di Marco Pondrelli
Dopo l’89 il dibattito fra i comunisti si è concentrato, spesso malamente, sulle cause delle sconfitta dell’esperienza sovietica. Lo stesso non si può dire per la crisi della socialdemocrazia classica e dello stato sociale, la cui analisi è stata confinata al dibattito accademico non divenendo parte del confronto politico. Il post-Bolognina va capito considerando che l’arrivo alla consacrazione socialdemocratica (già avviata da tempo) del PCI è giunto mentre la socialdemocrazia era in profonda crisi. Di fronte a questa contraddizione la strada scelta è stata quella di guidare la svolta liberale del paese, attaccando i governi di destra per l’incapacità di privatizzare e liberalizzare. Paradossalmente la ‘rivoluzione liberale’ in Italia è stata fatta dalla sinistra. Questa politica ha ampliato le diseguaglianze, ha aumentato la povertà e la precarietà, non è un caso se, come notava pochi giorni fa Luciano Canfora in un’intervista, la sinistra è forte nei quartieri ricchi e regala le periferie a Salvini e alla Meloni.
Ad Alfredo D’Attorre va riconosciuta non solo una grande onestà intellettuale, che lo portò parlamentare pd ad Atene per sostenere il referendum anti-austerity, ma anche una grande preparazione teorica. Pur nelle diversità di opinioni è interessante mantenere un dialogo con una sinistra non comunista ma comunque critica verso l’ordoliberismo.
Al centro del libro c’è l’Europa vista nella sua reale dimensione e non nelle letture addolcite dalla retorica degli Stati Uniti d’Europa. L’Autore parte dalla nascita europea che, nell’ambito dello scontro URSS-USA, colloca il nuovo esperimento sulla sponda atlantica quindi, come sostenuto anche da Luca Cangemi, quando si parla di Unione europea non si parla di Europa ma di una parte di essa.
La UE odierna nasce alla fine degli anni ’80 e nasce nel solco dell’ordoliberismo dandosi l’obiettivo che D’Attorre definisce della spoliticizzazione. Questo tema aveva già occupato il dibattito politico-teorico durante la Repubblica di Weimar ed è stato affrontato anche da Domenico Losurdo nella prefazione al ‘Manifesto del Partito Comunista’, laddove sottolinea il rifiuto di Marx ed Engels dell’idea liberale di un’economia impermeabile alle scelte politiche. Losurdo cita Tocqueville che afferma che le leggi economiche sono ‘in qualche modo di diritto divino, in quanto scaturiscono dalla natura dell’uomo e della struttura stessa della società, sono collocate al di fuori della portata della rivoluzione'[1]. Per Marx ed Engels non è così, la politica può e deve avere un ruolo attivo nell’economia. In questo passaggio troviamo anche il senso della categoria del ‘politico’ in D’Attorre che supera la definizione schmttiana per divenire la ‘carica di alternativa rispetto all’ordinamento sociale dato’ [pag. 5].
I cosiddetti trenta gloriosi (’45-’75) si spiegano con questo nuovo ruolo della politica. È giusto il distinguo compiuto rispetto alla Sozialpolitik di Bismarck [pag. 83] considerato l’ideologo del welfare state. In realtà quell’esperienza nasce dall’alto ed in chiave anti-socialdemocratica mentre l’esperienza di Stato sociale del secondo dopoguerra oltre a maggiori tutele sociali ha rappresentato anche la conquista di nuovi spazi democratici con un rafforzamento delle assemblee elettive e della partecipazione popolare e personalmente aggiungo con un ruolo dei partiti come strumenti di partecipazione ed integrazione sociale.
Alla base di questo modello c’è il nesso Stato-Nazione-Democrazia [pag. 65] ed è proprio questo il terreno di scontro con l’ordoliberismo, non sono casuali gli attacchi alla Costituzione italiana giudicata ‘socialista’. L’articolo 3 della nostra Costituzione afferma ‘è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà` e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese‘. L’ordoliberismo non vuole uno Stato che rimuova gli ostacoli economico sociali che impediscono l’eguaglianza, vuole esattamente il contrario ovverosia rimuovere gli ostacoli che limitano il libero dispiegamento delle forze del mercato. Per raggiungere questo obiettivo la politica deve annullarsi, l’unica decisione che essa deve prendere e di non decidere, per fare questo è fondamentale il ruolo della Corte di Lussemburgo ‘che prepara il terreno, plasmando il diritto europeo dell’economia in chiave neo-liberale e afferma[ndo] progressivamente il principio del primato della funzione giurisdizionale europea sulle potestà legislative nazionali’ [pag. 92].
In un momento storico in cui il dibattito vive sui twitt è facile sentire usare categorie come ‘sovranismo’ o ‘populismo’ senza che esse siano definite, un grave errore teorico che D’Attorre non commette chiarendo che la sua idea di ritorno alla sovranità sta qui, nella riappropriazione politica delle scelte economiche. Purtroppo parte della sinistra riduce il sovranismo alle posizioni leghiste dimostrando così la propria subalternità all’ideologia dominante. Se l’obiettivo dell’ordoliberismo era la neutralizzazione della politica e quindi dello Stato diviene irrealistico pensare che il progetto futuro possa essere quello degli Stati Uniti d’Europa che in quanto Stato eserciterebbe una sovranità politica (quindi anche gli europeisti sono sovranisti?) che non può essere permessa.
Per costruire una struttura spoliticizzata serve uno Stato forte. È un’altra incomprensione che spesso letture errate ci regalano, l’ordoliberismo non è la mano invisibile e non è lo Stato che si dissolve ma è lo Stato forte che garantisce la spoliticizzazione.
Questa è la struttura europea che ha gestito la crisi del 2011, che ha prodotto un aumento della povertà e delle diseguaglianze. Per D’Attorre però la crisi pandemica odierna è destinata a modificare la struttura europea ed il Covid, assieme al dolore ed alle sofferenze che ha causato, porterà ad una ‘ripoliticizzazione’ dell’Europa. Oggi ci sono le condizioni perché nasca un’unione sociale con al centro lo Stato-Nazione che, ben lungi dall’avere esaurito la sua funzione storica, dovrà essere ancora determinante in una futura ‘Confederazione europea’, confederazione che deve fondarsi sulla capacità di integrarsi nel pluralismo. Le considerazioni dell’Autore poggiano non tanto sulla novità rappresentata dal recovery plan quanto dalla sospensione del patto di stabilità, quello che succede, per quanto ancora rispettoso della legittimità dei trattati, in realtà ne segna la fine. Passata la pandemia sarà impensabile tornare indietro.
È una tesi interessante e ben argomentata ma non condivisibile. Personalmente parto dalla constatazione fatta anche da Aresu, non possiamo parlare di un capitalismo europeo, basterebbe citare la guerra in Libia e la minaccia francese di bombardare gli impianti dell’ENI per argomentare il perché. Il capitalismo italiano è oggi sotto attacco in primo luogo da parte di Francia e Germania. Lo scontro interno ad Unicredit è fra chi vuole mantenere l’italianità della banca dismettendo gli asset esteri e chi invece vuole farne una banca internazionale, si potrebbe però citare anche la presenza francese in Telecom o in Mediaset (a prescindere dalla figura di Berlusconi) ed altri casi ancora. A questa criticità si sommano le preoccupazioni di chi, come il corriere della sera, mette in guardia sull’eccessiva presenza dello Stato in economia e sull’aumento del debito a causa della pandemia.
È vero che quest’ultima sarà un potente acceleratore e che l’attuale equilibrio è destinato a modificarsi, ma siamo sicuri che si modificherà in meglio? Con una battuta potremmo dire che un pessimista è un ottimista bene informato. Se guardiamo ai rapporti di forza interni ed esterni ai singoli stati è molto probabile che a breve ci attenderanno altre ‘riforme’ che produrranno una ulteriore de-industrializzazione del Paese ed un conseguente aumento della povertà.
È questa la condizione che fa da sfondo alla crisi di governo. Draghi, o chi per lui, rappresentata il desiderio del grande capitale internazionale finanziario di un nuovo governo (stile Monti) che poggiando su una maggioranza “Ursula” sia in grado di dolorosi interventi sul tessuto sociale italiano, interventi che non sono possibili con l’attuale governo frutto di una maggioranza raccogliticcia e litigiosa.
Rimane infine un non detto nell’interessante libro di D’Attorre, quali sono i confini dell’Europa confederale che descrive? Nel dibattito odierno si commette l’errore, che l’Autore non fa, di sovrapporre i due termini Unione europea ed Europa. Può quest’Europa andare dall’Atlantico agli Urali? C’è quindi posto per un nuovo rapporto con la Russia? È una domanda importante perché la Presidenza Biden, salutata dall’entusiasmo dei soliti giannizzeri sinistrati, potrebbe produrre un peggioramento dei rapporti con Mosca.
A questa domanda se ne intreccia un’altra. Nel libro si rifiuta l’idea di difesa comune europea, scrive infatti D’Attorre: ‘il controllo delle forze armate è il cuore delle prerogative della sovranità politica, assieme alla potestà legislativa e prima ancora del controllo della moneta. Le traversie del progetto della prima moneta senza Stato dovrebbe indurre, peraltro, qualche ulteriore cautela sulla prospettiva di un esercito senza un potere democratico alle spalle'[pag. 213]. Sono riflessioni condivisibili ma la sinistra oggi è pronta a discutere del posizionamento internazionale italiano? È pronta a discutere dell’uscita dalla NATO? È pronta a costruire un nuovo rapporto, non solo commerciale, con la Cina? Il Presidente Xi Jinping parla di un futuro condiviso, è un tema che trova orecchi sensibili oppure dobbiamo accontentarci di essere la parte più responsabile in un mondo unipolare?
Sono le domande su cui sarebbe interessante aprire un confronto a sinistra.
Note:
1. Losurdo Domenico, in Marx Karl, Engels Friedrich, Manifesto del partito comunista, Editori Laterza, Bari, 1999, pag. IX