di Vincenzo Di Marco
La lettura di questo breve saggio di Aldo Schiavone si rivela sorprendente non tanto per le tesi di fondo che contiene (dare vita ad un “manifesto” per una Sinistra senza nostalgie comuniste e marxiste), fatte proprie da certi ambienti politici del centro-sinistra italiano, per intenderci l’area che gravita grosso modo attorno al Partito Democratico, quanto per i commenti duri e perentori che accompagnano gli inviti a proseguire sulla strada di un completo processo rinnovatore, mai avviato (a giudizio dell’autore) e sempre in ritardo sulla tabella di marcia. L’antico vizio di ergersi a padri nobili della vita politica italiana (e Schiavone fa suo il ruolo di prima donna in commedia), di dolersi del ruolo di profeta inascoltato, come se vestisse i panni di un maestro prodigo di insegnamenti che dovrebbero coprire larghe tese di anni e decenni, ci consegna alla fine un libro stranissimo e incomprensibile, sapendo chi è Aldo Schiavone e quale magistero egli rappresenti nel campo degli studi storici, politici e giuridici. Qui occorre ricordare che l’autore ha già delineato i tratti principali di questo pensiero in altri libri come I conti del comunismo del 1999 e Eguaglianza. Una nuova visione sul filo della storia del 2019, fino al recente Progresso del 2020.
Forse abbiamo equivocato il senso complessivo di questo pamphlet, di cui ha tutta l’aria, che si presenta con il preciso intento di voler scombussolare i piani politici e intellettuali di una certa area politica, familiare allo stesso autore, con il tono di chi auspica una resa dei conti ultimativa. Abbiamo però tra le mani uno scritto che si muove sotto traccia, debole, confuso, generico ‒ questo di Aldo Schiavone ‒ eppure perentorio nelle sue più lucide affermazioni. La ricostruzione del quadro politico degli ultimi trent’anni è volutamente tendenzioso. Si parla della necessità di rifondare l’assetto politico e sociale italiano, con l’invito a seguire la via dell’ammodernamento garantito dal progresso tecnologico e dall’efficientismo capitalistico, di cui si tessono magnifiche lodi.
A prima vista, argomenti consunti, vista la piega che ha preso oggi il dibattito sulle inefficienze del capitalismo globalizzato, che ancora deve fare i conti con le questioni ecologiche (nessun accenno nel libro), con la mancanza di lavoro (e quindi di reddito) a causa della massiccia introduzione delle tecnologie nei processi produttivi, e con il deperimento delle risorse naturali. Premessa necessaria di tutto il discorso è l’auto da fé pronunciato da una delle massime autorità morali della sinistra intellettuale italiana, in procinto di vestire i panni dell’inquisitore (garbatissimo, per carità) che sta per mettere sul rogo i malcapitati ritardatari. Che cosa prevede questa specialissima abiura del passato: per accedere al nuovo mondo, nel quale sono già entrati i progressisti, gli onesti, gli innovatori, tu rinuncerai alla lotta di classe e all’idea di socialismo. Chi e quando dovrà pronunciare questa formula? Per accedere dove? Do not disturb, sembra il sottinteso di questo pronunciamento!Fuor di metafora, è parso di entrare nel segreto del Libro dei Morti dell’antico Egitto, quando si descrive il rito della psicostasia, la pesatura del cuore-anima, che non doveva essere appesantita dai peccati della vita precedente, pena la rinuncia alle gioie dell’al di là.
A nostro avviso l’errore di fondo del libro di Schiavone è già scritto nell’avvio del primo capitolo: l’idea di proporre una svolta epocale per una certa sinistra recalcitrante, sonnolenta e sonnambula, incapace di guardare oltre la punta del proprio naso, delude ogni attesa. Vi manca una analisi di ampio respiro, che sia capace di spiegare i grandi mutamenti intervenuti nella società italiana ben prima della fine dell’Urss e del crollo del Muro di Berlino. Esordire con i riferimenti agli ultimi esiti elettorali, che hanno visto la brusca sconfitta del PD e l’avanzata dei partiti di destra, finisce per minimizzare una delle questioni capitali del nostro tempo, collocandola invece in un ambito ristretto come può essere la vita politica italiana. La crisi della Sinistra di cui parla Schiavone è figlia di una deriva sociale e culturale di lunga data, con radici molto profonde, difficili da estirpare ancora oggi, perché è difficile da vedere. La miopia di una certa parte politica, che per l’autore non sembra intenzionata a rinunciare ad alcuni dei suoi portati ideologici, la lotta di classe e l’idea di socialismo (il j’accuse di Schiavone, ripetuto fino alla noia), non spiega da solo il quadro di una società incancrenita da comportamenti malsani e da prospettive illusorie, a cominciare dalle spinte futuriste dei miglioristi e dei modernisti a senso unico.
A costo di essere accusati di partigianeria e di partito preso (e poi quale partito in assenza di partiti?), basti questo piccolo florilegio di frasi asseverative, distribuite qua e là nel testo, a rafforzare la tesi principale: “con l’età del lavoro finiva anche l’età della lotta di classe”, “il capitale ha vinto la sua battaglia”, “c’è da affrontare una vera battaglia per l’egemonia culturale, dove il fascismo e l’antifascismo non c’entrano”, “il codice genetico della sinistra veniva a identificarsi così con la lotta di classe”, “è stato il salto tecnologico a determinare il superamento dell’età industriale”, “solo la politica è in grado di esprimere l’interesse generale della specie”, “l’aumento di potenza della tecnica accresce la nostra libertà e la nostra capacità di autodeterminarci”. Ma ben più gravi sono le analisi del lavoro, del tecno-capitalismo e del riformismo politico.
Far risalire tutta la crisi politica della Sinistra alla “errata” analisi marxista del lavoro e alla contrapposizione antagonistica tra borghesia e proletariato, oggi in via di superamento, proprio quando essa si sta traducendo (scrive Schiavone) in una forma di cooperazione capitale-lavoro a tutto vantaggio dei lavoratori, maggiormente tutelati ed esentati dalle fatiche massacranti della prima età industriale, è ingeneroso, oltre che riduttivo sul piano strettamente teorico. L’enfasi che è stata data al lavoro e al ruolo del lavoratore nella costruzione della società comunista, come è avvenuto in Unione Sovietica, che oggi è giustamente soppiantata dalle nuove tecnologie che trasformano i processi lavorativi e disarticolano dall’interno la compattezza della classe operaia, non rappresenta il punto centrale della teoria marxiana, nonostante si faccia di tutto per attribuire all’autore de Il Capitale affermazioni che non sono sue. Che la colpa dei figli ricada sui padri, sembra il sottinteso di queste pagine. Un atteggiamento, figlio di tutte le controstorie anti-comuniste.
Marx ci parla dei rapporti di produzione e di forze produttive nel quadro più generale del dominio capitalistico. In Marx sarebbe più corretto parlare di “lavoro comandato” e non, come si fa correntemente e impropriamente, di esaltazione del lavoro manifatturiero o della catena di montaggio come leva sociale e politica di future sollevazioni. Oggi anche il funzionario interno all’azienda, l’addetto al controllo robotizzato delle macchine, perfino l’ex-operaio esternalizzato che gestisce in proprio una impresa dell’indotto, appartiene di fatto a questa larga composizione, non più di classe è vero, ma pur sempre subordinata e dipendente dal committente maggiore, in un’ottica di mercato (domanda-offerta-efficacia del risultato). Insistere sui deficit della lotta di classe e dell’idea di socialismo, come fa Schiavone, ossia sul presente e sul futuro dell’azione politica, finisce per nascondere il retroterra, il passato. Il Manifesto del 1848 ha alle spalle l’analisi della “condizione operaia” delle fabbriche inglesi e il disfacimento materiale e morale di intere generazioni di lavoratori sfruttati e affamati assieme alle loro famiglie. Se il marxismo venisse sciolto da questo retroterra, che in termini filosofici definiremmo una “realtà oggettiva”, verrebbe ridotto a pura ideologia, a fraseologia politica, a induzione coercitiva del ribellismo fine a se stesso. Inoltre, il carattere “di classe” rivendicato dal marxismo non va inteso come difesa corporativa di una parte della società (gli sfruttati, gli operai, i metallurgici), poiché la lotta politica condotta dal proletariato è una lotta che è portata avanti in nome di tutta l’umanità. Quegli uomini che sono ancora oggi invisibili, che lavorano nascosti, impercettibili agli occhi di tutti, impiegati a produrre la ricchezza che sappiamo verrà distribuita in maniera ineguale, sono gli inospiti, i sommersi, che vivono in mezzo a noi in attesa di divenire “soggetti della storia”. Si potrebbe affermare che il marxismo contiene al suo interno un aspetto per così dire retroattivo, in quanto ci consente di leggere il passato (la storia dello sfruttamento perpetrato nei secoli) e di rendere non futile, inessenziale, la vicenda degli schiavi, dei servi della gleba, degli anabattisti, dei sanculotti, dei comunardi, dei soviet. Questo è il fondamento inconcusso del marxismo: l’analisi delle condizioni storiche che riguardano le maggioranze sfruttate, il modo in cui esse sono diventate classe subalterna a causa di questi portentosi processi di costruzione e trasformazione sociale di cui sono stati a malapena consapevoli. Chi ci autorizza a volatilizzare l’economia politica marxista in questo modo!?
Il problema non è quello di sottolineare l’eroismo del lavoro, la manualità, la concretezza dell’operare pratico contro le occupazioni intellettuali del resto della società, ma è quello di valutare, esaminare, studiare, le condizioni in cui viene a materializzarsi questo tipo di lavoro, quale risulta il ruolo dei contraenti, chi sono i beneficiari di tutta la pianificazione produttiva di un determinato momento storico. Schiavone sottolinea il “velleitarismo” di un certo modo di essere marxisti o comunisti, dimenticando la radice da cui tutto questo scaturisce. Il vizio di sostituire la classe operaia (ormai defunta, sic!) con gli immigrati, denunciato da Schiavone, sembra apparentemente un vizio di forma, un peccato capitale, una ottusità a buon mercato. Qui c’è del vero, solo se ci sforziamo di comprendere che quella sostituzione non nasconda il nodo effettivo del problema, la sostituzione appunto del lavoratore stabile specializzato con il lavoratore generico disponibile sul mercato, mano d’opera facilmente acquistabile e priva di tutele, l’operaio non qualificato o in procinto di tornare tale.
L’impatto della tecnica nella vita sociale di noi moderni viene fatto cominciare con la Rivoluzione Francese. E ha fatto bene Laura Pennacchi, su Il Manifesto del 22 febbraio scorso, a ricordare come Schiavone dimentichi tutta una serie di studi sul nuovo capitalismo e sulla organizzazione delle forze produttive come nei recenti rappresentanti della Scuola di Francoforte (Alex Honneth ha pubblicato, nel 2015, un volume intitolato, guarda caso, L’idea di socialismo). Mancano in questo saggio i riferimenti a tutto il dibattito novecentesco sul significato della tecnica per l’uomo, ma ci si limita a descrivere il futuro in termini di progresso lineare. Ogni innovazione tecnologica (ma la tecnica e la tecnologia sono la stessa cosa?) va salutata con il nostro sano empirismo? Non siamo riusciti ad escogitare niente di meglio?
Nessun riferimento ad Heidegger, Jünger, Anders. Quale dibattito è necessario, se non questo? Si parla al contrario di un nuovo Patto, di una nuova Alleanza, di una Pax sociale, in nome delle quali ricostruire i rapporti umani nel segno della non belligeranza (Roberto Esposito, sul quotidiano Repubblica del 7 febbraio, ha parlato di “ecumenismo globale” che viene promosso da Schiavone al posto della “lotta di classe”). L’uomo del futuro non sarà più l’espressione della sua appartenenza di classe, sarà il rappresentante della Specie, nel segno di una nuova universalità garantita dal progresso tecnologico. Il salto tecnologico, avvenuto negli ultimi due secoli, conclude Schiavone, è il nuovo motore della storia. Pochi se ne sarebbero accorti, pochissimi a sinistra.
Il terzo capitoletto è il più problematico del libro, in quanto illustra l’idea dell’umano e della sua emancipazione. Scrive Schiavone: «Perché il tema che viene in questione è quello dell’emancipazione dell’umano nella sua totalità; l’autoriconoscimento della specie come l’autentico soggetto di tutta la nostra vicenda. Una meta che la destra non può far sua. […] È invece proprio la sinistra che può essere ‒ che deve essere ‒ oggi completamente inconcludente, completamente affermativa, a pena di smentire la ragione stessa della sua nascita. In questo, essa può incontrare oggi in pieno, e riconoscere, quel carattere impersonale dell’umano ‒ dell’umano come specie ‒ che cominciamo a intravedere con maggiore nettezza rispetto al passato, al di là dell’individualismo in apparenza dominante, perché il mondo globale ce l’avvicina e ce lo rende familiare grazie alla tecnica; in un certo senso, ce lo sta rendendo addirittura quotidiano». Come non ritrovare in queste parole l’invito di sturziana memoria “ai liberi e forti” minacciati dai nuovi poteri, nella convinzione che la difesa delle antiche libertà, mosse dell’afflato cristiano, potrà da sola dare corpo alla rivincita storica dell’uomo indebolito e bastonato dagli eventi. Qui è lo stesso Vangelo a smentire questa convinzione: occorre moltiplicare i pani e i pesci per la moltitudine accorsa ad ascoltare le parole del Signore, o rileggere le magnifiche pagine dei Grundrisse di Marx. Ai piedi della Montagna del celebre Discorso vi erano i diseredati, che erano tali perché divenuti diseredati (e non specie comune dell’umano), così come nelle fabbriche moderne vi sono gli operai alle macchine, la cui emancipazione può, e deve, cominciare dall’analisi della determinata condizione storica dei lavoratori, dalla sottrazione del surplus-valore, dalle forme inedite di alienazione operaia (e umana). Queste ultime impediscono l’appartenenza degli stessi alla medesima essenza umana,o specie universale dell’umano, di cui si rivendica con forza l’appartenenza. Le destre teorizzano, dicono e fanno tutto quello che Aldo Schiavone augura alla sinistra. Con un colpo di magia, troviamo scritto nel testo, «lo sfruttamento classico ‒ quello che una volta si chiamava l’estrazione del plusvalore attraverso il pluslavoro, il lavoro cioè erogato ma non retribuito ‒ è riservato solo alle forme di lavoro a più bassa densità tecnologica, dove continua a prevalere l’aspetto puramente quantitativo dell’attività umana. […] Mentre quanto più il lavoro incorpora competenze complesse tanto più il suo rapporto con il capitale si fa equilibrato, e la differenza fra i loro redditi tende a diminuire. Perché il valore delle merci dipende ormai dalla tecnologia in esse incorporata, e non più dalla quantità di lavoro vivo necessario a produrle ecc…». Da non credere!
Il quarto capitoletto è intitolato, per l’appunto, “Un progetto e un partito per la nuova Italia”. Le espressioni ricorrenti per descrivere il “nuovo corso” hanno qualcosa di familiare, di già visto: cittadini del mondo, cosmopolitismo, postindustriale, rinascimento, impegno civile, nuova Italia, patto di salvezza, fine dell’età del lavoro, universalità della specie. Mi permetto di ridere sommessamente per il rispetto che porto verso l’illustre persona. Gli orfani del comunismo si attrezzino per far posto alla ineluttabilità della disciplina tecnocapitalista. Ripeto ancora: credo di non aver capito o di aver equivocato tutto quanto. Dapprima abbiamo assistito alla equiparazione di tecnica e capitale, dipoi abbiamo visto il sorpasso della tecnica nei confronti del capitale, che in termini marxiani significa l’organizzazione delle risorse umane, finanziarie e strumentali per l’ottenimento del profitto. Proprio ciò che Aldo Schiavone vuole ignorare. Egli chiarisce che la tecnica, pur essendo potenza, non è una “forza malefica” o non è un alleato subordinato del capitale, ma un alleato straordinario per il futuro, artefice della storia, duttile, performativo per eccellenza. Di tutto questo la sinistra dovrà prendere atto, pena la sua decadenza o scomparsa definitiva.
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