
di Giuseppe Amata
Il volume STALIN materiali per la discussione, ad opera dei compagni di Aginform, raccoglie importanti documenti storici (seppur non completi e su alcuni temi a volte unilaterali come nel caso dell’inserimento di estratti della Storia universale dell’URSS che riflettono il pensiero della dirigenza sovietica su fatti internazionali quando è nota, ad esempio, che la posizione del Partito comunista cinese o di quello nord-coreano e vietnamita, riguardante la loro storia rivoluzionaria, è diversa), opinioni di autorevoli compagni (fra cui Domenico Losurdo) che sono molto utili per l’approfondimento delle linee di discussione tracciate sulle diverse sezioni.
I compagni di Aginform scrivono nell’Introduzione:
“Possiamo dire che la morte di Stalin è sopraggiunta in una fase in cui un cambiamento era divenuto una necessità oggettiva, di cui lo stesso Stalin aveva piena coscienza, ma che trovava ostacoli proprio nella nomenclatura ai vertici del Partito e dello Stato” (p. 11).
A testimonianza di questa affermazione allegano l’intervento di Stalin al Comitato Centrale del PCUS del 16 ottobre 1952, dopo la conclusione del XIX Congresso.
Estraggo alcune affermazioni da quel discorso e dal verbale stenografico della seduta:
“ I lavori del Congresso del Partito sono andati bene e a molti può sembrare che tra noi ci sia la più completa unità. E invece questa unità non c’è. Alcuni esprimono disaccordi con le nostre decisioni. Si chiedono perché abbiamo sensibilmente allargato la composizione del CC. Ma non è forse chiaro che occorreva introdurre forze nuove nel CC? Noi siamo vecchi, moriremo tutti, e allora, non dobbiamo forse pensare a chi consegneremo il testimone della nostra grande causa? Chi lo porterà avanti? Per questo occorrono persone, esponenti politici più giovani, fedeli. E cosa significa far crescere un esponente politico uno statista? Per questo ci vuole un grande impegno. Occorrono dieci, anzi quindici anni per preparare un uomo di Stato. (…) Ci chiedono perché abbiamo liberato da importanti incarichi ministeriali illustri componenti del Partito (Molotov, Kaganovich, Voroscilov ed altri) e li abbiamo sostituiti con nuovi funzionari. Perché? Su quale base? Il lavoro di ministro è un lavoro duro. Richiede grande energia, concrete conoscenze e salute. (…) Li abbiamo nominati vicepresidenti del Consiglio dei ministri e così neppure io so quanti sono i miei vice.
(…) Stalin propone di risolvere le questioni organizzative, di eleggere gli organi dirigenti del Partito. Al posto del Politburo si elegge il Presidium sensibilmente allargato, nonché la segreteria composto in tutto da 36 persone. Nell’elenco, dice Stalin, ci sono tutti i membri del vecchio Politburo ad eccezione di A.A. Andrev, perché è diventato completamente sordo, non sente niente, non può lavorare, deve curarsi.
Voce dalla sala: Bisogna eleggere il compagno Stalin Segretario Generale del CC del PCUS.
Stalin: No! Liberatemi dagli incarichi di Segretario Generale del CC del PCUS e Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS.
G. N. Malenkov (dalla tribuna): Compagni! Dobbiamo chiedere tutti al compagno Stalin, nostra guida e maestro, all’unanimità e all’unisono di essere ancora Segretario Generale del CC del PCUS!
Stalin (dalla tribuna): Al Plenum del CC non servono gli applausi. Bisogna risolvere i problemi senza emozioni, in modo pratico. E io chiedo di essere liberato dagli incarichi di Segretario e Presidente. Io sono ormai vecchio. Non leggo i documenti. Eleggetevi un altro Segretario.
S. K. Timosenko: Compagno Stalin! Il popolo non capirà. Noi tutti come un sol uomo vi eleggiamo nostro dirigente, Segretario Generale del CC del PCUS. Non può esserci un’altra soluzione.
Tutti si alzano in piedi e applaudono calorosamente, appoggiando Timosenko. Stalin rimane a lungo in piedi, guardando la sala, poi fa con la mano un gesto di disappunto e si siede” (pp. 647-650).
Faccio tre osservazioni al discorso e al resoconto della seduta: 1) E’ chiaro che una sostituzione improvvisa non sarebbe stata capita dai militanti e dal popolo; 2) La sostituzione di Stalin doveva essere preparata nel tempo, informando i quadri e selezionando le persone idonee a ricoprire tale incarico (della giusta età, non vecchie ma nemmeno giovani senza esperienza, anche se in possesso di una brillante preparazione ideologica e politica), scegliendo alla fine la persona ed eleggendola magari nell’incarico di vice Segretario; 3) Se Stalin voleva essere veramente sostituito doveva porre la questione in modo diverso, cioè non in termini sbrigativi, lasciando dapprima l’incarico di Presidente del Consiglio dei ministri e in seguito quello di Segretario generale, al momento in cui il designato avrebbe riscosso con certezza la fiducia dei militanti del Partito e del popolo.
Dallo scritto allegato di H. H. Holz estraggo: tre brani interessati per la discussione: “Oggi più che mai ‘stalinismo’ è uno slogan anticomunista” (p. 21); “Non vi è dubbio che le persecuzioni fecero vittime non solo fra attivi nemici del nuovo Stato, ma anche fra numerosissimi innocenti ed autentici compagni. (…) Antiche abitudini di autoritarismo statuale zarista, sostenuto da una polizia politica altamente organizzata e largamente diffusa si riproposero” (pp. 25-26). La spiegazione che dà Holz è condivisibile ma la ritengo incompleta. A mio avviso ciò è stato possibile perché nel Partito non esisteva una libera dialettica e si avevano dei pregiudizi quando su diversi argomenti si formavano delle maggioranze e delle minoranze e non ci si rendeva conto che su altre posizioni o col tempo le posizioni sarebbero mutate. La maggioranza era portata a non capire le posizioni della minoranza e a emarginarla fino ad allontanarla, magari giudicandola nemica del popolo per mandarla in processo. In tal modo non solo spesso si scambiava la natura delle contraddizioni (da contraddizioni all’interno del popolo come dirà Mao si consideravano del tipo fra il nemico e noi) fino a portare alla fucilazione i dissidenti. E così nelle regioni periferiche, come annota E. Furr nel libro Kruscev mentì, i gruppi dirigenti in nome della fedeltà al Partito e a Stalin fucilavano gli oppositori del momento senza minimamente pensare che un giorno, utilizzando lo stesso metodo, sarebbe toccato a loro.
Nel libro si inserisce un discorso di S. Just della Rivoluzione francese e si fanno degli accostamenti tra il decorso di quel processo rivoluzionario e quello bolscevico. Emblematica è la seguente affermazione che estraggo per supportare la linea di Stalin contro le opposizioni di sinistra e di destra: “Dall’inizio della Rivoluzione, l’Inghilterra e i governi nemici del popolo francese hanno perpetuato un partito composto di diverse fazioni coincidenti, ma talvolta sconosciute l’una all’altra, e appena una era abbattuta, le altre erano spinte all’azione dalla paura, e si davano ad intralciare il corso della legislazione e della giustizia che esse temevano. (…) C’è stata una cospirazione tramata da parecchi anni per assorbire la rivoluzione in un cambio di dinastia” (pp. 38, 58).
Il libro riporta anche due interventi di Bucharin, il primo del 1934 che si può considerare un’autocritica delle sue posizioni assunte alla fine degli anni Venti sulla collettivizzazione delle campagne; il secondo del 12 marzo 1938, cioè la sua ultima dichiarazione al processo che lo ha condannato a morte (pp. 63-89).
Sono argomenti complessi e difficili che dovranno essere approfonditi dagli studiosi, esaminando i documenti storici e rapportandoli al decorso del processo storico. Non mi sento di giustificare la posizione di Bucharin sulla collettivizzazione delle campagne alla luce dell’esperienza cinese perché le contraddizioni di classe nei rapporti interni e nelle relazioni internazionali tra la fine degli anni Venti e la fine degli anni Settanta del Novecento sono completamente diverse. Tuttavia ritengo che la questione debba essere approfondita verificando se la posizione di Bucharin era motivata da un reale convincimento oppure se era strumentale per opporsi alla direzione di Stalin. Inoltre sul processo a Bucharin mi pongo, però, una domanda: dopo la sua dichiarazione di colpa perché pronunciare la condanna a morte e in ogni caso se la gravità dei reati richiedeva la massima pena perché eseguire la condanna immediatamente? Si poteva sospenderla per qualche anno e poi non eseguirla, come è stato fatto in Cina per Jiang Quing e Zhang Chunqiao.
Come è noto, Bucharin è stato riabilitato in epoca gorbaceviana e il fatto è stato strumentale. Di conseguenza, il Partito comunista della Federazione russa e gli altri partiti comunisti della ex Unione Sovietica dovranno affrontare tale questione ed esprimere una posizione.
Dal Rapporto di Lenin sulla guerra e sulla pace (pp. 100-107), metto in rilievo il seguente brano: “Si, noi vedremo la rivoluzione mondiale, ma per ora è solo una magnifica favola, una bellissima favola; comprendo benissimo che ai bambini piacciono le belle favole; ma mi domando: è dato a un rivoluzionario serio credere nelle belle favole” p. 101). Perché le pagine che seguono (da 110 a 249) riportano diversi importanti discorsi di Stalin, dalla fase pre-insurrezionale al trionfo della rivoluzione bolscevica, dalla costruzione del socialismo in un solo paese alla lotta alle posizioni trotskiste e buchariniste, per esaltare la lucida analisi che Stalin seppe svolgere della situazione interna e di quella internazionale per avviare la costruzione di una società socialista, il suo realismo politico e il fatto indiscusso che era lui in quella lunga fase storica ad interpretare correttamente il processo rivoluzionario e a saperlo meglio guidare e per smontare le accuse trotskiste (sia di Trotskj sia dei suoi seguaci immediati e futuri) che hanno paragonato Stalin a Bonaparte.
I meriti che indubbiamente ebbe Stalin non devono far dimenticare alcuni metodi impropri di direzione politica e, alle volte, l’errata analisi della natura delle contraddizioni, per cui si scambiano le contraddizioni all’interno del popolo come contraddizioni fra il nemico e noi, l’introduzione di procedimenti amministrativi e giudiziari sbrigativi con eccesso di pene, con la conseguenza che, quando si tagliano le teste, esse (come dirà Mao) non crescono come cavoli; nonché alcuni errori teorici sulla “realizzazione della società socialista nel 1936” e su altro, per come è stato messo in evidenza per la prima volta nella storia del movimento comunista internazionale dai compagni cinesi nel 1963 nello scritto La questione Stalin. Questo testo oggi si può considerare un grande documento storico per la chiarezza e per il metodo d’analisi materialistico e dialettico e rappresenta una base di discussione da cui non si può prescindere.
Ma, andiamo per ordine secondo il materiale pubblicato, cominciando dalla lettera inviata da Gramsci e Togliatti e la relativa risposta e contro risposta (pp. 253-268) sullo scontro interno al Partito bolscevico e che lo stesso doveva consegnare, ma non lo ha fatto, all’Esecutivo dell’Internazionale comunista. Togliatti, che aveva molto fiuto politico (e lo ha dimostrato nei successivi decenni), si rese conto che le divergenze erano diventate insanabili e pertanto ritenne quella lettera inopportuna rispondendo a Gramsci di conseguenza. Tuttavia, a livello di analisi materialistica e dialettica, la lettera di Gramsci conteneva un principio storicamente inoppugnabile e metodologicamente valido per regolare i contrasti all’interno dei Partiti comunisti. “Vogliamo essere sicuri che la maggioranza del CC del Partito comunista dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta ad evitare le misure eccessive” (p. 259). Secondo Gramsci si deve mantenere all’interno del Partito una libera dialettica, rispettando i principi del centralismo democratico, cioè portando avanti all’esterno la linea approvata senza alcuna riserva. Lo spirito della posizione di Gramsci in senso lato si ritrova approfondito nelle delibere del Partito comunista cinese, pur non conoscendola (tale lettera è stata pubblicata per la prima volta in Italia negli anni 80!). Libera dialettica che purtroppo nel PC dell’URSS non è stata rispettata, anche per colpa dell’opposizione trotskista e bucariniana che sin dalla morte di Lenin si sono organizzate in frazioni e da quel momento ogni parere contrario a quello della maggioranza, sia al centro che alla periferia del Partito, veniva spesso messo all’indice e i promotori guardati con sospetto od emarginati. E non solo nel periodo staliniano, bensì in quello krusceviano e in seguito. Anche la storia del PCI è piena di questi casi e Togliatti ha le sue grandi responsabilità per aver emarginato Pietro Secchia e i vecchi quadri (anche se non vecchi biologicamente) per far posto ai giovani che provenivano dalla media borghesia (escludo in parte Berlinguer da questo discorso perché da ragazzo, sotto il fascismo, era un militante comunista, ma a liberazione avvenuta la classe di provenienza della famiglia, e non solo perché antifascista, sollecitò Togliatti a promuoverlo con anticipo nelle sfere dirigenti) per dimostrare che il partito nuovo che intendeva costruire interessava non solo il proletariato, i contadini e gli intellettuali d’avanguardia, ma anche la piccola e media borghesia: uno di quei giovani, che non era di famiglia antifascista, né tanto meno era un militante clandestino sotto il fascismo, si iscrive al PCI dopo la liberazione del Sud e viene eletto nel 1953 (a 28 anni) deputato e velocemente fa carriera per occupare alte cariche istituzionali e da quel pulpito anziché difendere la memoria storica del movimento che lo aveva sorretto è stato in prima fila nella corrente del revisionismo prima ideologico, poi storico, quindi culturale in senso lato. E come lui tanti altri di estrazione borghese che occupavano la stragrande maggioranza dei posti nel CC e nella Direzione, mentre i quadri della lotta clandestina, della Resistenza e della difesa del lavoro e della Costituzione venivano pian piano emarginati.
In questa sezione del libro sono stati inseriti scritti non solo di Togliatti, ma anche di Secchia (pp. 287-331) e di quest’ultimo, quelli che non dimostrano tutte le divergenze che ebbe prima con Togliatti e poi con Longo e Berlinguer. Secchia aveva una diversa visione organizzativa del Partito e della linea politica a partire dalla fine degli anni Quaranta. I compagni di Aginform avrebbero dovuto includere in questa sezione del libro brani tratti dall’Archivio Pietro Secchia 1945-1973, pubblicato dalla Feltrinelli nel 1979 che testimoniano la sopraddetta diversità diventata con gli anni sempre più netta.
Quindi giungiamo allo scritto delle redazioni del “Quotidiano del popolo” e di “Bandiera rossa” del 13 settembre 1963 che esprime le posizioni del Partito comunista cinese sulla “questione Stalin”. Riporto il primo brano che è molto illuminante per approfondire la discussione: “La questione di Stalin è una questione di importanza mondiale che ha avuto ripercussioni tra tutte le classi di ogni paese e che oggi è ancora oggetto di molte discussioni, in cui differenti classi e i loro partiti e gruppi politici assumono differenti punti di vista. E’ probabile che non si possa giungere ad alcun verdetto finale su questa questione, in questo secolo. Ma esiste virtuale accordo tra la maggioranza della classe operaia internazionale e del popolo rivoluzionario, che disapprova la completa negazione di Stalin e sempre più ne cura il ricordo. Ciò vale anche per l’Unione Sovietica. La nostra controversia con i dirigenti del PCUS è una controversia con un gruppo di persone. Noi speriamo di persuaderli, per fare avanzare la causa rivoluzionaria. A questo scopo scriviamo il presente articolo” (p. 332).
Sono passati quasi settant’anni dalla stesura e siamo entrati nel terzo decennio del nuovo secolo ed ancora non possiamo dire di essere giunti ad alcun verdetto finale, tant’è che i compagni di Aginform hanno portato a compimento un faticoso lavoro di analisi e di documentazione per approfondire la questione. Le posizioni del PCC esposte nell’articolo del 1963 ancora oggi sono illuminanti per la chiarezza espositiva, per il metodo materialistico e dialettico di analisi e per i suggerimenti propositivi, i quali ancor oggi mantengono ferma la loro validità e schiudono agli studiosi marxisti campi di indagine. Invito i lettori a riflettere sulla seguente affermazione: “La nostra controversia con i dirigenti del PCUS è una controversia con un gruppo di persone”. La storia degli ultimi settant’anni ha confermato la validità di questa affermazione che è risultata obiettiva e non propagandistica. Infatti, il Partito comunista cinese esiste e si è rafforzato da quel tempo, mentre quel gruppo di persone non esiste più, non perché biologicamente finito ma perché nel corso degli anni ha rinnegato i principi comunisti e della storia sovietica e gli allievi di quel gruppo hanno portato il PCUS nell’estate del 1991 allo scioglimento. I comunisti dell’ex URSS che si sono riorganizzati, anche se in diversi partiti e a volte su posizioni ideologiche contrapposte, tengono alta la memoria di Stalin e lo hanno dimostrato in tante dimostrazioni dal 1991 ad oggi, pur non rinunciando alla comprensione degli errori che si svolsero in tutta la storia sovietica.
Dal documento cinese del 1963 riprendo due altri brani che risultano ancor oggi altamente illuminanti e obiettivi: “Il Partito comunista cinese ha costantemente sostenuto che la questione di come valutare Stalin e quale atteggiamento assumere nei suoi confronti non è solo una questione di valutare Stalin personalmente; è, quel che è più importante, una questione di come fare il bilancio dell’esperienza storica della dittatura del proletariato e del movimento comunista internazionale dopo la morte di Lenin” (p. 333); “Che ragione hanno, dunque, i dirigenti del PCUS di proibire ad altri partiti fratelli di fare una realistica analisi e valutazione di Stalin? Il Partito comunista cinese ha invariabilmente insistito su una analisi completa, oggettiva e scientifica dei meriti e demeriti di Stalin con il metodo del materialismo storico e con la presentazione della storia come essa veramente si svolse, e si è opposto alla soggettiva, cruda e completa negazione di Stalin con il metodo dell’idealismo storico e con la distorsione e l’alterazione intenzionale della storia. Il Partito comunista cinese ha costantemente sostenuto che Stalin ha commesso errori, che hanno avuto le loro radici ideologiche nonché sociali e storiche. E’ necessario criticare gli errori che Stalin effettivamente commise non quelli che gli vengono infondatamente attribuiti, e da una corretta posizione e con metodi corretti. Ma noi ci siamo costantemente opposti all’impropria critica di Stalin, fatta da un’errata posizione e con metodi errati” (334).
L’analisi dei meriti e dei demeriti di Stalin deve essere supportata dai documenti storici e dalle considerazioni ideologiche e politiche che in primo luogo oltre agli storici marxisti della ex Unione Sovietica debbono sviluppare i Partiti comunisti della stessa e del mondo intero.
Non si può dire che negli ultimi settant’anni la ricerca storica abbia fatto dei grandi passi avanti su questa questione e le considerazioni dei Partiti comunisti di conseguenza abbiano avuto importanti sviluppi. Fondamentalmente le posizioni dei principali Partiti comunisti sopravvissuti sono rimaste inalterate, mentre le rettifiche sono avvenute dai gruppi che sulle rovine dei Partiti revisionisti hanno innalzato la bandiera comunista, riaffermando i grandi meriti di Stalin nelle trasformazioni sociali e nella guida del popolo sovietico dall’aggressione nazifascista.
Su quest’ultimo argomento è interessante analizzare anche il discorso di Vladimir Putin al 75° anniversario della Grande vittoria, che è stato inserito nel libro, là dove si riscontra da un lato che il presidente della Russia condivide tutte le posizioni del governo sovietico di allora per prevenire la guerra e dall’altro mostra le responsabilità di Inghilterra, Francia e Stati Uniti nel far sì che la Germania orientasse i preparativi bellici verso l’URSS, dopo il Trattato di Monaco del 1938. Non solo, Putin critica anche i politici occidentali di oggi per il loro revisionismo storico: “Perseguendo i propri obiettivi incrementano ll numero e la portata degli attacchi mediatici contro il nostro Paese, vogliono costringerci a scusarci, provare sensi di colpa, ingoiare ipocrite dichiarazioni politicizzate. Ad esempio, la risoluzione ‘Sull’importanza di preservare la memoria storica per il futuro dell’Europa’ approvata dal Parlamento europeo il 19 settembre 2019 accusa esplicitamente l’URSS – insieme alla Germania nazista – di aver scatenato la Seconda guerra mondiale. Naturalmente non si accenna neanche a Monaco” (p. 455-456). Continua Putin: “Nella sconfitta del nazismo – qualunque cosa si provi a dimostrare oggi, il principale, decisivo contributo è stato quello dell’Unione Sovietica, dell’Armata Rossa” (p. 459).
Il libro si chiude con la sezione dedicata agli anni della guerra fredda e con il discorso di Stalin al XIX Congresso commentato all’inizio di questa recensione, scritta per esprimere un contributo su una questione che ritengo importante e che i compagni Roberto Gabriele e Paolo Pioppi che con tanto impegno hanno curato la pubblicazione di questo e di altri tre volumi in precedenza pubblicati meritano un giudizio di plauso, pur nel rispetto delle reciproche posizioni di analisi e di giudizio.