I referendum e la politica. Editoriale

di Marco Pondrelli

Domenica 12 giugno gli italiani saranno chiamati ad esprimersi su 5 referendum. Nello specifico ci dovremo esprimere sulla necessità dei magistrati che vogliono candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura di raccogliere 25 firme, sull’incandidabilità dei condannati (la cosiddetta legge Severino), sull’abolizione della norma che prevede la non partecipazione dei componenti avvocati e professori universitari dei Consigli giudiziari alle deliberazioni riguardanti lo status dei magistrati ordinari, sulla separazione delle carriere fra magistratura inquirente (Pubblico Ministero) e giudicante (Giudice) ed infine sulla limitazione della custodia cautelare.

Questo non vuole essere un consiglio su come votare ma una riflessione più generale sulla crisi della politica e quindi della democrazia. Partiamo dallo strumento referendario, esso venne utilizzato per la prima volta nel ’46 segnando la nascita della Repubblica, passarono quasi 30 anni perché venisse utilizzato nuovamente, quando gli italiani si espressero sulla legge per il divorzio.

Lo strumento è stato utilizzato, sopratutto dai radicali, come arma di pressione sul Parlamento e in un ottica anti-Partito (basti pensare alla proposta di abolizione del finanziamento pubblico dei partiti presentato per la prima volta nel 1978).

I costituenti hanno previsto questo strumento come strumento eccezionale perché la nostra Costituzione delinea i contorni di una democrazia rappresentativa e non diretta. Il referendum si presenta come il massimo della democrazia, gli elettori si esprimono e decidono bypassando partiti e Parlamento. È lo stesso argomento utilizzato da chi chiede il presidenzialismo e il maggioritario uninominale, cosa c’è di più democratico di permettere agli elettori di scegliere il proprio Presidente, magari aumentandneo anche i poteri. Era il mantra rispetto ad un altro referendum quello Segni-Occhetto-Confindustria sull’introduzione del maggioritario, allora si diceva: si vota, si sceglie un governo e dopo 4 o 5 anni si giudica il lavoro di questo governo. Questa posizione è l’esatto opposto di una democrazia rappresentativa e partecipata, sarà un caso che con l’introduzione di queste riforme e con l’abuso dello strumento referendario il numero di votanti è costantemente calato? Come spesso accade gli elettori sono più avanti di chi li rappresenta, hanno capito che quello referendario è solo un simulacro della democrazia, un inganno.

Jean-Jacques Rousseau diceva che gli inglesi si credevano liberi ma in realtà erano liberi solo il giorno del voto poi tornavano sudditi, non perché avessero un re ma semplicemente perché avevano consegnato il potere sovrano a qualcun’altro. La soluzione non è la democrazia diretta, tantomeno se realizzata su piattaforme virtuali, la soluzione è la partecipazione popolare. I Partiti per molti anni sono stato questi, un canale di partecipazione che permetteva ai cittadini, anche quelli meno preparati, di capire ed intervenire sulla scelte politiche. La democrazia di massa è stata lo strumento con cui la classe operaia ha influito sulle decisioni politiche non più appannaggio di una ristretta élite di possidenti ma permeabile alla volontà popolare.

Il modello statunitense verso cui tanta parte della politica spinge è il contrario di questo, è tornare alla politica censitaria con la differenza che formalmente il voto non è negato a nessuno ma nella sostanza sono le classi più deboli ad essere escluse.

Dei 5 referendum proposti quello sulla legge Severino è quello che mette a nudo queste contraddizioni. Durante i drammatici mesi del governo Monti il Parlamento, a larghissima maggioranza, votò una legge per impedire ai condannati di candidarsi o di ricoprire incarichi governativi. Questa legge ha colmato un vuoto della politica, perché così come è vero che ci sono stati in Italia politici inquisiti o condannati per reati gravi che continuavano a ricoprire il proprio incarico e anche vero che non tutti i reati possono essere assimilati così come non tutte le vicende umane possono essere equiparate all’avere rapporti con la mafia o all’accettare tangenti. La verità è che una politica sempre più impaurita non è più stata capace scegliere i propri candidati. Il PCI sapeva organizzare le preferenze e fare eleggere chi doveva essere eletto ma è anche vero che per essere candidati occorreva essere preparati, non si passava dal nulla al Parlamento, c’erano le sezioni, i consigli comunali, le cariche amministrative tutto questo contribuiva a formare chi arrivava in Parlamento e se si veniva candidati lo si era perché si rappresentava un pezzo di società.

La politica che sa assumersi le proprie responsabilità che sa anche fare scelte che possono non essere premiate dai sondaggi ma lo fa perché ha un progetto superiore all’orizzonte elettorale, preoprio quello che manca oggi.

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