di Francesco Galofaro, Università IULM
Con i toni più concilianti e l’approccio più politically correct che si possa immaginare, l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch ha invitato il governo ucraino a “indagare sull’uso apparente da parte dei suoi militari di migliaia di mine antiuomo lanciate da razzi dentro e intorno alla città orientale di Izium quando le forze russe hanno occupato l’area” (qui). La ONG fornisce anche la documentazione fotografica relativa agli ordigni, che portano il poetico nome “mine a farfalla” o “mine a petalo”, oltre a riportare numerose testimonianze della popolazione civile. L’Ucraina utilizza queste armi in violazione degli accordi internazionali, avendo aderito al Trattato di messa al bando delle mine del 1997. Secondo Steve Goose, direttore della divisione armi di Human Rights Watch, le mine usate dagli ucraini avrebbero già causato vittime tra i civili, oltre a ostacolare gli aiuti alla popolazione dopo che i russi hanno abbandonato la città. Gli sminatori hanno stimato che potrebbero volerci decenni per ripulire la zona dalle mine antiuomo oltre che dagli altri ordigni inesplosi. A fronte di un’interrogazione presentata da Human Rights Watch, il 23 novembre, il ministero della Difesa ha risposto per iscritto che “le informazioni sui tipi di armi usate dall’Ucraina non devono essere commentate prima della fine della guerra”.
Ovviamente, nella denuncia HRW ricorda che anche la Russia avrebbe utilizzato in passato le stesse mine. È comprensibile che l’organizzazione non voglia essere accusata di collateralismo con Putin; tuttavia, come si suol dire, due torti non fanno una ragione. È privo di logica oltre che immorale accusare tutti i giorni la Russia di ogni sorta di crimine di guerra e scusare l’Ucraina quando è colta in flagrante a fare altrettanto, col pretesto che si comporta così anche l’altra parte.
Come italiano, i crimini ucraini e russi mi coinvolgono in modo diverso: il mio Paese non è infatti super partes ma sostiene l’Ucraina contro la Russia attraverso l’invio di armi, adottando sul conflitto in atto un punto di vista manicheo per il quale Zelensky e i suoi alleati della NATO hanno tutte le ragioni, Putin tutti i torti. Neanche un mese fa, il 5 gennaio, la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, aveva accusato l’Italia di aver fornito mine antiuomo a Kiev. Il ministro Crosetto aveva puntualmente smentito, nonostante la documentazione fotografica fornita dall’ambasciata russa. Secondo Crosetto si tratterebbe di mine “prodotte da altri Paesi su licenza”. Certamente, il segreto sulle armi che forniamo all’Ucraina non aiuta certo a fugare i dubbi. Ad ogni modo, che il nostro Paese sia coinvolto o meno, dopo le dichiarazioni di Human Rights Watch, sembra ormai molto chiaro che i nostri alleati ucraini, i “buoni”, stanno minando quello che teoricamente è il loro stesso Paese e che rivendicano come “patria” contro l’annessione russa.
Certo la guerra non rende più intelligenti. Così, le mine gettate contro l’esercito russo si ritorcono contro quello ucraino, dopo il ritiro del primo. Tuttavia, il problema non è certo la stupidità dei comandi ucraini, ma il reale atteggiamento del governo di Kiev nei confronti della popolazione dell’Ucraina orientale, sul quale pesano molte ombre. Nonostante i proclami dei nazionalisti, infatti, l’Ucraina non è mai stato uno stato omogeneo da un punto di vista linguistico, etnico e religioso; così, con la copertura della guerra, i monasteri ortodossi vengono sequestrati e consegnati ai preti del nuovo cristianesimo di Stato promosso da Kiev; dal 2014 l’Ucraina discrimina le minoranze russe non riconoscendo la loro lingua, rendendo obbligatorio l’uso dell’ucraino nelle scuole e perfino nelle campagne elettorali e vietando – nell’Oblast’ di Leopoli – film, libri e canzoni in russo. Con questi precedenti, l’utilizzo di mine antiuomo senza farsi scrupoli nei confronti della propria popolazione spinge a chiedersi se Kiev non consideri “ucraini” solo i territori orientali e non le persone che li abitano.
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