Delitto senza castigo: sul recente attentato di San Pietroburgo

di Francesco Galofaro, Università IULM di Milano

Apro questo articolo pasquale con una considerazione che Simone Weil inviò allo scrittore Georges Bernanos, in cui racconta la drammatica esperienza della guerra civile spagnola: «ho avuto la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno separato una categoria di esseri umani da coloro per i quali la vita umana ha un prezzo, non c’è niente di più naturale per l’uomo che uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo, si uccide; o perlomeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono».

Il recente attentato di San Pietroburgo interroga ancora le nostre coscienze sul limite alla violenza bellica e sul deserto morale in cui essa prospera. Le motivazioni confessate da Darija Trepova, la donna che ha accettato di farsi strumento di morte, sono sintomatiche del cortocircuito etico tra comunicazione e guerra: le sarebbe stato promesso l’espatrio a Kiev e una carriera come personaggio pubblico nel mondo del giornalismo; non è proprio quel che si direbbe una grande causa per cui uccidere o morire.

È lecito, in guerra, uccidere una persona per aver espresso opinioni in conflitto con le nostre? È lecito considerare come obiettivi militari, come bersagli, i giornalisti, i blogger, o, come nel caso della figlia di Dugin, i filosofi e le loro famiglie? È lecito coinvolgere nell’omicidio gli avventori di un bar per via delle loro presunte posizioni politiche o perché il bar stesso è proprietà di un nemico? È lecito colpire la popolazione civile? La risposta dell’opinione pubblica è, per fortuna, ancora negativa. A provarlo, nel caso dell’omicidio di Darija Dugina, fu proprio la presa di posizione dei servizi segreti USA, i quali presero le distanze dall’operazione degli ucraini sulle colonne del New York Times. Anche l’orribile video che riprende gli ultimi istanti di vita di Tatarsky potrà difficilmente convincere qualcuno della moralità di un’esecuzione che non ha nulla da invidiare a quelle dell’ISIS.

Certamente, i media che hanno sposato la linea di un sostegno acritico alla NATO sono in questo momento in difficoltà. La propaganda funziona su basi manichee, presentando la guerra come un confronto tra bene e male, tra il Messia e l’anticristo. Al contrario, la disumanità della guerra coinvolge tutte le parti: di recente l’ONU ha accusato tanto Kiev tanto Mosca per le esecuzioni sommarie di prigionieri; secondo la ONG USA Human Rights Watch, l’Ucraina avrebbe fatto uso di mine antiuomo sul proprio territorio; procederà presto ad avvelenarlo con proiettili all’uranio impoverito gentilmente forniti dal Regno unito.

Per salvare la rappresentazione oleografica del conflitto, molti giornalisti hanno definito Tatarsky “amico di Putin” (Il Messaggero) e “di Prigozhin” (Huffington Post); hanno spostato l’accento sulle possibili strumentalizzazioni che Mosca metterà in atto contro i nemici interni (Fanpage, Huffington post); oppure – all’esatto opposto – hanno salutato positivamente le violenze, le quali dimostrerebbero che il potere russo non è poi così granitico (Repubblica); hanno gettato dubbi sulla reale responsabilità dell’attentatrice (Open); hanno dato voce alle rivendicazioni più improbabili che scagionano la Trepova e assolvono Kiev. Per RaiNews, mandante dell’azione è quella stessa ANR che aveva rivendicato l’omicidio Dugina; Adnkronos ha dato voce al miliardario dissidente Ilya Ponomarev, un millantatore che spera di farsi una posizione nel dopo Putin. Peccato che il terribile video dell’attentato racconti una storia diversa, mostrando l’attentatrice come un’attrice fredda e senza scrupoli: durante un evento aperto al pubblico e piuttosto affollato, col sorriso sulle labbra inganna la vittima che la chiama col diminutivo “Nastia”; dopo l’esplosione fa finta di nulla, scambia due parole con una donna ferita e si allontana con tutta calma. Ora sostiene di essere stata incastrata.

Il problema della desertificazione morale è molto vasto e le sue dimensioni non si limitano alla comunicazione sulla guerra. Non solo giornalisti e animatori di salotti televisivi ma anche capi di Stato dei Paesi NATO e rappresentanti delle istituzioni europee presentano la guerra come una guerra di religione tra i valori dell’Occidente (una categoria priva di senso scientifico) e un insieme di minacce esterne che li negherebbero (Russia e Cina). Questo genere di discorso politico, tuttavia, non mette mai a fuoco con una definizione puntuale quali siano realmente i valori cui allude. Nasconde così il vuoto morale della NATO, un’alleanza strumentale finalizzata al dominio del Pianeta sopravvissuta alla fine del colonialismo e alla guerra fredda, e che tenta di mantenere in vita militarmente un’egemonia sempre più in crisi sul piano economico e culturale.

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