pubblichiamo su gentile concessione degli Autori l’introduzione a questo volume di Aginform
di Roberto Gabriele e Paolo Pioppi
Introduzione
La nostra non è una ricostruzione storica da specialisti, ma una documentazione e una valutazione politica fatta con l’intento di riaprire una discussione su Togliatti, il suo ruolo storico e il punto di crisi della sua strategia che ha portato alla mutazione genetica e alla liquidazione del PCI.
Perché è necessario riaprire la discussione su questo?
I motivi sono vari, ma il principale consiste nel fatto che la furia iconoclasta di certe vulgate trotskiste ed emmelliste ha permesso di buttare il bambino con l’acqua sporca e ci si dimentica che non si può parlare del PCI se non si parla contemporaneamente del ruolo di direzione che Togliatti ricoprì dopo l’arresto di Gramsci avvenuto alla fine del 1926 e mantenne fino alla morte nell’estate del 1964, cioè per 38 anni.
Si può forse sostenere che la storia del PCI si sarebbe fermata nel 1926 con l’arresto di Gramsci? Sarebbe come dire che la storia dell’URSS e del movimento comunista si sia fermata nel 1924 con la morte di Lenin. Queste come si sa sono le tesi del trotskismo e dei bordighisti, ma sono posizioni sconfitte dalla storia.
Un milione di persone partecipò al funerale di Togliatti e già questo ci dovrebbe far capire quanto la rimozione della sua figura strida con un avvenimento così eccezionale. Il fatto è che Togliatti si identifica non solo con gran parte della storia del PCI ma anche con i risultati storici che tramite il partito comunista erano stati conseguiti da milioni di persone: la vittoria antifascista con la Resistenza, la Repubblica, la Costituente e la lotta al clericofascismo a partire dal 1948: avvenimenti che hanno segnato profondamente la storia italiana e non appartenevano solamente al partito comunista, ma a vasti settori della società.
Purtroppo la cultura di area comunista non è stata capace finora di dare una risposta convincente e articolata sulle varie fasi della storia del partito comunista e anche sul ruolo fondamentale svolto da Togliatti come dirigente. Nei fatti egli è rimasto senza eredi perché da una parte trotskisti ed emmellisti conducono ancora contro di lui una lotta incessante, dall’altra quelli che hanno deciso la liquidazione del PCI o che hanno favorito la controrivoluzione interna al partito non hanno nessun interesse a difendere un’eredità totalmente estranea alle loro posizioni attuali. Di qui la rimozione e l’oblio.
Per uscire da questo stallo e fare pulizia di una stratificazione culturale che dura da parecchi decenni e che è andata in parallelo con la crisi del PCI, bisogna ritornare alla valutazione della politica di Salerno e dell’azione del PCI fino alla sconfitta della legge truffa del 1953. Nel secondo e terzo capitolo di questo volume mettiamo in evidenza queste vicende, al fine di sgombrare il terreno da tutte le idiozie e le menzogne di matrice trotskista ed emmellista che negli ultimi decenni hanno impedito a molti giovani di capire la questione e hanno condizionato anche il presente, perché un approccio storico sbagliato sta bloccando da anni chi cerca un’alternativa. Si continua a pestare l’acqua nel mortaio nella illusione che l’antitogliattismo possa essere un punto di partenza valido.
La politica dei comunisti, invece, si dimostra valida solo se riesce a unire alla saldezza dei suoi fondamenti scientifici e alla determinatezza organizzativa anche la capacità tattica. Non capire la politica di Salerno significa ignorare la lezione comunista.
Partiamo dunque da Salerno. Quando Togliatti sbarca in Italia nel 1944, indica una prospettiva politica che non ha affatto la caratteristica di una scelta ‘nazionale’, ma è tutta interna alla linea del movimento comunista internazionale nella fase di ascesa del fascismo e di preparazione di una nuova guerra mondiale. Questa prospettiva ovviamente si coniugava con le particolarità della situazione italiana, ma il respiro strategico stava in una dimensione ben più ampia.
Con la relazione di Togliatti al Presidium dell’Internazionale comunista del 1936 – e da questo approvata – che riportiamo nel primo capitolo, cerchiamo di dimostrare che le indicazioni date a Salerno erano perfettamente in linea con l’elaborazione del movimento comunista a partire dal VII congresso dell’Internazionale.
L’ipotesi di un ‘tradimento’ di Togliatti è quindi una menzogna e una contraffazione dei fatti storici. Per attaccare Togliatti bisognerebbe avere il coraggio di mettere in discussione l’intera strategia dell’Internazionale rispetto al fascismo, una strategia che, con gli esiti della seconda guerra mondiale e lo sviluppo successivo dell’area socialista nel mondo, ha dimostrata invece di essere la strada giusta che si doveva seguire. Insistere sul tradimento della rivoluzione significa solo ripetere la tesi trotskista, a cui negli ultimi decenni si sono accodati anche gli emmelle.
La questione italiana non può essere valutata che in questo modo. Il nemico principale era il fascismo e su questo andavano unite e concentrate le forze. Si trattava di raggiungere un grande risultato da cui sarebbero dipesi i nuovi rapporti di forza a livello mondiale e in ogni singolo paese.
A proposito dei rapporti di forza, la retorica resistenziale non deve farci dimenticare che in Italia combattevano le truppe anglo-americane e questo ‘particolare’ non poteva essere sottovalutato. Di questo sia Togliatti che il PCI avevano piena coscienza e partendo da questa consapevolezza fu definita la linea da seguire in quella fase. La politica del PCI doveva corrispondere a un disegno capace di unire le grandi masse e impedire l’isolamento e la sconfitta dei comunisti durante e dopo la guerra di liberazione. L’unità nella lotta armata contro i fascisti e i tedeschi, la Repubblica e la Costituente sono stati i passaggi di questo percorso che ha conseguito i risultati storici che conosciamo. Si può anche continuare a parlare di rivoluzione tradita, ma non è un caso se nella rivista clandestina del PCI, La nostra lotta, che veniva stampata dove la lotta armata si stava facendo veramente, apparve il famoso articolo, attribuito a Pietro Secchia: Il’sinistrismo’ maschera della Gestapo[1].
Insistere sulla rivoluzione mancata è frutto della superficialità e del velleitarismo di gruppi che non hanno saputo costruire un’alternativa e sono rimasti ai margini della storia.
La riflessione sulla politica di Salerno non serve solo a comprendere le cose nella giusta dimensione storica, ma rappresenta anche materia di studio su come i comunisti si sono collocati nei processi mondiali a partire dalla Rivoluzione d’ottobre e dalla fondazione dell’Internazionale comunista.
C’è una traiettoria della rivoluzione che caratterizza il processo storico iniziato nel 1917. Si è passati dalla ipotesi di generalizzazione dell’esperienza russa alla politica del fronte unico, alla lotta antifascista. Questi cambiamenti hanno scandalizzato quelle correnti radicali che non sono abituate a misurarsi coi processi storici e ad usare l’arma del materialismo per interpretarli. Proprio questa capacità ha consentito invece ai comunisti di diventare una forza mondiale e in particolare ai comunisti italiani di diventare un grande partito, il più grande partito comunista dell’occidente capitalistico e questo lo si deve indubbiamente alla direzione di Palmiro Togliatti, al modo in cui egli ha interpretato le questioni poste dalla fase storica.
E’ stata la sua capacità di portare avanti un’analisi giusta della società italiana e di definire una tattica adeguata per le forze in movimento a livello popolare e democratico che ha determinato i risultati e spiega quel milione di persone che si sono ritrovate al suo funerale.
La domanda ovvia che sorge a questo punto è: come mai tutto ciò è finito alla Bolognina? Porre questa domanda è giusto, ma bisogna evitare la sovrapposizione delle due questioni, quella della politica di Salerno e quella della fine del PCI.
Intanto c’è una questione di date. Togliatti è morto nel 1964 e nessuno fino ad allora aveva chiesto di sciogliere il PCI, cosa che è avvenuta con la segreteria Occhetto, dopo più di 25 anni. Non dobbiamo farci portare fuori strada nelle analisi dei processi. Bisogna stare nel concreto dei passaggi reali, saper capire ciò che è avvenuto, quali forze hanno operato nel contesto dato e individuare i passaggi effettivi che hanno portato alla mutazione genetica del PCI.
L’appiattimento delle analisi non evidenzia le posizioni reali. Ad esempio non risulta che Togliatti sia andato sostenendo che bisognasse stare sotto l’ombrello della NATO o che la democrazia fosse un valore universale e che l’obiettivo del PCI fosse il compromesso storico con la DC. Queste scelte sono proprie del periodo di Berlinguer, non degli anni in cui il PCI fu diretto da Togliatti e ne è testimonianza il memoriale di Yalta che rappresenta il punto di arrivo del suo pensiero a pochi giorni dalla morte.
Esaminando quel documento però, che di fatto è anche il suo testamento, e collegandolo alla famosa intervista a Nuovi argomenti e alla strategia emersa dall’VIII Congresso del PCI del 1956 sulla via italiana al socialismo, si possono individuare i punti critici della posizione di Togliatti. Quando si parla di punti critici non bisogna pensare però a una relazione di causa ed effetto, ma al fatto che certe prese di posizione sbagliate hanno messo in moto processi di lunga durata che si sono conclusi a distanza di più di venti anni dalla sua morte. Questo non implica che Togliatti abbia la responsabilità diretta di ciascuno dei passaggi successivi. Si veda ad esempio lo scritto di Togliatti , che riportiamo a pag. 326, intitolato Capitalismo e riforme di struttura apparso su Rinascita del luglio 1964, poco prima del viaggio a Yalta.
“Subito dopo la Liberazione – scrive Togliatti – la grande borghesia fu disfattista e malthusiana. Esportò capitali e non partecipò se non quando potè essere sicura del proprio predominio. Anche la riforma agraria fu avversata, ridotta a un minimo indispensabile, non sviluppata in tutte le necessarie direzioni: non si doveva rompere la cerniera del blocco industriale-agrario […]. In sostanza, la sola azione sistematica volta ad intaccare le strutture […] è stata la lotta dei sindacati per l’aumento dei salari e l’accrescimento del loro potere contrattuale […]. Non per niente proprio in questa direzione si è scatenato l’attacco di tutto il mondo capitalistico e attorno a questo problema, in sostanza, è venuta a maturazione la crisi attuale.”
Di conseguenza – prosegue Togliatti – se la sostanza democratica del regime conquistato con la vittoria della Resistenza non ha potuto essere intaccata, nonostante i ripetuti tentativi di limitarla o annullarla (offensiva scelbiana, legge truffa, leggi capestro proposte da De Gasperi, tentativo tambroniano ecc.) e nonostante i propositi e le minacce anche del giorno d’oggi, il piano di riforme è rimasto sino ad ora quasi esclusivamente un piano. […] Questo è dunque, per ora, il nostro punto di arrivo e il nostro punto di partenza”.
Nonostante fossimo nel 1964, il giudizio di Togliatti sulla situazione italiana era ancora netto.
L’elaborazione di Togliatti su cui discutere veramente è invece quella relativa alla posizione dei comunisti italiani di fronte ai grandi sconvolgimenti dovuti a Krusciov e agli esiti del XX congresso del PCUS. Lì sta il punto di caduta della elaborazione togliattiana che pone obiettivamente la politica del PCI su altri binari e prepara le basi di quella che si è dimostrata una controrivoluzione interna.
Negli scritti a cui facciamo riferimento, che riportiamo al quarto capitolo di questo volume, Togliatti accetta, fin dall’intervista a Nuovi argomenti, i tre presupposti kruscioviani su cui era fondato il XX congresso del PCUS: la demolizione della figura di Stalin come grande dirigente del movimento comunista e dell’URSS; l’introduzione del concetto delle vie parlamentari al socialismo; un’analisi delle relazioni internazionali che tendeva a sottovalutare l’azione dell’imperialismo a guida americana, proprio mentre già nel 1956 a smentire Krusciov c’era la controrivoluzione armata in Ungheria e l’aggressione anglo-francese a Suez.
Togliatti aveva vissuto per anni in Unione Sovietica, era stato un dirigente di primo piano dell’Internazionale, conosceva Stalin. Nel momento in cui Krusciov denunciava i ‘crimini’ di Stalin non poteva, e non doveva, accettare quella falsa ricostruzione storica che dava inizio alla controrivoluzione. Anzi, avrebbe dovuto valutare gli avvenimenti nel loro vero significato, capire che stava succedendo qualcosa di assai diverso da una discussione tra compagni o da una semplice rettifica di linea politica dei comunisti sovietici
La scelta di Togliatti determinò il primo scossone all’interno del partito, tra i militanti, che non erano una setta bensì più di due milioni di persone, gente che aveva piena fiducia nel partito, in cui la denuncia dei ‘crimini’ di Stalin provocava un profondo sbandamento, soprattutto nell’area degli intellettuali che seguivano il PCI. Su quella posizione, però, il gruppo dirigente del PCI rimase compatto, compreso Pietro Secchia[2]. Non ci furono dissensi interni se non con posizioni di destra che si evidenziarono, soprattutto in relazione ai fatti di Ungheria, in alcuni ambiti universitari, particolarmente a Roma, che spingevano a una critica più radicale verso la storia sovietica. La vecchia talpa, non contrastata sulla questione centrale del ruolo di Stalin, aveva cominciato a scavare. E dentro il partito, dopo il XXII congresso del PCUS, già si videro i primi effetti. Come è noto al XXII congresso del PCUS Krusciov, pressato da un dissenso interno al partito su questioni interne e internazionali, aveva rincarato la dose contro Stalin e per fronteggiare l’opposizione aveva alzato il livello dello scontro con mistificazioni e menzogne, e atti simbolici come il cambio del nome della città di Stalingrado e la rimozione della salma di Stalin dal mausoleo della Piazza Rossa.
Togliatti, che aveva sollevato il sasso accettando la critica a Stalin, se lo fece ricadere sui piedi. Nel Comitato centrale del PCI convocato dopo il XXII congresso del PCUS ci fu uno scontro durissimo in cui molti dei presenti misero sotto accusa Togliatti per il fatto che, essendo stato a Mosca per molti anni e a un livello molto alto dell’Internazionale, ‘non poteva non sapere‘ che cosa succedeva in Unione Sovietica. ‘Tu sapevi e hai taciuto!’ Questa era l’accusa. Non solo, ma ritornavano a galla anche la questione della polemica con Gramsci del 1926[3] e le decisioni prese negli anni ’30 contro una parte della segreteria del partito (Tresso, Leonetti, Ravazzoli), tutto materiale che servì negli anni successivi ad alimentare la campagna antitogliattiana e sollecitare la parte ‘buona’ del PCI a saltare il fosso. Togliatti andava messo per questo in soffitta.
In relazione agli avvenimenti del 1956 e al XX congresso del PCUS, la questioni Stalin non fu l’unico tema che portò il PCI a uscire dall’ambito strategico in cui si era mosso fino ad allora. Krusciov aveva avanzato infatti nel congresso del 1956 anche la tesi che nella nuova fase storica sarebbe stato possibile arrivare al socialismo per via pacifica e parlamentare. Se colleghiamo questa posizione con la demolizione di Stalin e con i nuovi rapporti internazionali basati sulla sottovalutazione dell’imperialismo, è chiaro che si apre per il PCI uno scenario che ne modifica completamente le prospettive.
Dalla guerra di posizione, dentro un quadro strategico fondato sull’unità e il peso del campo socialista, si passava a una prospettiva in cui si riteneva possibile marciare verso il socialismo indipendentemente dai passaggi storici che erano la condizione necessaria di ogni avanzata che modificasse i rapporti di forza. Si passava dunque dalla tattica basata sull’analisi di classe delle contraddizioni che definivano la linea politica e la strategia a una dialettica politica di altra natura, fondata sulle relazioni con i partiti che agivano nel sistema, illudendosi che in quel modo si potesse realizzare un cambiamento qualitativo nei rapporti sociali e di classe.
Il luglio 1960, la vicenda De Lorenzo e la politica delle stragi a partire dal ’69 misero bene in chiaro come stavano effettivamente le cose. Arrivare a una trasformazione socialista dell’Italia sarebbe stato possibile non con passaggi normali e semplicemente elettorali, ma con l’apertura di crisi sociali su cui fondare la massa critica per la trasformazione.
Quando Berlinguer tentò di imboccare una strada diversa non è un caso se dovette accettare ‘l’ombrello’ della NATO e la ‘democrazia’ come valore universale e limitarsi a proporre un compromesso definito ‘storico’ con la DC. Ma anche questo non bastò alla borghesia e al sistema imperiale americano. Bisognava arrivare alla resa senza condizioni e a questo provvide Achille Occhetto con lo scioglimento del PCI, un partito ormai trasformato nei suoi quadri e nella sua cultura da decenni di ambiguità e di trasformismo elettoralistico.
Aver accettato dunque di discutere sul piano imposto da Krusciov finì per travolgere anche il PCI. Il colpo definitivo per sciogliere le ambiguità e cambiare rotta venne però dopo la caduta del muro di Berlino, la liquidazione del socialismo nei paesi dell’est europeo e infine il dissolvimento dell’URSS.
Noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di misurarci con questa immane tragedia cercando di mantenere, nei nuovi riferimenti storici, una posizione comunista e il nostro lavoro è stato raccolto nel volume Lettere ai compagni[4]. Lo diciamo non per salvarci la coscienza, ma per dovere di cronaca. Crediamo però che il compito vero dei comunisti italiani oggi sia duplice, da una parte non attardarci solo sugli avvenimenti del ’56, che comunque rimangono la base per un corretto canone interpretativo, ma dall’altra capire le conseguenze che gli sconvolgimenti dovuti al processo controrivoluzionario iniziato in URSS hanno provocato anche nel PCI rispetto alla sua storia e alla sua cultura e anche all’interno della società italiana per quello che il partito comunista rappresentava. In particolare il clima interno al partito, in conseguenza di questi fatti, ha messo in moto le forze centrifughe che l’hanno portato alla crisi. D’altronde anche l’Albania non è sfuggita alla crisi e la Cina ha dovuto compiere una virata di 180 gradi con la svolta denghista. Bisogna dunque portare l’indagine sulle questioni oggettive che ci possono dare una chiave di lettura che va oltre la valutazione pura e semplice degli avvenimenti.
Questo ci riporta al concetto che abbiamo più volte espresso sulla traiettoria della rivoluzione che ha interessato il movimento comunista a partire dalla Rivoluzione d’Ottobre: uno sviluppo rivoluzionario che ha dovuto man mano misurarsi con i rapporti di forza e andare alla verifica delle scelte da operare. Il che non ci porta a modificare il giudizio sul carattere delle contraddizioni insorte dopo il 1956, ma ci spiega le loro origini e ci induce quindi a una riflessione per non cadere nella teoria di una rivoluzione che procede in linea retta, a prescindere, una concezione non materialistica della storia del movimento comunista .
Come abbiamo sottolineato all’inizio, ripetiamo per concludere che riproporre la lettura di Palmiro Togliatti non ha per noi un valore solo di valutazione (e rivalutazione) storica, ma ha anche un significato che investe l’attualità e le prospettive politiche da imboccare. Riteniamo infatti che le questioni poste in questo volume diano materia di riflessione su come sono andate le cose negli ultimi decenni e anche sulla possibilità di capire come si possa ricominciare.
Partiamo intanto da una constatazione: non sono spariti, almeno organizzativamente, solo i comunisti, ma anche una sinistra con caratteristiche avanzate ha dato forfait. Sono rimaste nicchie identitarie e circoli movimentisti che quando si misurano elettoralmente arrivano allo zero virgola. Perché siamo arrivati a questo punto? E’ ovvio che su questo risultato ha avuto un peso decisivo l’esito del PCI, ma non ci si può limitare a questo, bisogna capire anche quello che è successo dopo e come ci si è misurati con la nuova realtà.
Il PCI è stato liquidato negli anni ’90 del secolo scorso e da allora sono passati 30 anni, abbastanza dunque per fare un bilancio, dal quale ci sembra si possano trarre due conclusioni. La prima è che la degenerazione del partito si è portata dietro una massa di trasformisti, amministratori, sindacalisti, uomini e donne che nei decenni precedenti si erano inseriti nei gangli del potere e del sottopotere e che infine hanno dato vita a un partito liberaldemocratico, il PD, realizzando il loro sogno di farsi Stato. La seconda riguarda la parte che ha cercato di darsi una struttura, risultata provvisoria, di tipo ‘comunista’ sotto la guida paradossalmente di un anticomunista come Bertinotti e di un opportunista come Cossutta. A quella ipotesi il popolo comunista e la parte migliore della sinistra non ha dato fiducia. Bertinotti è stato cancellato dalla scena politica e dal parlamento e si è rifugiato nei salotti della borghesia romana. Sulla scena sono rimasti i resti delle correnti trotsko-movimentiste nate a partire dagli avvenimenti del 1968 e che alcuni cattivi maestri hanno tentato di tenere in vita con i riti e i miti che ben conosciamo.
Dir questo non è un inno al pessimismo, al contrario. Se ritorniamo a Togliatti e alla storia del PCI quando era il partito dell’internazionalismo, della pace, dei lavoratori e della sinistra progressista è perché da lì si possono ricavare gli elementi di una ripresa. Ovviamente non c’è nulla di automatico e soprattutto nulla che somigli a quel tardotogliattismo che ha rivalutato anche Enrico Berlinguer. Del resto le circostanze storiche sono molto diverse dagli anni in cui Togliatti dirigeva il partito comunista e noi non pensiamo che un partito dei comunisti possa resuscitare dalla mera riproposizione di un’identità del passato. Qualcuno ci ha provato, ma non è andato lontano. Il patrimonio è stato abbondantemente dilapidato, o trasformato in un affare come nel caso del PD. Fare appello ai resti di una tradizione andata in pezzi è diventato un raschiare il fondo del barile che non porta a risultati e spesso è un’operazione di sciacallaggio.
Bisogna ritornare a un metodo comunista. Ma che significato bisogna attribuire al concetto di metodo comunista e perché lo contrapponiamo al trotskismo e all’anarcosindacalismo? A prima vista può sembrare una questione di contrapposizione ideologica, si tratta invece di recuperare non solo la capacità di fare sempre l’analisi concreta della situazione concreta, ma anche quella di proiettare l’analisi sul terreno della strategia politica e della valutazione dei rapporti di forza, e da questo dedurre il programma d’azione.
La lezione che ci viene da Togliatti è proprio questa e, aldilà delle differenze storiche, essa si ripropone a chiunque voglia porsi in Italia il compito della ripresa di un movimento popolare e di classe che miri alla trasformazione dell’esistente, sia all’interno che nelle relazioni internazionali
In particolare si tratta di recuperare una visione dellequestioni internazionali non solo in termini geopolitici, ma per ricavarne le linee di tendenza che sono emerse dopo il crollo dell’URSS e del socialismo nell’Europa dell’Est e capirne la potenzialità e lo sviluppo. In altri termini bisogna definire e consolidare una nuova capacità dei comunisti di ritrovare, dopo la grande esperienza partita dalla rivoluzione russa e dalla Terza Internazionale, il filo rosso di un processo rivoluzionario che attraversi le diverse aree di crisi, politiche, sociali ed economiche. Partendo dalla ricostruzione della dinamica mondiale dell’imperialismo, alla quale l’Italia è agganciata, bisogna dedurre modi e forme di riorganizzazione. La distruzione di una ragione politica collettiva, conseguente alla dissoluzione del partito comunista in Italia e alla crisi del movimento comunista, ha avuto un impatto devastante rispetto all’analisi del presente.
Ora la domanda principale che si impone è questa: ci sono le condizioni per la ricostruzione di una forza politica del tipo del ‘partito nuovo’ di cui Togliatti parlò al suo arrivo in Italia nel 1944? E’ questa la strada da imboccare?
Intanto evitare di mettere Togliatti in soffitta ci sembra uno stimolo ad affrontare seriamente i problemi odierni. Quanto ai contenuti di una prospettiva politica e strategica, certamente non possiamo basarci su condizioni che appartengono a una fase storica precedente, però dalla lettura di Togliatti, che viene dalla grande lezione gramsciana del congresso di Lione e delle successive analisi sulla società italiana, si può ricavare un metodo, che definiamo comunista, per impostare un discorso, questo sì di ‘tipo nuovo’, su come recuperare nella situazione italiana le forze popolari e progressiste alla prospettiva di un cambiamento vero.
Ci sono però due condizioni perchè questo avvenga.
In primo luogo bisogna sbarazzarsi di quella cultura subalterna che è stata il prodotto di una situazione post-sessantottina fatta di movimentismo e ideologismo, che ha ridotto a pratica anarco-movimentista il tentativo di creare una nuova forza politica e di classe che prendesse il posto dei comunisti. Questo misto di radicalismo e opportunismo ostacola la formazione di un partito che abbia la capacità di riprendere un percorso interrotto con la liquidazione del PCI e di incidere sul corso degli avvenimenti. Per usare un termine gramsciano possiamo dire che bisogna che si riaffermi un’egemonia comunista nella pratica e nella teoria. Ma questa egemonia si può recuperare solo dimostrando concretamente qual è la via da seguire.
In secondo luogo si tratta di individuare nella realtà odierna le ‘forze motrici’ della riorganizzazione di un fronte popolare e progressista, di cui i comunisti sappiano essere la guida.
E’ la Costituzione repubblicana l’anello di congiunzione tra la storia passata e i futuri passaggi? Noi riteniamo di sì perchè, analizzando i problemi che abbiamo di fronte e il periodo storico che stiamo attraversando, l’avanzata delle forze popolari, che oggi significa battere il principio liberista che regola la società, nello scontro col fronte liberista europeo e internazionale può trovare una sponda nell’attuazione dei principi essenziali della Costituzione, rimasti finora lettera morta. Essi riguardano sia le relazioni internazionali sia l’organizzazione interna della società, laddove la Costituzione prescrive il rifiuto della guerra, l’economia organizzata a fini sociali e una carta dei diritti che oggi rappresentano punti di lotta delle forze sociali interessate.
Possiamo definirlo un passaggio obbligato, su cui però la prospettiva del PCI si è infranta quando gli epigoni di Togliatti ne hanno ricevuto l’eredità.
Il testo è riprodotto in www.associazionestalin.it/PCI_5_sinistrismo.html
Si veda su questo punto Pietro Secchia prima e dopo la morte di Stalin, in www.associazionestalin.it/ar15-1.html
Vedi Gramsci e Togliatti sullo scontro interno al Partito bolscevico (1926-27), in www.associazionestalin.it/ar10-1.html
Lettere ai compagni, a cura di Roberto Gabriele e Paolo Pioppi, Quaderni di Aginform, giugno 2020. Indice e modalità di acquisto in www. associazionestalin.it/lettere%20libro.html