Un documentario sulla Corea del Nord

di Francesco Galofaro (Università IULM di Milano)

L’altra sera mi sono imbattuto in un documentario su Prime: “Una gloriosa delegazione a Pyongyang”. Non sapendo bene cosa aspettarmi, gli ho dato una possibilità; sono rimasto piacevolmente sorpreso. La Corea del Nord è infatti rappresentata da anni come lo Stato-canaglia per eccellenza, ricorrendo alla propaganda più inverosimile. È quel luogo dell’immaginario dove chi dissente è trasformato in cibo per cani o in proiettile per cannoni; dove esistono giovani pagati per giocare ai videogames fantasy in modo che possano rivendere le loro armi potenziate ai giocatori occidentali in cambio di denaro sonante; è soprattutto l’origine di ogni tipo di minaccia nucleare e attacco hacker. Tutto ciò, ovviamente, accadeva prima che scoppiasse la guerra tra NATO e Russia e il potere mutasse il bersaglio prioritario dei pennivendoli.

Chi si attende efferatezze tali da rivaleggiare con la fantasia di uno Svetonio rimarrà pertanto deluso; il documentario, diretto da Pepi Romagnoli nel 2018, ha lo scopo di dimostrare che la Corea del Nord, comunque la si pensi, è uno Stato normale. Quindi ho deciso di recensirlo, nonostante sia di qualche anno fa, perché è sorprendente che un’opera del genere sia finita su Prime sfuggendo alla censura ideologica del mercato.

Si racconta il viaggio di una piccola delegazione italofona in occasione dello storico incontro tra i leader delle due Coree, Kim Jong-un e Moon Jae-in. In principio si presentano i personaggi: Davide Rossi, docente e componente del Partito comunista svizzero; Pierluigi Colombini, fotografo; Barbara Clara, attrice; Ivan Senin, giornalista. Dopo una serie di difficoltà burocratiche, i quattro atterrano a Pyongyang. Discutendo tra loro senza tregua sul socialismo, ci raccontano piazze, monumenti, stazioni della metropolitana, biblioteche, locali per mangiare, fabbriche tessili, templi variopinti, parchi dove famiglie coreane e giovani si ritrovano per sereni pic-nic. Il tutto si svolge nell’ordine e nella pace, opposti alla frenesia del traffico milanese intravista nelle inquadrature che aprono il documentario. In conclusione, prima del rientro, i quattro visitano una Pechino ipermoderna, dove hanno modo di interrogare alcuni passanti imbarazzati e divertiti sull’attualità del marxismo e del socialismo.

Il documentario, come notano alcuni recensori in rete, non rispetta troppo le regole del genere. I protagonisti non fanno che discutere tra loro mentre la Corea e i suoi abitanti scorrono sullo sfondo; per quanto i quattro protagonisti siano occidentali un po’ sui generis, la loro voce si sostituisce inevitabilmente a quella dei Coreani, alimentando la curiosità dello spettatore. Per questo, il documentario rischia di cogliere solo in parte il proprio obiettivo. Detto questo, chi come me abbia partecipato a iniziative scientifiche e politiche in Cina non può non riconoscersi nell’inavvicinabilità di culture orientali che in realtà sembra non desiderino essere disturbate, anche da chi le ammira e vorrebbe rendere loro giustizia rispetto alle caricature propagandistiche. Viene il sospetto che i visitatori abbiano bensì ragione e che la Corea del nord sia una sorta di paradiso socialista, nella quale tuttavia non siamo ammessi perché non ne siamo degni. In ciò, il documentario è onesto ed autentico.

Vorrei ora proporre un’interpretazione che non ho letto nelle recensioni in circolo sulla rete, ma nemmeno troppo “laterale” o fantasiosa: infatti, perfino il titolo suggerisce che il tema del documentario sia, almeno in parte, la gloriosa delegazione. Se si tralasciano Corea e Cina, è possibile leggere l’opera come un documentario sulla condizione dei comunisti occidentali, specie italiani. Qui da noi la borghesia ha vinto la battaglia di classe anni fa; il Partito comunista e i suoi eredi si sono autodistrutti; i comunisti vivono isolati in piccole comunità; i mezzi di comunicazione e la cultura dà loro torto. Anche i nostri protagonisti vivono una sorta di discrasia tra il fare e l’essere: Pierluigi Colombini, che in Italia vende sigarette elettroniche, cattura fotografie stupende e di grande impatto; Ivan Senin vive e lavora in Italia dall’infanzia ma è ancora uno straniero in balia dei capricci della burocrazia per il permesso di soggiorno; in Corea ritrova l’Unione sovietica di quand’era bambino. Barbara Clara è attrice, ma ha una sensibilità per l’arte figurativa; così prepara e regala un collage a un rappresentante del Comitato centrale; Davide Rossi è un docente nel normalizzato campo occidentale, ma può anch’egli donare al compagno Cho il proprio libro dal titolo “L’attualità del pensiero di Karl Marx” (ed. Pgreco). La Corea appare allora come il luogo dove i protagonisti avrebbero potuto realizzare il proprio autentico potenziale, negato dalle strutture culturali ed economiche capitaliste. Con loro, anche lo spettatore ha la sensazione di attraversare la campana di vetro occidentale e di scoprire uno spazio politico culturale ancora agibile. Ad esempio, al principio del documentario Rossi è presentato mentre partecipa a un meeting internazionale della gioventù antimperialista, circondato da giovani meravigliosi che cantano Bella ciao in lingue esotiche: altri dunque rivendicano l’eredità culturale che qui da noi si è voluta cancellare. Con i protagonisti, dunque, anche socialisti, comunisti, postcomunisti e tanti altri orfani della sinistra laburista possono guardare alle esperienze orientali non tanto come a una speranza, quanto piuttosto come alla dimostrazione che lo Stato socialista esiste; che è, per certi versi, più avanzato o più a misura d’uomo del nostro capitalismo decadente; che esso è dunque realizzabile. Con questa rivendicazione disperata non può non confrontarsi quella sinistra italiana cui il capitalismo, l’Unione europea, la NATO, negli ultimi trent’anni, hanno negato perfino legittimità della ricerca di un futuro diverso e migliore.

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