Musica e impegno. Appunti per un dibattito

Uno degli elementi essenziali nella lotta per una nuova cultura è la ri – cer ca di paradigmi di consumo basati sulla consapevolezza. Ogni pro – dot to di consumo, ogni merce “è pri ma di tutto un oggetto esterno, u na cosa che mediante le sue quali – tà soddisfa bisogni umani di un qual siasi tipo. La natura di questi bi – so gni, per esempio il fatto che essi pro vengano dallo stomaco o che pro vengano dalla fantasia, non cam bia nulla”1. Anche la musica è merce. Una mer – ce che è prodotta dall’industria culturale, nell’ambito di una filiera produttiva, e che è consumata in modalità determinate. Scopo di queste no – te è quello di riprendere un ragiona – mento circa le relazioni tra modello di produzione e modello di consumo, senza alcuna pretesa esaustiva, con l’unica ambizione di stimolare un dibattito ed una iniziativa da lungo tempo carente2.

MUSICA MERCE E FILIERA PRODUTTIVA

Il bisogno di “suoni umanamente organizzati”3 è comune, sia pure in forme diverse, a tutte le aggregazio – ni umane che si conoscono. Per soddisfare tale bisogno è oggi necessario consumare merci-performance (concerti dal vivo) e/o merci-registrazione (suoni congelati su supporti fisici – Cd o Dvd ad esempio – o in files digitali)4. Intorno a queste merci si è costituita una complessa filiera produttiva5 che comprende, a monte, l’industria editoriale delle partiture e di tutte le pubblicazioni del settore, l’industria degli strumenti musicali e le attività di formazione (pubbliche e private). Il nucleo centrale della filiera è costituito dagli editori (proprietari delle musiche e dei di – rit ti di autore) e dai discografici (realizzatori dei fonogrammi e proprietari dei diritti relativi), figure che possono coesistere in un unico soggetto imprenditoriale; da distributori di merci-performance, cioè organizzatori a vari livelli di concerti ed eventi dal vivo; da distributori di merci-registrazione in forma di supporti (nei punti di vendita fisici) o in forma di file (sulle reti o mediante telefonia mobile); da imprese che cooperano alla produzione di merci-performance (service audio, logistica ecc.) o di merci registrazione (studi di produzione, stampatori ecc.). A valle della filiera produttiva si erge l’industria dell’elettronica di consumo che fornisce i dispositivi che consentono di leggere i supporti o i file sonori e tutti gli elementi della catena elettroacustica (lettori Cd, lettori Dvd, impianti hi-fi domestici, lettori mp3, walkman ecc.). In questa filiera capitalistica operano, con tutta la complessità tipica della odierna stratificazione delle figure sociali, lavoratori impegnati nella produzione dal vivo o in studio della musica (compositori, strumentisti, parolieri, tecnici), nella promozione, nella distribuzione, nell’organizzazione di eventi, nelle varie produzioni industriali (editoriali, di strumenti, di elettronica di consumo). Esiste, come è evidente, una limita – ta mobilità sociale che coinvolge soprattutto coloro che riescono, a vari livelli, ad entrare nello star system, e quindi si trasferiscono in toto o in parte sul versante di chi beneficia dei profitti, a fronte della larga massa dei lavoratori che mantiene un profilo salariato (che siano, o meno, lavoratori dipendenti o “autonomi”). Con la produzione mercantile si in- treccia l’intervento pubblico che, in differenti forme a seconda delle varie tradizioni nazionali e delle contingenze politico-economiche, da un lato sostiene l’industria musicale (basti pensare ai diritti pagati dall’emittenza radio-televisiva pubblica oppure alla committenza pubblica di spettacolo da parte degli enti locali) e, dall’altro, ha garantito la sopravvivenza museale delle più importanti forme musicali del passato “eurocolto”, come l’opera li ri ca o la musica sinfonica, legate ad iniziative di tipo privato associativo non riconducibili ad una pura e semplice logica del profitto. Questo elemento ha incarnato una sorta di “stato sociale” della musica che è stato messo in discussione da una trentina d’anni, insieme al corpo centrale del “welfare state”, dall’ondata neoliberista che cerca di imporre la logica dello sponsor privato (interessato solo all’impatto pubblicitario degli eventi musica – li)6 e taglia a man bassa i finanziamenti pubblici (come le vicende degli ultimi anni, italiane e non solo, stanno vistosamente a testimoniare).

IL CONSUMO

Le merci-musica sono consumate da un utente finale. Ma possono, altresì, costituire un input produttivo per altri settori industriali: suonerie usate nella telefonia cellulare; suoni usati negli ambienti di lavoro per aumentare la produttività dei lavoratori; suoni usati “da protagonisti” in attività ludiche e ricreative (radio, tv, discoteche, palestre, scuole di ballo); suoni usati “da sfondo” in tutte le attività commerciali per attrarre i clienti; suoni usati come com ponente di prodotti multimediali (film, pubblicità, tv). Gli aspetti quantitativi del mercato sono abbastanza imponenti: la filie – ra musicale in Italia muove un volu me di affari di 3,9 miliardi di euro, a confronto con gli 8,5 della televisio ne, i 5,4 dell’editoria quotidiana e perio – dica, i 4,1 dei libri, gli 1,7 del cinema. Questo fatturato è così suddiviso (in miliardi di euro – vedi tabella): Si noti la presenza massiccia della dimensione dell’ascolto “privato” in spazi pubblici, con le cuffie del walkman (audio portatile) o gli altoparlanti dell’impianto stereo in automobile (car audio), che segnalano l’importanza assunta dall’ascolto mediato “mobile”. Il capitale realizza profitti venden – do merci fonografiche e incassando royalties (diritti editoriali e fonografici) dall’uso delle musiche nei differenti contesti. La parola d’ordine dell’industria non può che essere quantità: vendere quanto più possibile, incitare a consumare musica quanto più possibile, sia i consumatori privati che le imprese, indurre ad una sorta di bulimia sonora. Il problema non è “quale musica”, il valor d’uso dei suoni-merce è del tutto indifferente al capitale che se ne occupa solo in modo subordinato alla realizzazio – ne del valore: il problema è “quan – ta musica”, quindi tutto ciò che può aumentare a dismisura i consumi (innovazioni tecnologiche, innova- zione di stili e comportamenti ecc.) è benvenuto. Il mercato musicale è, quindi, il cam po di confronto dialettico tra il marketing del capitale ed i bisogni culturali che provengono dagli ascoltatori.

L’ASCOLTATORE

È lecito, quindi, chiedersi (come naturalmente fanno le imprese cercando di disegnarne il profilo) “chi sia” l’ascoltatore, per cercare di opporre alla monocultura della valorizzazione del capitale un punto di vista alternativo che parta dal valore d’uso del suono. La dimensione collettiva “dal vivo” dell’ascolto di musica, l’ascolto diretto, sono oggi assolutamente secondari. Il fruitore di musica è, infatti, anzitutto un consumatore solitario di musica registrata: ascolto mediato intenzionale. La musica è utilizzata, in ambito domestico, prevalentemente come sfondo per altre attività (lavoro, vita domestica, tempo passato sulle reti telematiche); in ambito “pubblico”, attraverso le cuffie del walkman o gli altoparlanti del car audio, è possibile ricostruire uno spazio di ascolto privato, anche in questo caso prevalentemente sfondo per altre attività (spostamenti in auto o con altri mez zi, attese, acquisti). Ma l’ascolto mediato può anche essere non intenzionale: il suono proveniente da onnipresenti altoparlanti punteggia la vita sociale quotidiana. Nei posti di lavoro, negli esercizi commerciali ed in molti studi professionali, nei mezzi di trasporto pubblico, i suoni musicali si mescolano alle sonorità del paesaggio acustico fino a fondersi. Un fenomeno analogo avviene con un comparto non indifferente della musica dal vivo: quello relativo ai concerti che avvengono in spazi non esplicitamente musicali, come bar e pub, nei quali, come è noto, non solo non è richiesto il silenzio durante le esecuzioni ma anzi programmaticamente la musica convive con i suoni del parlato degli avventori e delle attività legate alla ristorazione. Il problema dell’attenzione si pone, dunque, in modo pressante. Certamente in tutte le epoche la mu sica ha incrociato variamente le altre attività umane: soltanto la moltiplicazione di altoparlanti e di registrazioni, però, ha potuto trasformare il suono musicale in presenza ubiqua ed inevitabile.

L’ATTENZIONE

Quasi 50 anni fa, in un’epoca in cui la proliferazione dei suoni, nel pubblico e nel privato, non aveva ancora raggiunto il parossismo odierno, Umberto Eco scriveva: «Il disco, la radio, la filodiffusione e il juke box provvedono all’uomo di oggi una sorta di “continuum” musicale nel quale muoversi in ogni momento della giornata. La sveglia, i pasti, il lavoro, le compere nei grandi magazzini, il divertimento, il viaggio in macchina, l’amore, la gita in campagna, il momento che precede il sonno si svolgono in questo “acquario sonoro” in cui la musica non è più consuma ta come musica ma come “rumore”. Questo rumore è diventato a tal punto indispensabile per l’uomo contemporaneo che solo tra alcune generazioni sarà possibile rendersi conto dell’effetto di tale pratica sulla struttura nervosa dell’umanità»7. È forse già tempo di qualche bilancio, che si presenta inquietante. L’uso abituale della musica registrata, di sfondo ad un numero crescente di attività svolte contemporaneamente, è tipico dell’era del – l’ “at tenzione parziale conti nua”8. Si tratta dello stato ormai abituale degli individui, soprattutto giovanissimi ma anche giovani, che vivono immersi in un universo mediatico col quale interagiscono in una sorta di multitasking umano: così come il computer consente di “far girare” numerose applicazioni contemporaneamente, allo stesso modo gli umani tentano di dividere la loro attenzione tra i numerosi dispositivi elettronici (telefono cellulare, posta elettronica, navigazione web, attività lavorativa in rete o sul desktop e, appunto, ascolto di musica) 9. Magari queste attività si svolgono in una abitazione o in un ufficio dove esistono altri stimoli visuali o sonori o, al limite, in spazi pubblici aperti (stazioni, parchi, centri commerciali, bar, pub ecc..) ove gli stimoli si moltiplicano. La “generazione multitasking”, esposta in situazioni limite a sindromi come il “disordine da iperattività e deficit di attenzione”, matura spontaneamente una pratica di ascolto che va ben oltre quella dello stesso ascolto “distratto”. Il tutto è connesso anche alla perdita dell’idea di ascolto intenzionale e di spazio dedicato all’ascolto, in quanto si ascolta spesso in spazi pubblici che, come è ovvio, ospitano suoni che nessuna relazione hanno con la musica fruita intenzionalmente. Non si vuole, qui, demonizzare l’ascolto distratto: tale ascolto, quello praticato facendo altre cose, è tipico delle tradizioni popolari, ma anche di tanta musica di corte fino a tutto il 1700: si propone solo di introdurre, anche nelle pratiche di ascol – to, un concetto di limite, il limite fisiologico dettato dalla struttura della percezione e dalla fisiologia del cervello umano che, cercando di fare troppe cose allo stesso tem – po, perde di efficienza e sopporta livelli di attenzione sempre più ridotti.

CONSUMI, GENERI E IDEOLOGIA

Individuata la soglia oltre la quale un ascolto distratto diventa “ascolto patologico”, rumore di fondo allo stato puro, si può cercare di ragionare sui gusti e sulle tipologie di consumo. L’articolazione dei gusti musicali, si manifesta attraverso la «strutturazione dei canali radiofonici musicali, le distinzioni fra categorie “popular” e “classica” delle case discografiche, e l’organizzazione della pubblicità e dell’immagine per genere e per gusti del pubblico, [che] sono mirate a una categorizzazione e una valutazione degli stili e del pubblico musicali, che sono convalidate sia ideologicamente sia in termini di postulati di posizione di classe e di mobilità sociale [..]»1. Il piacere ed il valore che figure sociali diverse attribuiscono ai generi musicali, l’articolazione sociale dei gusti musicali, “l’organizzazione dei piaceri e dei valori culturali in termini di differenziazione da un lato, e il consenso di coloro che sono stati appunto differenziati nella spartizione dei piaceri, dall’altro lato, risalgono [..] a quel momento tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX che vide la nascita dell’estetica moderna, della mercificazione delle pratiche del tempo libero, e degli interventi espliciti dello stato nella gestione del benessere culturale del popolo”. I “discorsi sulla musica” tendono a legittimare distinzioni ideologiche basate sul “buon senso” come quelle che opporrebbero la popular music o il jazz alla musica d’arte classica o contemporanea in nome “della semplicità, della capacità comunicativa, del gradimento di massa ecc.”. In realtà, le distinzioni, oggi come ieri, sono ben più complesse “di quan to non possa circoscrivere una semplice dicotomia colta/popular (dominante/subordinata) di linguaggi e di estetica musicale e non possono essere facilmente rappresentate in base a un qualsiasi sche – ma ideologico rigido. Queste distinzioni dividono generi e stili, ma a volte li attraversano e li mettono in relazione, e a volte producono varianti socialmente ed esteticamente stratificate di un singolo genere (come il valzer), possono persino operare all’interno dei generi, sintetizzando diverse modalità di piacere in nuovi ibridi (come il rock progressivo) o scardinandole sulla linea delle loro contraddizioni (come il punk)”. Tra la dinamica del mercato musicale, quindi, e la lotta ideologica tra opzioni diverse (differenti discorsi sulla musica) si instaura una complessa interazione : “il lavoro ideologico responsabile dell’organizzazione sociale del gusto musicale non è il prodotto di una ideologia semplice ed identificabile, e ancor meno è riducibile a forze economiche di classe: semmai è l’articolazione e inflessione di una molteplicità di linee di forza, associate con differenti luoghi, pubblici, media, apparati di produzione e discorsi, che insieme creano le posizioni musicali a noi disponibili sulla mappa del piacere”10.

CONDOTTE MUSICALI

Ma se il concetto di “sapere” musicale rischia di essere invischiato nella lotta tra complesse opzioni ideologiche contrastanti (il “colto”, il “popolare”, l’”autentico”, il “mercificato”, il “puro”, il “di sinistra o di destra”), esiste, invece, un terreno sul quale basarsi per disegnare i bisogni e ipotizzare consumi alternativi al dogma “consumistico”? Una ipotesi seducente è proposta dal modello delle condotte musicali11 che Delalande definisce a partire dalle riflessioni di Piaget intorno al gioco infantile: la musica è gioco senso-motorio, mirante ad usare il corpo in modo coordinato per produrre-ascoltare suoni; la musica è gioco simbolico, mirante ad evocare con i suoni qualcosa che non è di natura sonora; la musica è gioco di regole, mirante a descrivere nella mente una sorta di geometria sonora in movimento. “Attraverso le fasi del gioco sensomotorio, simbolico e di regole – scri – ve Delalande – vediamo costruirsi progressivamente le sfaccettature delle condotte musicali dell’adulto, quale che sia la sua origine geografica [..] se la musica è un fatto universale, è perché risponde a una motivazione più generale rispetto alle diverse culture, una motivazione che si manifesta, progressivamente, nel bambino”. Una cultura dell’ascolto articolata, una “dieta” equilibrata, comporta quindi una fruizione ricca che attraversi modalità differenti di relazione col suono e riconosca le differenti funzioni delle musiche o differenti modalità di fruizione nell’ambito della stessa musica: l’attenzione al corpo, alla metaforizzazione, alle relazioni tra materiali antecedenti e risposte conseguenti, fra “tema” e “risposta”. Il marketing, al contrario, tende a confezionare e a vendere modelli di con- sumo e di comportamento, stili costruiti attraverso la ricerca di un target cui spacciare la merce adatta facendo leva sulle differenti ideologie ossificanti del sapere musicale12. Per praticare la varietà e vivere la musica nella sua ricchezza di dimen – sioni è necessario non lasciarsi ridurre in un ghetto sottoculturale (una volta individuati i tratti della sottocultura spontanea – oppure creata ad arte “in vitro” una sottocultura virtuale – il capitale non avrà alcuna difficoltà a trasformarla in uno dei tanti segmenti del mercato per produzioni basate su cliché idonei per la produzione in serie). Non lasciarsi ridurre ad una modalità unica di fruizione, mediata o diretta. Ma, invece, considerarsi parte di un complesso ecosistema musicale nel quale cercare una situazione di equilibrio: tra consumo di musica dal vivo e consumo di musica registrata, tra modalità distratta di ascolto e forme di attenzione più partecipi, tra vita in ambienti sonori a bassa fedeltà e ambienti hi-fi13; tra ascolto “privato in pubblico” utilizzando dispositivi che creano spazi d’ascolto personali (cuffie del walkmano car audio) e ascolto in spazi che consentano maggiore isolamento dai suoni extramusicali del paesaggio, in pubblico (sale da concerto) ed in privato (impianto stereo domestico); tra suono e silenzio, recuperando la dimensione terapeutica del silenzio che, in quanto non-consumo, ha acquisito una valenza negativa mentre si tratta di una indispensabile esigenza di ripiegamento e raccoglimento. Ma anche riequilibrio tra le condotte musicali considerando, rispetto a quella che può essere la propria condotta dominante, l’esistenza di altre possibilità: non esiste, ad esempio, solo una modalità “corporea” di fruire la musica né, al contrario, chiedersi “che vuol dire? a cosa fa riferimento questo suono?” è sempre utile e necessario, né, infine, l’analisi strutturale di un pezzo può escludere la dimensione simbolica o il gioco senso-motorio. Contro l’unilateralità, si deve cercare di essere consapevoli delle scel – te sonore e ricche di variabili possibili di consumo, non irrigidirsi dentro un universo musicale, ma essere nomadi tra i generi e, conseguentemente, visitatori di spazi differenti come le sale da concerto, le discoteche, i palazzetti dello sport e non solo dello spazio virtuale del proprio walkman. Questa ricchezza di consumi, ovviamente, richiede reddito disponibile (e una democratizzazione dell’offerta attraverso l’intervento pubblico); allo stesso tempo, tale varietà non potrebbe che aiutare i “lavoratori della musica” ad emancipare la propria produzione musicale dagli stereotipi “suggeriti” dal marketing14 ed a spingerli a battersi per emanciparsi dalla schiavitù dell’industria culturale. Il discorso andrebbe allargato, ma qui è necessario concludere.

Note

1 Karl Marx, Il Capitale, Libro I, Ed. Riuniti, Roma, 1967, p. 67.

2 Mario Gamba, “Sai che ti dico? Che agli intellettuali italiani la musica non interessa per niente”, in Alfabeta2, n.1, Mu dima, 2010, p. 43

3 “La musica è un prodotto del comportamento dei gruppi umani, a prescindere dal loro grado di organizzazione: è suono umanamente organizzato. Nonostante le diverse società tendano ad avere idee differenti su cosa sia la musica, tutte le definizioni si fondano su un qualche consenso circa i principi secondo cui i suoni dovrebbero essere organizzati, un consenso di questo tipo non potrebbe esistere, se mancasse una base di esperienza comune e se più persone non fossero in grado di riconoscere delle strutture nei suoni che giungono alle loro orecchie”. John Blaking, Come è musicale l’uomo, Ricordi Unicopli, 1986, p.33

4 Per non appesantire il testo astraiamo dalle merci interattive, cioè dai dispositivi hardware e software che producono suoni solo attraverso la cooperazione continua del fruitore, così come tanti “oggetti virtuali” presenti sul Web.

5 Lo schema della filiera e le tabelle con i dati che seguono sono tratti da Università Iulm – Fondazione Iulm, Economia della musica in Italia Rapporto 2009,http:// www. fimi.it/ pdfddm/Economia della mu sica 2009.pdf.

6 Luigi Pestalozza, “Finanziamento pubblico e privato della musica in Italia”, in Musica/Realtà, n. 65, Lim, 2001, ripubblicato sulla stessa rivista, n.92, 201, p.159

7 Umberto Eco, “La musica e la macchina”, in Apocalittici e integrati, Bompiani, 1984, p.299

8 Marco Niada, Il tempo breve, Garzanti, 2010.

9 Marco Mancassola, “Gli ambigui vantaggi dell’eterna presenza”, in Il manifesto, 11 giugno 2010.

10 Richard Middleton, Studiare la popular music, Feltrinelli, 1992.

11 François Delalande, Le condotte musicali, Clueb,1993.

12 Per esempio l’ideologia che «distingue la musica non in generi – i generi si distinguono in base alla storia e alla funzionema in “repertori”, il “repertorio gregoria – no”, il “repertorio classico”, il “repertorio folkloristico” eccetera. Il concetto è merceologico: le musiche si “reperiscono” sul mercato, sono come merci sempre di- ponibili ad libitum sugli scaffali del Grande Magazzino della Musica». Lorenzo Bianconi, “La musica al plurale” in C’è musica e musica. Scuole e cultura musicale, a cura di L. Zoffoli, Tecnodid, 2006 (anche on line http://www.saggiatoremusicale.it – /saggem/ricerca/bibliografia/bianco ni_musica_al_plurale.pdf).

13 “Un ambiente Lo-fi è un ambiente in cui i segnali sono così numerosi da sovrapporsi, con il risultato di mancanza di chiarezza e presenza di effetti di mascheramento [..] Un ambiente hi-fi è quell’ambiente in cui i suoni possono essere percepiti distintamente, senza che vi siano affollamento o effetti di mascheramento”. R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, Ricordi Lim, 1985. 14 Emblematico, in proposito, l’episodio del gruppo giovanile che si è presentato alcuni anni fa alle selezioni di X-Factor con un pezzo di musica polifonica a cappella tratto dal repertorio folklorico. Mara Maionchi, che svolge nella trasmissione e nella vita professionale il ruolo di interfaccia tra l’industria culturale ed il mercato “scoprendo talenti”, inorridita, ha “invitato” i ragazzi a desistere da quella scelta, “poco giovanile” e li ha indirizzati verso un repertorio più “consono”.