
di Francesco Galofaro, università IULM
È stato ristampato per i tipi di NERO il volume Realismo capitalista di Mark Fisher, già uscito nel ’18. L’edizione inglese è del 2009. Per chi non lo sapesse, l’autore è un’icona dei cultural studies degli anni 2000. Dalle colonne di un seguitissimo blog conduceva una lucida critica al capitalismo, letto attraverso la cultura pop: cinema, fumetto, musica. È tuttora letto tra i miei studenti più svegli oltre che da giovani colleghi. Come le rockstar, morì suicida. Il che depone se non altro a favore della sua onestà intellettuale: le sue pagine descrivono un capitalismo oppressivo, asfissiante, privo di vie d’uscita, senza l’ironia e il distacco “postmoderno” che è il marchio di fabbrica di uno Žižek, e che Fisher considerava l’effetto dell’inefficacia politica degli intellettuali.
Dunque si tratta di un volume interessante, se non per i contenuti che esprime, perché è un libretto ben stampato, agile, accademicamente antiaccademico – ovvero: accurato, ma non tecnico – e dimostra che il marxismo è ancora in grado di incrociare i linguaggi dei giovani. Detto questo, a leggerlo oggi, quasi quindici anni dopo, ci si rende conto che un’epoca si è chiusa e forse se n’è aperta una nuova: dunque, si dovrebbe leggerlo anche per non infilarsi nello stesso vicolo cieco che ha caratterizzato la “critica critica” degli anni 2000.
Il punto di partenza della mia lettura è il titolo originale del volume: Is There No Alternative? Non c’è alternativa? La risposta di Fisher in realtà non sembra molto diversa da quella di Margaret Thatcher. Infatti, il motto che apre il volume è il seguente: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Una conclusione che ancor oggi, in piena guerra ucraina, sembra tenere: possiamo immaginare l’olocausto nucleare o l’apocalisse ecologica, ma la rovina mondiale coinciderà comunque con la rovina dell’occidente, con la sua incapacità di far fronte alle diverse minacce delle quali è concausa. Ho spesso pensato che il luogo comune, che vede nella Cina comunista nient’altro che una variante del capitalismo e non in grado di cogliere le differenze, tragga origine proprio dalla vittoria, dal trionfo del capitalismo nelle nostre coscienze, connesse come sono a una rete consumistico-ideologica senza uscita. È ancora questa la situazione? È definitivo il trionfo che il capitalismo ha ottenuto nelle nostre coscienze? La mia tesi è che all’epoca di Fisher non ci fosse realmente modo di aggirare il firewall occidentale, mentre oggi le mura del manicomio mostrano più di qualche crepa. Di conseguenza, per esser tale, una buona analisi politica deve saperle indicare.
Fisher ricostruisce la vittoria, politica e simbolica, del capitalismo a partire da un evento: la chiusura delle miniere in Gran Bretagna, la lotta dei minatori e delle loro famiglie e il fallimento che ne seguì (1985). Nel nostro contesto italiano un evento simile è la marcia dei colletti bianchi della FIAT contro il sindacato, nel 1980. Entrambe le vittorie fotografano rapporti di forza già mutati nelle imprese. Fisher individua le cause della sconfitta nelle ristrutturazioni che segnano il passaggio dal fordismo al postfordismo, citando Christian Marazzi, e nell’innalzamento dei tassi di interesse fino al 20% da parte della Federal Reserve il 6 ottobre 1979, che le resero possibili e necessarie. Il risultato fu l’accantonamento del keynesismo e il trionfo del liberismo non solo a livello accademico, come dimostrano i premi Nobel per l’economia del tutto “mainstream”, ma anche a livello politico, come dimostrano Reagan, Thatcher e, qui da noi, Craxi, oltre alla caduta dell’Unione sovietica e lo scioglimento del Patto di Varsavia.
Da quel momento in poi, secondo Fisher, il capitalismo non ha più avuto alternative o vie d’uscita, nonostante lo sfruttamento, la burocrazia, l’aumento delle diseguaglianze e il consolidarsi di un’oligarchia e nonostante fosse la causa di guerre, disastri ambientali, impoverimento e migrazioni. Anche da un punto di vista politico, i movimenti che a partire dal 2000 hanno tentato di mettere in discussione tutto questo hanno dato l’impressione di voler semplicemente migliorare il sistema, e di non avere la forza di cambiarlo. Questo corrisponde bene ai miei ricordi, dato che quei movimenti (penso ai “disobbedienti”) in Italia si definivano antiliberisti e non anticapitalisti. L’“anticapitalismo” divideva il movimento perché suonava vecchio, utopistico e un po’ troppo comunista. Spontaneismo e diffidenza verso le organizzazioni polithce tradizionali hanno reso del tutto vani gli sforzi di quei movimenti.
L’alternativa, dunque, ai tempi di Fisher, non c’era. Il sistema sembrava in grado di assorbire tutti i linguaggi della controcultura trasformandoli in merce – allo stesso tempo, ogni merce è stata trasformata nel linguaggio della comunicazione, del design, del marketing. Un sistema in grado di negare il reale e fingere di poter risolvere tutti i problemi. Ad esempio, il problema ambientale ambientale: il volume anticipava efficacemente il greenwashing contemporaneo.A parere dell’autore il fenomeno è talmente onnipervasivo che il suo libro è attraversato da venature nichiliste punk (“non c’è un futuro”) e consapevolmente depresse: depressione che il capitalismo causa e poi cura con pillole addossandone la responsabilità all’individuo e non al sistema che la produce. Attingendo alla propria esperienza di docente nelle scuole tecniche, Fisher descrive una generazione di giovani affetti da una depressione edonica, interessata solo a non interrompere piaceri a buon mercato che il consumismo procura tramite social network e ipod per acquisire strumenti culturali. Descrive inoltre, sotto l’etichetta di “stalinismo di mercato”, una burocrazia che sviluppa alcuni indicatori per misurare l’avvicinamento ai propri scopi, indicatori che finiscono per sostituire gli scopi stessi (altrettanto accade nell’Università italiana con le verifiche dell’ANVUR). Descrive infine un sistema in cui il lavoratore è schizofrenicamente scisso tra la volontà di migliorare le proprie condizioni di lavoro e quella di trovarsi un lavoro migliore, adottando strategie di adattamento individuale in vista del successo. Successo rappresentato da null’altro che merci e piaceri forniti dal sistema, il desiderio dei quali è indotto dal sistema stesso. Per quanto Fisher legga e citi Deleuze e gli spinozisti contemporanei, una timida critica alla reale efficacia delle politiche basate sulla liberazione del desiderio emerge qua e là nel volume, data la capacità del capitalismo di incorporare, riprodurre, sostituire, trasformare il desiderio.
Vediamo ora alcuni punti deboli dell’analisi di Fisher, che sono, a parer mio, rappresentativi del pensiero filosofico-politico più o meno critico di quel periodo. In primo luogo, si tratta di un punto di vista etnocentrico-occidentale. Gli anni della globalizzazione non eliminano, in realtà, il fordismo né lo sfruttamento disumano; si limitano a trasferirlo, insieme con le produzioni più inquinanti e i rifiuti tossici, nel terzo mondo. Perché l’Europa e il Nordamerica passassero a un’economia post-industriale e post-autoritaria, miliardi di persone hanno dovuto assoggettarsi a un capitalismo autoritario e repressivo. La finanziarizzazione dell’economia non risolve i problemi strutturali dell’economia capitalista, oltre a causarne di nuovi: lo dimostra la caduta tendenziale del tasso di profitto, la delocalizzazione della produzione di merci, la creazione di bolle speculative e la crisi del 2008. Una crisi di cui Fisher non ha visto la fine: a lui suggeriva solo l’ipocrisia dei liberali, pronti a chiedere l’intervento statale senza mettere in discussione il paradigma che garantiva loro il potere. Non ha visto, nel corso del decennio successivo, la via della seta cinese e la sua fisionomia culturale anticoloniale; la dialettica servo-padrone rovesciare i rapporti di forza tra occidente e oriente; l’incapacità del capitalismo a far fronte alla pandemia e ad evitare la guerra.
Un secondo problema ha proprio a che fare con la categoria di “burocrazia” e con la presupposizione che il sistema capitalista sia entrato in uno stato di decadenza post-disciplinare, fatto di lavori in cui ci si deve autovalutare, in cui la funzione di controllo, non più visibile, è introiettata dal lavoratore. Potrei dire: un sistema in cui il lavoratore-modello non è più l’operaio, ma un impiegato fantozziano. Al contrario, la realtà dello sfruttamento nei luoghi di lavoro ha preso una piega ben diversa: il bezoismo, il controllo degli algoritmi sul raggiungimento degli obiettivi, sui tempi delle pause di lavoro e per andare in bagno, miranti a imporre il “ritmo Amazon” ai tempi del lavoratore; la gig economy, il lavoro a chiamata; il finto lavoro autonomo che in realtà nasconde rapporti di subordinazione e di sfruttamento inumani; tutto lascia pensare che la nuova civiltà dell’informazione abbia riportato indietro i rapporti di sfruttamento a quelli che precedono le grandi conquiste del lavoro. Dunque, l’equazione tra fine del fordismo e fine dello sfruttamento si è rivelata, con il tempo, inaccettabile. A mio parere, non lo si è visto perché si è utilizzata in maniera sbagliata l’etichetta di burocrazia. I socialisti inglesi (e molti trotzkisti) hanno spesso fatto della burocrazia una categoria d’analisi elevandola da fenomeno da spiegare a quello di strumento di spiegazione. Fisher usa l’espressione “stalinismo di mercato” per indicare la burocratizzazione delle società capitalistiche a cavallo degli anni 2000. Essa può sembrare efficace, denunciando il fatto che il capitalismo è divenuto simile al sistema che ha combattuto e vinto; al contempo è sintomatica, perché manifesta l’incapacità dei socialisti di interpretare la burocrazia attuale come frutto genuino del capitalismo stesso e dei suoi mutamenti.
Infine, come scrivevo, quanto scrive Fisher mostra i limiti di un approccio marxista che non riesce a indicare, oltre la critica, l’alternativa politica praticabile. Fisher rimane vittima del There is no alternative che intende denunciare. La crisi economica attuale non è dettata da politiche speculative, mutui subprime e titoli derivati. A fallire, come nel caso della Silicon Valley Bank, sono istituti di credito che hanno incorporato titoli di stato a lunga scadenza. Con l’aumento dei tassi di interesse per contrastare l’inflazione, la vendita di questi titoli per ottenere liquidità ha generato una perdita, perché l’aumento dei tassi di interesse della Fed ne ha fatto scendere il rendimento. Ad essere in crisi, oggi, sono gli Stati occidentali: se da un lato hanno subordinato allo sforzo bellico ogni altra considerazione economica, generando quell’inflazione che fino a ieri era il male assoluto, dall’altro combattono l’inflazione stessa presentando il conto ai lavoratori, alzando i tassi e deprimendo la crescita di salari e consumi. Se gli stessi politici che ieri chiedevano il ritiro dello Stato dall’economia e denunciavano lo Stato-balia oggi chiedono l’aumento della spesa statale (o il PNRR europeo) contro crisi economiche sempre più frequenti, come notava già Fisher nel 2008, questo è perché oggi la guerra e le sue categorie hanno sostituito l’economia come strumento di discernimento del bene dal male, le scelte politiche giuste da quelle sbagliate. La fede nella capacità del capitalismo di far fronte a ogni sfida, crisi o emergenza non è più così granitica nel senso comune; a partire da questo spiraglio, l’analisi può di nuovo pensare un’alternativa.
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