di Michele Carozza
Alti ufficiali e funzionari del Terzo Reich, giovani giuristi e accademici, chiamati a risolvere gli enormi problemi posti dall’impresa nazista in termini di mobilitazione delle risorse e organizzazione del lavoro, che elaborano una concezione del lavoro paradossalmente non autoritaria – “un modo di lavorare «con gioia» («durch Freude») che si è diffuso dopo il 1945 e che oggi, in un’epoca in cui si ritiene che l’«impegno», la «motivazione» e il «coinvolgimento» dipendano dal «piacere» di lavorare e dalla «benevolenza» della struttura, ci è ormai familiare”. E che dopo la disfatta si ricollocano come professionisti della leadership e del management. È questo l’oggetto storico di Nazismo e management. Liberi di obbedire (Johann Chapoutot, Einaudi, 2021).
Attraverso la vicenda emblematica di Reinhard Höhn, generale delle SS ma anche intellettuale tecnocrate al servizio del Terzo Reich, sfuggito ai processi del dopoguerra e fondatore nel 1956 di una scuola di formazione al management (dalla quale, negli anni, passeranno circa 600.000 dirigenti d’azienda), Chapoutot, autorevole storico del nazismo, mette in luce il legame profondo tra l’ideologia e l’organizzazione naziste e le tecniche di direzione aziendale adottate anche dopo la disfatta del Reich, fin quasi ai giorni nostri.
Se infatti le vite e le idee dei criminali nazisti ci appaiono oggi “decisamente estranee” per la brutalità e la violenza, il fanatismo e la mediocrità, ci sono tuttavia “impressioni di contemporaneità, momenti in cui, alla lettura di una parola o di una frase, il passato appare presente” e gli stessi criminali nazisti ci sembrano “stranamente vicini, quasi nostri contemporanei”.
Sono davvero tanti gli elementi di continuità con il nostro mondo. A partire dal linguaggio. Efficienza, elasticità, flessibilità, obiettivo, missione, responsabilità. Un lessico, quello utilizzato dai tecnocrati nazisti nell’elaborazione teorica dell’organizzazione del lavoro e l’amministrazione delle risorse umane (Menschenmaterial), che ci suona fin troppo familiare, troppo simile a quello delle narrazioni mainstream del libero mercato, dell’iniziativa privata, dell’impresa. Una terminologia pericolosamente vicina a quella in uso nelle aziende dei nostri giorni, che ormai permea anche la politica. Ancora: il merito come capacità di portare a termine le missioni assegnate, di raggiungere gli obiettivi prefissati dall’alto, senza porre domande, che inevitabilmente si traduce in attitudine a compiacere i superiori. E il conseguente proliferare di ruoli e posizioni di capi e capetti, lungo tutta la struttura verticale dell’organizzazione. Ma anche, scandalosamente simili agli argomenti che hanno fatto la fortuna di molti dei nostri politici-imprenditori: l’attenzione al decentramento e alla semplificazione, l’insofferenza per lo stato – dai teorici nazisti contrapposto alla razza – e la profonda avversione per la burocrazia che intralcia e impedisce il libero sviluppo dell’iniziativa individuale. Senza considerare l’interesse perverso del regime per il benessere dei lavoratori (quelli di razza germanica) ai quali organizzare persino il tempo libero e le vacanze, ottenendo in un colpo solo di guadagnarne il consenso e controllarne la vita extra-lavoro. Oppure il consumo massiccio di metanfetamine, prescritte dai medici a soldati e lavoratori, per aumentare i tempi di attività ed accrescere le capacità operative che richiama alla mente l’analogo fenomeno oggi conclamato del ricorso a stupefacenti per reggere lo stress da lavoro e migliorare le performance. Se è errato far discendere il management dal nazismo (lo sviluppo di questa disciplina precede cronologicamente l’avvento del Terzo Reich), è davvero difficile non rilevare una genealogia comune ai due fenomeni (dal darwinismo sociale al taylorismo) e distinguerne nettamente le evoluzioni.
Sottolinea Chapoutot che, paradossalmente, da una trentina d’anni, gli studi tendono ad evidenziare come, in ambito culturale e sociale, “il Terzo Reich fu un regime partecipativo, in quanto mirava a creare consenso”. Sul piano ideologico, la comunità di popolo fondata sulla razza e guidata dal Fuhrer che ne interpreta la volontà, assicura ad ogni tedesco la sopravvivenza nella lotta per la vita, in concorrenza con gli altri popoli e le altre razze – siamo negli anni in cui il darwinismo sociale si estremizza e si diffonde. Nella comunità di popolo gli antagonismi di classe sono annientati, superiori e subordinati cooperano alla conquista dello “spazio vitale”. Essa è il modello per l’organizzazione della produzione.
Si trattava, per i teorici come Reinhard Höhn, di elaborare un metodo di organizzazione da applicare nella fabbrica, nella pubblica amministrazione o nell’esercito, che garantisse il massimo impegno, la massima produttività: ogni lavoratore, ogni impiegato, ogni soldato doveva essere motivato nell’esecuzione dei suoi compiti e sentirsi partecipe della comunità, doveva avere la piena libertà nel realizzare gli obiettivi che gli venivano assegnati ma non doveva avere alcun modo di determinarli. Ai subordinati il compito di scegliere i mezzi migliori per l’esecuzione degli ordini impartiti, liberi di obbedire appunto, a qualunque costo, con la promessa di una promozione e di una paga più alta. Dovevano sentirsi responsabili del proprio operato senza possibilità alcuna di partecipare al processo di direzione, rispondere di quel che facevano senza poter decidere cosa fare – ed è sconcertante, al termine della lettura, scoprire con quanta facilità, passato indenne attraverso il periodo della denazificazione, e dopo aver ripulito le proprie idee dalle ormai inutilizzabili teorie sulla razza, Reinhard Höhn abbia potuto diffondere fin quasi ai giorni nostri le stesse tecniche di gestione che aveva elaborato per il Reich, attraverso corsi e pubblicazioni accolti e promossi dal consenso dell’industria tedesca.
Se, nelle ultime pagine, appaiono ormai chiare l’attualità dei temi trattati e le inquietanti analogie tra le tecniche di management naziste e la moderna direzione aziendale, non del tutto convincenti e forse un po’ naïve ci sembrano le proposte dell’autore davanti al problema della libertà nella società politica e all’interno di organizzazioni complesse. Rifacendosi a Rousseau, Proudhon e Courbet, sembra voler superare l’alienazione del lavoro subordinato col rifiuto anarchico della subordinazione stessa (gerarchia, autorità, coercizione) e il ritorno al lavoro indipendente e a forme meno complesse di organizzazione (“una nuova società politica senza società economiche”). E confidare un po’ troppo ottimisticamente nell’effetto di circostanze che ancora non vediamo ma capaci di rivelarci il “carattere totalmente irrealistico della nostra organizzazione economica” e di convincerci a rivedere i nostri “valori” e il nostro modo di vivere.
Comunque un bel libro, insolito, in tempi di neoliberismo imperante, revisionismo dilagante e vergognose risoluzioni europee che equiparano i nazisti ai loro più strenui nemici, per non dover riconoscere quanto di quel sistema criminale sopravvive ancora nel nostro sistema economico e nella nostra organizzazione sociale. Una conferma di tante impressioni, una sintesi di tanti indizi per chi ha resistito e resiste in quei luoghi (fabbrica, officina, ufficio, magazzino, – ma anche scuola, università, ospedale) dove si impongono le logiche aziendali e sulla cui soglia si arresta la democrazia.