Allargare la NATO a est? Lezioni dalla Polonia. Editoriale

di Francesco Galofaro, Università di Torino

La crisi ucraina è una buona occasione per riflettere sull’identità e sul ruolo della NATO. Il 10 febbraio il suo segretario Jens Stoltenberg ha esposto la linea della “fermezza sui principi”; tuttavia, ha ricordato che sul tavolo dei negoziati vi sono nuovi briefing sulle esercitazioni militari e i temi della riduzione delle minacce nello spazio e in rete. La NATO non è disponibile a tornare allo status quo ante 1997 e ad accettare un qualunque limite alla propria “sfera di influenza”; allo stesso tempo, tenta un minuscolo passo verso la distensione propone scambi di informazioni e collaborazione che scongiurino incidenti militari. Il fatto è che, di fronte alle richieste della Russia, la NATO si dimostra una volta ancora un’istituzione decrepita, un fossile di quella guerra fredda che Washington in diversi contesti prova a riesumare. La NATO è sopravvissuta al nemico comunista e al momento tiene insieme due schieramenti diversi: anticinese e russofobo. La tattica imperiale americana è quella di spingere i due schieramenti in prima linea, manovrando entrambi. Nello specifico, russofobe, almeno ufficialmente, sono le repubbliche baltiche, Romania, Bulgaria, Regno unito e Polonia. Non sempre gli interessi dei due gruppi coincidono; soprattutto, talvolta l’orientamento di un Paese membro rispetto ai desiderata del socio di maggioranza può inaspettatamente cambiare.

Il caso polacco

In proposito, in questi ultimi giorni l’atteggiamento di Varsavia nei confronti della Russia, solitamente belluino, sembra insolitamente votato alla prudenza. Il presidente Andrzej Duda moltiplica gli incontri diplomatici; il governo polacco, animato da una destra sciovinista e clericale, si sta rivelando inaspettatamente pragmatico e cauto nel tentativo di non alimentare venti di conflitto. Duda ha presenziato alla cerimonia inaugurale delle olimpiadi di Pechino – tra le critiche dei liberali che invitavano a boicottarla- e ha incontrato Xi Jinping. Ufficialmente, l’intento era portargli il “punto di vista europeo” – come se ve ne fosse uno – perché non ascoltasse solo quello russo. Il giorno precedente aveva discusso la situazione ucraina con all’Ucraina con il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres e con i presidenti del Kazakistan, Kasym-Żomart Tokayev, del Kirghizistan, Sadyr Dzaparov, e dell’Uzbekistan, Shavkat Mirziyoyev. L’8 febbraio, a Berlino, Duda ha incontrato il cancelliere Olaf Scholz (di ritorno da Washington) e il presidente francese Emmanuel Macron (in arrivo da Kiev). Del lavorio diplomatico polacco sono state date diverse letture. La prima è che Duda, impaurito dal risveglio dell’orso russo, sia corso ai ripari e stia tentando di ricucire con l’UE, con la quale la Polonia ha diversi contenziosi aperti. Duda sarebbe stato tradito dal fiero alleato Orban, che ha negoziato il prezzo del gas direttamente con Putin. Tuttavia, perché Duda discute con la parte della NATO che più si spende per la de-escalation e per la distensione? Perché incontrare una serie di potenziali pontieri che hanno un dialogo aperto con la Russia? Non voglio spingermi a dire che Duda e Kaczyński si siano tramutati in colombe pacifiste o in beati costruttori di pace; piuttosto, è nel loro interesse evitare le conseguenze più spiacevoli del conflitto apertosi nel cortile dei vicini di casa.

Il mondo polacco

Nel corso della propria lunga storia la Polonia si è sempre costituita come cultura di frontiera rispetto a un “centro”, costituito dalla Germania nel medioevo, dall’Italia nel rinascimento e dalla Francia in età moderna. Lo dimostrano i prestiti linguistici, la storia del diritto, i legami dinastici, l’educazione dell’aristocrazia e della piccola nobiltà: la Polonia si auto-rappresenta e probabilmente si percepisce come ultimo baluardo della civiltà, identificata talvolta con la cultura europea (contro al mito del risveglio dell’Asia, rappresentato dai mongoli, poi dai russi, dai comunisti), talvolta del cattolicesimo (contro il paganesimo, contro il cristianesimo ortodosso, contro l’ateismo). A rimanere stabile è la vocazione di bastione, mentre il “centro” rispetto al quale la Polonia è frontiera può cambiare sensibilmente, come vado a dimostrare.

La Polonia e la NATO

La Polonia è uno dei primi tra i Paesi del patto di Varsavia ad aver aderito alla NATO nel 1999, cinque anni prima del suo ingresso nella UE, insieme a Repubblica Ceca e Ungheria. L’allargamento ha comportato un progressivo schieramento verso la Russia di truppe, comandi militari e mezzi. Nel 2014, Obama, in visita in Polonia, annunciò allo scopo uno stanziamento da un miliardo di dollari; in luglio 2016 fu decisa la costituzione di quattro gruppi tattici in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia; in seguito alla polemica tra Donald Trump e Angela Merkel sulle spese militari dell’alleanza, il neoeletto presidente Andrzej Duda invitò gli USA a ricollocare le truppe sul proprio confine orientale. Seguì un accordo, firmato il 12 giugno 2019, che comportava anche l’acquisto dei noti caccia F35 americani e una fornitura di otto miliardi di dollari del (peraltro carissimo) gas americano per far fronte ai pericoli comportati dal comune nemico, il gasdotto Nordstream tra Russia e Germania. 

Direttrici della politica estera polacca

Da un punto di vista geopolitico, sulla sopravvivenza della Polonia pende la spada di Damocle della manovra a tenaglia che Germania e Russia possono, all’occorrenza, esercitare sui suoi confini. Così è accaduto con la spartizione della Polonia tra Germania, Russia e Austria alla fine del ‘700 e di nuovo col patto Ribbentrop-Molotov nel ’39. Per questo, fin dai primi progetti, la Polonia ha percepito il gasdotto Nordstream come una minaccia: permetterebbe di non interrompere le forniture di gas all’Europa occidentale anche nel caso di un una crisi diplomatica in quella orientale, evitando un coinvolgimento diretto della prima. Il gasdotto Nordstream è pericoloso perché lascia aperta una scelta diversa dalla guerra; su questo punto la Polonia di Duda non è disponibile a passi indietro e converge su questo tema con i falchi anglosassoni. Stretto nella morsa tra Russia e Germania, lo Stato polacco ha creduto di ravvisare negli USA un alleato comodo: abbastanza distante da non intromettersi nei propri affari; abbastanza vicino da permettergli di alzare la voce contro pesi mediomassimi.

Il nemico ideologico

La crisi ucraina si direbbe un’occasione d’oro per il governo polacco per rispolverare la retorica militarista adorata dal suo elettorato. Così non è, per un insieme di motivi. In primo luogo, la destra nazionale attualmente al governo individua, accanto ai nemici geopolitici tradizionali, un nemico ideologico nel liberalismo. Non a caso la UE liberale a guida tedesca ha fin qui attaccato la Polonia sulle questioni dei diritti e sulla riforma della giustizia ricorrendo allo strumento delle sanzioni. Se l’amministrazione Trump confermava e rinforzava la visione del futuro di Varsavia, con Biden i rapporti sono notevolmente peggiorati. Ad esempio, il presidente USA ha imposto a Duda di porre il veto su una legge che colpiva TVN24, canale vicino all’opposizione liberale e posseduto da Discovery channel (ne abbiamo parlato qui: https://www.marx21.it/internazionale/polexit-geopolitica-del-conflitto-tra-polonia-e-ue/). Poiché ha comunque bisogno della protezione militare degli Stati uniti e nonostante il notevole malessere dei propri elettori, il governo ha dovuto cedere, scoprendo così che l’alleato è tutt’altro che poco propenso alle ingerenze interne e molto incline a sponsorizzare l’ascesa di una classe dirigente di vassalli e di lacchè dell’imperialismo.

La minaccia di una crisi umanitaria

Tra i problemi causati da un’eventuale invasione guerra tra Russia e Ucraina c’è una crisi che l’Unione europea in generale e la Polonia in particolare sarebbero costretti ad affrontare: la prospettiva di milioni di profughi ucraini in fuga da una zona di guerra verso occidente. Ora, l’Unione europea si è già in passato sbriciolata di fronte a flussi di rifugiati causati da guerre ai propri confini. La Polonia, in particolare, non ha saputo accogliere nemmeno le poche migliaia di disperati in transito attraverso la Bielorussia, contro i quali ha dovuto mobilitare l’esercito e intraprendere la costruzione di un muro; la crisi è tutt’ora irrisolta, nonostante l’attenzione dei media sia oggi focalizzata altrove. La realtà è che a fronte della posizione sbandierata di fronte alla propria opinione pubblica Varsavia non può permettersi un’invasione di ucraini affamati e disperati.

Capitali in fuga

Un’ultima ragione importante per intraprendere la via della distensione è la seguente: la Polonia non può permettersi un prolungamento senza fine dell’attuale situazione di tensione. Ogni nuova notizia sull’imminenza della guerra colpisce l’economia ucraina, intrecciata strettamente a quella polacca. Nel 2021 gli scambi tra Polonia e Ucraina hanno superato i 10 miliardi di dollari, e la Polonia si è confermata il secondo partner commerciale, dopo la Cina. Gli investimenti polacchi nella prima metà del 2021 hanno superato il miliardo di dollari. Inoltre, l’Ucraina è una fonte di capitali che non trovano impiego nell’inesistente tessuto industriale locale. La Polonia è il luogo eletto dagli oligarchi ucraini per aprire le proprie attività economiche. Nell’estate 2021 il numero di società polacche con fondatori, comproprietari e capitale ucraino ha superato le 20.000 e si avvicina al 25% del numero totale di società con capitale estero in Polonia. In questa situazione, ogni notizia che rende una guerra più probabile è una stilettata nel feticcio dell’economia regionale. Perfino le notizie sulle tonnellate di armi inviate dagli USA hanno l’effetto perverso di indebolire l’economia ucraina, causando la fuga degli investitori e il crollo della hryvnia (la moneta ucraina). La questione è ben presente al presidente ucraino Zelensky, i cui avversari politici non perdono occasione di attaccarlo su questo tema.

In conclusione

Quali lezioni possiamo trarre dal caso polacco? La prima è, semplicemente, che al di là della propaganda aggressiva, nessuno desidera davvero una guerra al proprio confine. Inoltre, spesso occorre scegliere tra l’avversario geopolitico e il nemico ideologico. L’individuazione di un avversario è spesso funzionale alla manipolazione dell’opinione pubblica, ma può rivelarsi un’arma a doppio taglio quando entra in conflitto con scelte politiche di carattere pragmatico. In altri termini, il “nemico” è in larga misura una costruzione, anche se costruire il nemico può rivelarsi un’attività pericolosa. In terzo luogo, per tornare all’attualità, il protrarsi dei venti di conflitto sta divenendo insostenibile prima di tutto per l’Ucraina, in secondo luogo per l’economia della regione, e infine per l’intera Unione, nella misura in cui essa dipende dalle fonti energetiche russe. Il gas che Biden sarebbe felice di venderci costa un terzo in più di quello russo (vedi qui: https://www.marx21.it/internazionale/la-crisi-ucraina-come-simulazione-di-guerra-per-il-gas/) e il “nucleare green” caldeggiato da Ursula von der Leyen è al presente una chimera. La strategia diplomatica della Russia è volta a intraprendere relazioni bilaterali con i singoli Paesi NATO, nel tentativo di dividere i falchi dalle colombe e di conquistare una posizione di non belligeranza dei nemici storici come la Polonia. Al momento si tratta di una scelta vincente, ma si avvicina ormai il “punto di catastrofe”, quella cuspide che costringe una sfera a cadere nell’avvallamento alla propria destra o alla propria sinistra. Di allargamento in allargamento, è stata la NATO, non la Russia, ad ammassare armi e uomini ai propri confini. Ora, Washington può interpretare la reazione Russa come il segno che è necessario un limite all’attuale linea dell’escalation perpetua; che gli USA non possono permettersi due fronti aperti, contro la Russia e contro la Cina; che la balance of power deve ritrovare un punto di equilibrio. Oppure, può essere giudicata come l’assurda pretesa di una cultura inferiore che non si rassegna ad essere assediata e strangolata. Se – malauguratamente per noi europei – prevarrà il secondo punto di vista, gli USA sacrificheranno volentieri il pedone ucraino sulla scacchiera del ricompattamento della NATO, contando sul fatto che il prezzo più alto sarà pagato dall’economia della UE e di aver soltanto da guadagnare dai “sostegni” agli alleati in termini di forniture energetiche, di armi e della sovrapproduzione del proprio rugginoso apparato industriale.