgere la propria attenzione ad aspetti specifici, sovente molto particolari, di quel pensiero. Ciò viene fatto dando per scontato che non esista qualcosa come “il marxismo”, ma un pensiero di Marx – a sua volta articolato in diverse fasi – ben distinto da quello di Engels e dei successivi esponenti della tradizione che a Marx si richiama: e che ogni considerazione del marxismo quale corpusteoretico unitario sia pertanto un’operazione indebita e priva di valore sul piano scientifico.
Secondo, la diversità dei temi posti in primo piano, che in parte deriva da un diverso atteggiamento nei confronti del rapporto tra teoria e prassi (tuttora molto stretto in Cina, mentre […] in Occidente è quasi ovunque venuto meno – ormai da decenni – un rapporto organico tra pensiero marxista e prassi politica).
Terzo, una differenza di contesto: il marxismo è adoperato nella Cina post-rivoluzionaria come una guida per la costruzione della società socialista, anziché, come accade in Occidente, come la base teorica per una analisi critica dei rapporti di produzione capitalistici.i.
Nell’opera di Cheng questi aspetti sono tutti presenti, ma risaltano in particolare il primo e il terzo.
Quanto all’approccio al marxismo, è molto chiara già l’introduzione, in cui il marxismo è inteso come un “sistema teorico” che è stato “iniziato da Marx ed Engels e, da allora, è stato gradualmente sviluppato e migliorato dai loro successori” [pp. 40-41]. Cheng propone una concezione “olistica” del marxismo, che va studiato “nel suo insieme”, al fine di “correggere le carenze dei precedenti studi di argomenti isolati e approfondire la nostra comprensione” [p. 43].
Concezione “olistica” non significa però piegare lo studio del marxismo a esigenze politiche: “il marxismo politico – afferma Cheng – non può essere usato per sostituire il marxismo accademico” [p. 50]. E non significa neppure che il marxismo possa essere inteso come un corpus di dottrine ossificato, dato e fissato una volta per tutte, che si tratterebbe soltanto di “applicare”. Al contrario: “i principi di base del marxismo possono essere arricchiti, ampliati e modificati attraverso lo sviluppo della pratica o l’approfondimento della comprensione teorica. È possibile, per esempio, sviluppare la teoria del valore-lavoro di Marx, la teoria del plusvalore, la teoria della riproduzione, ecc., così come è possibile sviluppare le teorie di Lenin sull’imperialismo, lo Stato e la rivoluzione. Allo stesso modo, è possibile introdurre innovazioni nella teoria dello stadio primario del socialismo, nella teoria dell’economia socialista di mercato, e così via” [p. 61].
Queste ultime osservazioni sono di grande importanza. La teoria dello stadio primario del socialismo e il concetto di economia socialista di mercato rappresentano in effetti – come osservavo nello scritto già citato – altrettanti esempi di “innovazione nella tradizione” marxistaii. La teoria dello “stadio primario del socialismo” rinvia alla riformulazione del concetto di socialismo, concepito come una fase relativamente lunga: questa riformulazione è stata proposta, nella tradizione marxista cinese, da Deng Xiaoping.iii Ma anche il concetto di “economia socialista di mercato” (o “socialismo di mercato”) rappresenta un’innovazione rispetto alle teorie di Marx ed Engels, i quali prevedevano la fine della produzione mercantile sin dalla prima fase del comunismo – quella fase che da Lenin in poi sarebbe stata designata col termine di “socialismoiv.
Entrambe le innovazioni sono ora approfondite e sviluppate da Cheng Enfu negli scritti raccolti in questo libro. In particolare, lo “stadio primario del sistema economico socialista” è definito nei termini seguenti: “una varietà di proprietà pubblica come corpo principale (con la proprietà privata come corpo ausiliario) + la distribuzione orientata al mercato secondo il proprio lavoro come corpo principale (con la distribuzione secondo il capitale come corpo ausiliario) + l’economia di mercato guidata da piani nazionali” [p. 59]. A questo stadio seguono due ulteriori fasi del socialismo (“stadio intermedio” e “stadio avanzato”) prima di arrivare al “comunismo” [p. 58].
Allo “stadio primario”, nel quale la Cina si trova attualmente e che rappresenta una delle possibili declinazioni dell’“economia socialista di mercato”, Cheng Enfu dedica gran parte delle riflessioni contenute in questo libro.
[…]
Un sistema aperto e autosufficiente
Una volta esaminate le leggi dell’economia di mercato guidata dallo Stato che connotano per Cheng lo stadio primario del socialismo, possiamo passare alla quarta e ultima caratteristica di tale stadio: “un sistema aperto multiforme autosufficiente” [p. 78]. Nel pensiero di Cheng l’apertura è immediatamente contemperata con l’autosufficienza. Già da questo possiamo capire come egli quanto all’“apertura” sia più cauto di altri studiosi cinesi. Il punto di vista di Cheng è espresso senza mezzi termini in questo passo: “Al fine di gestire correttamente la relazione tra l’apertura completa e reciproca, la sicurezza economica e il benessere del popolo man mano che si costruisce il sistema di apertura, la Cina deve eliminare l’atto insensato di aprire per il gusto di aprire. Per aprire efficacemente l’economia reale è necessario implementare in modo completo una strategia di sviluppo guidata dall’innovazione, incentrata sull’innovazione indipendente con caratteristiche cinesi” [p. 197; corsivo dell’autore].
Il richiamo all’“innovazione indipendente” non è estemporaneo; esso trova la sua radice nella “teoria dei vantaggi dei diritti di proprietà intellettuale indipendenti” sviluppata dallo stesso Cheng (vedi in proposito [p. 293]. Questa teoria che colloca il nostro autore su una posizione opposta a quella di un altro importante economista cinese, Justin Yifu Lin, il quale – lo ricorda lo stesso Cheng – ha esortato la Cina “a prendere le misure necessarie per evitare di cadere nella trappola dell’innovazione indipendente” [p. 292].
Il dibattito che fa da sfondo a questa controversia vede contrapporsi due modelli di sviluppo che sono stati nel tempo abbracciati dai paesi emergenti: quello che vede la leva più efficace per lo sviluppo nella sostituzione delle importazioni (attraverso la creazione di autonome capacità produttive), e quello che ritiene molto meno costoso e più profittevole comprare la tecnologia anziché produrla ex novo. Cheng contesta quest’ultimo punto di vista, teorizzato da Justin Yifu Lin nel suo Demystifying the Chinese Economyv, ritenendo che esso esprima “un’errata lettura del concetto di apertura come sostituto dell’innovazione”. Cheng reputa ad esempio l’apertura dell’industria automobilistica cinese “un evidente fallimento” e quella dell’industria aeronautica “un fallimento ancora più grande”. A questi due esempi negativi egli contrappone quello dei sistemi ferroviari ad alta velocità: “Un caso in cui questa visione errata è stata contrastata con successo è rappresentato dalla R&S e dalla produzione di sistemi ferroviari ad alta velocità. Il ministero delle ferrovie ha preso l’iniziativa di rompere il monopolio tecnologico di alcune grandi compagnie occidentali. L’alta velocità ferroviaria è diventata così uno dei biglietti da visita internazionali del Made in China” [p. 291; corsivi dell’autore].
Vi è però un genere di apertura su cui le posizioni dei due autori sono molto più vicine, come lo stesso Cheng riconosce [vedi ad es. p. 308]: si tratta della liberalizzazione dei movimenti di capitale. Cheng individua precisamente nella mancata apertura completa dei movimenti di capitale, nel mantenimento del controllo su di essi, “una delle ragioni più importanti” per cui la Cina ha evitato difficoltà alle quali sono andati incontro altri Paesi emergenti negli ultimi decenni [p. 515].
Conclusione
Ho voluto riproporre alcune tra le più importanti tesi di Cheng Enfu integrandole con qualche riferimento al loro sfondo teorico e al dibattito entro cui si inseriscono, da un lato per aiutare il lettore a meglio orientarsi nel testo, dall’altro per porre in evidenza la tradizione all’interno della quale Cheng consapevolmente si colloca. È a partire da questa peculiare tradizione, quella del marxismo nella sua recezione cinese, che Cheng si confronta con le teorie economiche egemoni in Occidente, senza forzature propagandistiche ma senza alcun complesso di inferiorità teorica. Ritengo che questo sia l’approccio corretto per quel confronto tra sistemi, modelli e soluzioni ai problemi economici del nostro tempo che è oggi quanto mai necessario, non solo in Cina.
Non è qui possibile approfondire i numerosi ulteriori spunti che si potrebbero ricavare dalla lettura di quest’opera. Vale però la pena, conclusivamente, di accennare almeno a un’altra caratteristica importante di questo libro. Si tratta dello schietto riconoscimento dei problemi che l’economia cinese si trova oggi ad affrontare, quali l’eccesso di capacità produttiva (ad esempio nelle industrie del carbone, dell’elettricità e dell’acciaio) [p. 180; 257], o l’insufficiente sviluppo dei consumi privati. Con riferimento a quest’ultimo problema, è importante osservare che Cheng non si limita ad attribuirne l’origine soltanto all’elevato tasso di risparmio cinese (spiegazione oltretutto pericolosamente prossima a una tautologia). Al contrario: un’importante causa del livello relativamente basso dei consumi privati è individuata da Cheng in problemi distributivi, a loro volta legati ai rapporti di proprietà (“il consumo dipende dalla distribuzione, e la distribuzione dipende dai diritti di proprietà”, p. 389). In questo modo Cheng fa direttamente i conti con la presenza rilevante di forme di proprietà capitalistica in Cina. Inoltre, un’altra causa dei consumi privati poco elevati è ravvisata nella diminuzione della “propensione marginale dei cittadini al consumo”, a sua volta occasionata dall’insufficienza dei sistemi di welfare: le “riforme orientate al mercato” degli scorsi decenni hanno infatti caricato direttamente sui cittadini gli oneri relativi a svariate prestazioni sociali [p. 411].
Questi problemi sono evidentemente riconducibili alla dialettica tra “mercato” e “governo” dell’economia che attraversa la Cina contemporanea. Cheng ritiene che “la differenza cruciale tra socialismo e capitalismo come sistema economico di base si manifesti nella struttura della proprietà sociale dei mezzi di produzione”, cioè nel fatto che un’economia mista “sia dominata dal capitale pubblico o dal capitale privato” [p. 494]. Se si accetta che questo sia il discrimine tra socialismo e capitalismo, è senz’altro lecito definire la Cina come “socialista”vi. Ma è la compresenza stessa delle due forme di capitale entro un unico sistema economico a determinare non soltanto i problemi distributivi visti sopra, ma, più in generale, una vera e propria sfida per l’egemonia all’interno della formazione economico-sociale cinese contemporanea. Questa sfida è tuttora aperta. L’opera di Cheng può essere letta, non da ultimo, come una presa di posizione a favore del predominio del “capitale pubblico” nel contesto di questa sfida.
Note:
i V. Giacché, Quattro priorità per rilanciare il marxismo in Occidente, «MarxVentuno», n. 3, luglio-settembre 2022, p. 195.
ii Ivi, p. 197.
iii Deng Xiaoping, Excerpts from talks given in Wuchang, Shenzhen, Zhuhai and Shanghai [1992], in Selected Works of Deng Xiaoping, vol. III (1982-1992), Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 367. Questa formulazione cominciò a circolare dal 1981, per essere infine sancita, su iniziativa di Deng Xiaoping, col XIII Congresso del Partito Comunista, svoltosi nel 1987.
iv Ho approfondito questo tema in: V. Giacché, La fine della produzione mercantile nella “Critica al Programma di Gotha” di Marx. Vicende novecentesche di una teoria, in Marx200, a cura di Francesco Cerrato e Gennaro Imbriano, Mucchi Editore, Modena 2018 [numero monografico di «Dianoia. Rivista di filosofia del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna», n. 26, giugno 2018], pp. 203-221; V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Dühring di Friedrich Engels, in «MarxVentuno» n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125.
v Justin Yifu Lin, Demystifying the Chinese Economy, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 14 sgg. e passim.
vi Per una più articolata trattazione del tema rinvio a V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, op. cit., pp. 66-67 e passim.
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