di Luca Cangemi
I giorni immediatamente precedenti la nuova, drammatica, fase della situazione internazionale sono stati segnati da un fatto sociale e politico di grande rilievo: il riproporsi di una vasta e articolata mobilitazione studentesca su scala nazionale. Oggi che questo fatto, come ogni altra questione che riguarda la condizione reale del paese, è sommerso dal totalizzante orizzonte bellicista proposto dall’enorme maggioranza dei mezzi di comunicazione di massa, è forse il caso di ritornarci.
E’ necessario infatti non solo contrastare le posizioni di “merito” delle classi dominanti e della loro stampa, dobbiamo contrastarne anche l’“agenda setting”, cioè la scelta delle questioni che esistono nello spazio pubblico e di quelle che vengono completamente rimosse.
Può essere quindi utile provare a ragionare sul significato di questo segnale, che arriva dalla parte più giovane della società italiana.
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“La pandemia è stato come uno di quegli evidenziatori gialli che usiamo a scuola, ha messo in risalto i problemi” dichiara già ad ottobre uno studente che spiega l’occupazione del liceo Righi. Ed è proprio così. Il Covid ha infatti reso evidenti (e dirompenti) le contraddizioni di una lunga stagione di tagli e controriforma del sistema dell’istruzione: l’insufficienza degli organici di docenti e personale tecnico-amministrativo (e la loro precarizzazione), le carenze delle strutture (basti pensare che larga parte del patrimonio edilizio scolastico in uso non rispetta le norme di sicurezza elementari, dalle verifiche antisismiche alle norme antincendio), ma anche una più generale crisi di senso degli studi, frammentati dalla logica del progetto, svuotati dall’ideologia delle competenze e dell’Invalsi. Certo, il lavoro generoso di migliaia di insegnanti rende ancora la scuola pubblica italiana lo spazio di cultura e socialità più importante presente nel paese (e in molti territori anche l’unico) ma è fortissimo e quotidiano il senso di un progressivo arretramento. La fase pandemica ha, appunto, accelerato i processi anche a causa di gravissime scelte governative.
Su queste scelte e sul loro significato è necessario fermarsi un attimo: la nascita del governo Draghi e l’arrivo al ministero dell’istruzione di Patrizio Bianchi hanno significato una operazione propagandistica in grande stile sulla scuola – grazie anche ad una stampa servile ed ignorante – del tutto priva di contenuto rispetto agli investimenti e alla soluzione delle annose questioni aperte. Quello che invece ha effettivamente operato, dietro la cortina fumogena degli annunci e della retorica paternalistica di Bianchi, è stata un rilancio in grande stile del progetto di controriforma della scuola che aveva avuto nella legge renziana del 2015 il suo quadro più definito. Dal curriculum dello studente agli ITS (una sorta di formazione postdiploma privatizzata), dal liceo quadriennale all’incredibile disegno di legge sulle soft skills il “governo dei migliori”, anche utilizzando la leva del PNRR, ha prodotto un’accelerazione repentina verso un modello di scuola confindustriale, disegnato ormai da tempo dai pensatoi padronali (a partire dalla Fondazione Agnelli).
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È stato, dunque, sui problemi materiali evidenziati dal Covid (fronteggiato dal ministero con provvedimenti ipocriti e inefficaci) che sin da ottobre si è manifestata una mobilitazione studentesca crescente con numerose scuole occupate, in particolare nella capitale.
Già in questa fase iniziale delle mobilitazioni, da ottobre a dicembre, si manifesta una risposta repressiva assai forte sia con interventi polizieschi negli istituti, sia con duri provvedimenti disciplinari.
Di questo atteggiamento di repressione vi è persino un “documento teorico” ufficiale: la lettera spedita a dicembre dal direttore generale dell’Ufficio Scolastico Regionale del Lazio ai presidi, in cui, con un durissimo linguaggio, si invitano i dirigenti scolastici a sollecitare l’intervento della polizia contro le occupazioni, ad erogare la sanzioni previste dai regolamenti interni, ad usare il voto di condotta in modo punitivo verso i ragazzi e le ragazze che protestano. Una prosa della repressione usata da un alto dirigente dello stato nei confronti di adolescenti, assai significativa della “cultura istituzionale” dominante.
Nonostante questo sforzo repressivo il movimento non si è fermato, pur non essendo ancora presente in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale alla data di interruzione delle lezioni per la pausa natalizia. Insieme alla capacità di durare è importante notare, in questa fase, un progressivo allargamento degli orizzonti per cui, accanto alla richiesta di soluzioni vere ai tanti problemi aperti, si è dispiegata, più o meno esplicitamente, una critica generale al sistema scolastico e alle sue linee di sviluppo.
E già in questa fase viene ripresa una elaborazione che indicava l’alternanza scuola/lavoro come elemento centrale, politico e simbolico, della controriforma della scuola. Un’elaborazione che proviene dal grande movimento degli insegnanti contro la buona scuola renziana ed è poi passata al tessuto di gruppi studenteschi che si è sviluppato negli ultimi anni.
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Perché essere contro l’alternanza?
Potremmo cavarcela con una battuta: di alcune, poche, cose eravamo sicuri nel passato, pur nella critica ai limiti della scuola italiana; una di queste era che l’istruzione pubblica è un’alternativa al lavoro minorile. Con l’alternanza la scuola pubblica diventa veicolo e palestra di lavoro minorile.
Sul piano politico è assai significativo il ruolo sistemico che l’alternanza ha assunto nella visione di Confindustria e la forza con cui essa ha imposto ai vari governi questa centralità.
È forse opportuno ricordare che il M5s che nel 2018 aveva preso molti voti nel mondo della scuola promettendo l’abolizione dell’alternanza (così come dell’intera legge 107), giunto al governo virò rapidamente per un semplice cambio di nome -straordinaria soluzione all’italiana – e così l’alternanza nei documenti ministeriali ha iniziato ad essere definita PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) e tutto è continuato come prima, peggio di prima.
Ancor più opportuno è sottolineare la clamorosa circostanza per cui i governi hanno interrotto per mesi, durante la fase pandemica, tutte le attività scolastiche in presenza tranne il PCTO. E qui il marchio confindustriale è veramente inconfondibile.
Perché la Confindustria è così innamorata dell’alternanza scuola lavoro? Vi sono risposte a più livelli: la prima risposta, assai banale ma vera, è che numerosi progetti di PCTO per aziende di vario tipo rappresentano la gentile offerta di lavoro gratuito. La seconda risposta, più sistemica e decisiva, è che viene istituito nel cuore della formazione delle giovani generazioni una precoce esperienza di sfruttamento, che diventa un’iniziazione ad un destino sociale.
Quanto descritto vale soprattutto per il grande mondo dell’istruzione tecnica e professionale; vie è poi, soprattutto nei licei, un altro aspetto dell’alternanza: la pura perdita di tempo, progetti bizzarri, piccole speculazioni o anche attività interessanti ma che potrebbero essere fatte ugualmente e che invece vengono chiamate PCTO perché, in qualche modo, nei registri devono figurare le ore obbligatorie di PCTO.
Vi è infine anche un’esperienza estrema e poco conosciuta, ma assai significativa: potremmo definirla l’alternanza scuola/caserma. Crescono e sono spinti da protocolli ministeriali i progetti di PCTO in strutture militari (caserme, uffici ma anche basi aeree e navali). Qui lo strumento di introduzione allo sfruttamento si coniuga con la legittimazione della guerra e con i processi di militarizzazione degli apparati formativi, così bene analizzati da Antonio Mazzeo. E che oggi vediamo in una luce diversa.
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A gennaio, pochi giorni dopo la ripresa delle lezioni, segnata da preoccupazioni e polemiche per la nuova ondata di covid, una tragedia straziante obbliga ad una riflessione. Lorenzo uno studente di 18 anni muore in un incidente sul lavoro in una fabbrica metalmeccanica del Friuli. Lorenzo frequentava non una scuola statale, bensì un corso gestito dalla regione, ma il messaggio che passa nel movimento studentesco è chiaro: non si deve più consentire che lo spazio di vita dell’istruzione sia trasformato in tempo rapinato dal sistema delle imprese. La mobilitazione è immediata, in varie città e a Roma si scontra di nuovo contro una repressione poliziesca assai dura.
Qualche settimana dopo un’altra tragedia, assai simile a quella di Lorenzo, avviene nelle Marche: Giuseppe, un sedicenne, muore mentre si reca al lavoro, nell’ambito del solito corso regionale.
Le grandi giornate di lotta del 28 gennaio e del 18 febbraio, con cortei in tutta Italia, rappresentano l’assunzione di un carattere compiutamente nazionale del movimento e anche la sua capacità di rompere il silenzio mediatico.
Avviene anche, grazie al movimento, un fatto di notevole importanza: nel mondo intellettuale, finora abbastanza indifferente a questi temi (l’attenzione fu scarsa persino di fronte alle grandi mobilitazioni del 2015) si levano diverse voci che, a partire dalla questione dell’alternanza, chiedono di riesaminare criticamente il rapporto tra istruzione e impresa. Finalmente si riapre una discussione su posizioni che il pensiero dominante ha, in questi anni, imposto in modo totalizzante.
Certo oggi, di fronte ad una fase sovradeterminata dalla tensione internazionale, bisognerà vedere come si svilupperà la mobilitazione studentesca, quali relazioni riuscirà ad intessere con altre esperienze di lotta (a partire dallo straordinario rapporto con la GKN) e con le altre componenti del mondo della scuola. Resta il valore generale di quello che è accaduto in questi mesi, la riproposizione di un movimento delle giovani generazioni su un terreno direttamente di classe è un passo di eccezionale rilievo. A tutti, anche ai non più giovani, il compito di studiare e operare per fare altri passi.