di Leo Essen
L’ultimo libro di Giovanni Mazzetti – Il futuro oltre la crisi – si apre con un problema di datazione.
La crisi, com’è risaputo, ha avuto inizio nel 2007. Per marcare la sua importanza, e per farla entrare nella storia a fianco di altri eventi epocali, come La Grande Depressione, La Grande Guerra, La Grande Influenza spagnola, e compagnia bella, le è stato attribuito persino un nome proprio: La Grande Recessione.
La crisi ha colpito duro. Sono fallite alcune banche, altre sono state salvate dagli Stati, e altre ancora si stanno avvicinando all’orlo del precipizio. Sono fallite alcune aziende, e i dipendenti sono stati licenziati, e si ritrovano senza salario e senza reddito. Vivono pieni di stenti e di miseria, e sono oppressi dall’affanno e dalla vergogna che la povertà porta sempre con sé. Mentre ai compagni più fortunati sono stati allungati gli orari e intensificati i ritmi di lavoro. Sono stati cancellati, o sono in via di cancellazione, i cosiddetti diritti sociali, il diritto al lavoro, il diritto ad un sussidio di disoccupazione, all’assistenza sanitaria, all’istruzione, all’abitazione, alla famiglia, alla mobilità, alla pensione, eccetera.
Il 25% dell’industria ha chiuso i battenti. Il parlamento e il governo hanno perso ogni capacità di intervenire sui più minuti effetti della crisi, e si limitano a ratificare provvedimenti decisi in organismi remoti, più o meno democratici.
Anche la capacità di stampare e controllare la moneta in circolazione, di varare una legge fiscale, o sul lavoro, o sugli investimenti pubblici, o sul modo e i termini di elezione dei consigli comunali, sono state confiscate da entità sovranazionali, poco o nulla liberali. Al governo è stata revocata persino la prerogativa di comprare la garza e le siringhe per gli ospedali pubblici. Ogni acquisto deve essere meditato con attenzione, e commisurato ad un budget fisso, stabilito all’estero. E per evitare che qualche ministro con le mani bucate sgarri, si è ritenuto – qualcuno all’estero ha ritenuto – di dover far trascrive l’obbligo in Costituzione. Ed è stato fatto, in fretta.
Poi è venuto il tempo degli speculatori al ribasso, dei fondi avvoltoio, della lievitazione pilotata dei tassi dei debiti pubblici di Stati-bersaglio, dell’Iva sociale, della competizione al ribasso sul costo del lavoro, della deflazione, dell’iniezione di denaro nel circuito finanziario, e via discorrendo.
Tutto questo è successo dopo il 2007, dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime.
Altri ritengono che tutto abbia avuto inizio nel 1992, con la firma del trattato di Maastricht, e altri ancora che La Grande Recessione sia una riproposizione esatta – forse più virulenta – della Grande Depressione della fine degli anni Venti del Novecento.
Infine, ci sono quelli che, con grande arguzia e senso della storia, alla domanda «ci sarà un nuovo ‘29?» hanno risposto così: “Quello che mi pare ingenuo nella domanda «ci sarà un nuovo ‘29?» è che nel ‘29 ci siamo già, ci viviamo dentro”. [Federico Caffè, intervista al Manifesto, 1979].
Nella Crisi ci viviamo dentro. Ci siamo nati. Ci siamo immersi come pesci nell’acqua. E la crisi è l’acqua.
Mazzetti è pienamente d’accordo con Federico Caffè, anche se ritiene che la crisi attuale abbia assunto la forma che conosciamo solo agli inizi degli anni Ottanta.
Per l’Italia, in particolare, la data può essere fissata al 12 febbraio 1981, giorno in cui l’allora ministro delle finanze Beniamino Andreatta scrive a Carlo Azelio Ciampi, Governatore della Banca d’Italia, sancendo il divorzio tra il Tesoro e la Banca Centrale.
“Caro Governatore – scrive Andreatta – l’esistenza di un obbligo di acquisto residuale in sede d’asta di BOT, l’abitudine ad appoggiare su una convenzione tra Tesoro e Banca d’Italia il collocamento di titoli poliennali, e la norma sul massimo scoperto del conto corrente di tesoreria provinciale, comportano una serie di vincoli sulla libertà di gestione dell’offerta di moneta. È mia intenzione riesaminare tutta la faccenda. Tale riesame dovrebbe portare ad un sistema in cui l’intervento della Banca d’Italia all’asta dei BOT sia una libera decisione della banca stessa, e in cui l’offerta della Banca concorra, su un piano di parità con le altre, a determinarne il prezzo.”
“Caro Ministro – replica Ciampi il 6 Marzo 1981 – rispondo alla sua del 12 febbraio, le cui linee di ragionamento mi trovano sostanzialmente d’accordo. Affinché la politica monetaria non subisca vincoli imposti dalla dimensione e dall’andamento nel tempo del disavanzo statale occorrerebbe che il tesoro finanziasse l’intero ammontare delle spese non coperte da entrate fiscali mediante l’emissione di titoli in pubblica sottoscrizione e che le operazioni in Titoli di Stato della Banca d’Italia, da effettuare soltanto in contropartita del mercato, rispondessero unicamente a obiettivi di politica monetaria”.
Perché un’esatta datazione è importante?
Perché ci aiuta a orientarci. Ci aiuta, ad esempio, a non confondere gli effetti con le cause.
Prendiamo l’Euro. Secondo un’opinione comune, molto di moda, l’Euro sarebbe la causa dei nostri guai. Se non ci fosse l’euro, se si potesse ripristinare una sovranità sulla moneta, le cose andrebbe a posto, e tutto tornerebbe come prima.
Senonché, la sovranità sulla moneta – ammesso e non concesso che si possa mai esercitare una sovranità assoluta, e per giunta su qualcosa di intimamente sfuggente ad ogni controllo, come è il denaro sonante – la sovranità sulla moneta è stata devoluta alla Banca Centrale, e al sistema bancario in generale, quando l’euro ancora non c’era.
Nel 1981 Andreatta e Ciampi erano convinti che la causa dei problemi economici dell’Italia fosse l’inflazione; e che l’inflazione fosse generata dalle spese senza controllo dello Stato; e che per rimettere le cose a posto bisognasse togliere allo Stato la facoltà (la sovranità?) di accedere, a suo piacimento, alla zecca.
L’euro – scrive Mazzetti – non è la causa dell’impoverimento generale, della disoccupazione, della riduzione delle paghe, dell’aumento dell’orario di lavoro, della chiusura delle fabbriche e del fallimento delle banche, eccetera. Tutto questo sfacelo c’era già ai tempi di Andreatta e Ciampi, e l’euro non esisteva.
All’epoca c’era la stagflazione.
L’euro è stato un tentativo maldestro di rapportarsi alla crisi.
Tutti quelli che credono, e fra essi ci sono molti economisti di destra e di sinistra, che un ritorno alla sovranità monetaria rimetterebbe le cose a posto si sbagliano.
Perché si sbagliano?
I sovranisti partono col dire che un ritorno alla lira aumenterebbe la competitività e migliorerebbe le condizioni generali dei conti dell’Italia. In più, l’aumento della competitività non passerebbe per una deflazione salariale.
Se non si muove la moneta – sostengono i sovranisti – si deve muovere il salario. Se la moneta è sopravvalutata, il riallineamento dell’economia interna con quelle di altri stati passerà necessariamente per un deflazione dei salari e dei prezzi.
Per evitare questi effetti negativi si dovrebbe ricorrere ad una svalutazione del cambio, il ché richiederebbe una sovranità monetaria.
Tutto bene, se non fosse che la svalutazione del cambio comporta una riduzione dei salari reali.
Certo! – replicano i sovranisti – Tuttavia, le merci interne diventerebbe più a buon mercato per i compratori esteri, e ciò permetterebbe di assorbire parte della disoccupazione e di iniziare a sanare gli squilibri con gli altri Stati. Cosa che, nel regime Euro, è possibile solo con una deflazione salariale.
Ma se le merci sono più a buon mercato – obietta Mazzetti – vuol dire che per ottenere una quantità x di merci dall’estero devo sborsare più di prima, e che quindi il mio potere d’acquisto, rispetto alle merci estere, è diminuito.
È così, certo. Ma questo fenomeno si registrerebbe solo per le merci estere. Con benefici evidenti per il conto corrente.
Vero – continua Mazzetti – ma solo per quelle nazioni che sono esportatrici pure. Ma nell’economia di oggi, nessuna nazione produce da sé tutto ciò di cui ha bisogno. Anche per la produzione degli oggetti più banali si ricorre all’utilizzo di materie prime e semilavorati che sono prodotti nelle zone più remote del pianeta.
Il volume delle importazione italiane incide sul PIL per il 30%. Un aumento del prezzo dei prodotti importati si scaricherebbe direttamente sui costi di produzione, e dunque sui prezzi, innescando, di conseguenza, una richiesta di deflazione salariale.
E poi, quale dovrebbe essere il risultato dell’uscita dall’euro e del ritorno alla sovranità monetaria?
Il risultato dovrebbe essere un riallineamento delle economie delle varie nazioni, riallineamento che si otterrebbe togliendo a qualcuno il potere di manipolare a suo piacimento la moneta, e lasciando che le valute nazionali trovino liberamente un accomodamento perfetto.
I sovranisti chiedono di ripristinare le regole del libero mercato, della libera concorrenza tra le economie dei diversi stati, chiedono meno sovranità. Chiedono il ritorno ad un presunto stato di natura, in cui le cose, lasciate a se stesse, troverebbero un accomodamento e un equilibrio automatici.
Il ritorno alla lira non risolverebbe in alcun modo i problemi causati dalla crisi. Nella migliore delle ipotesi, finirebbe per scaricare l’aumento interno di occupazione su qui paesi che manterrebbero inalterato il valore della propria moneta, distruggendo una parte della loro occupazione. Ma cosa impedirebbe a questi paesi di innescare una svalutazione competitiva, simile a quelle che si verificarono negli anni Trenta e che misero in ginocchio diverse economie?
Sul fronte opposto sono schierati i difensori dell’Euro. O perlomeno tutti quelli che ritengono che se lo Stato non investe in servizi e infrastrutture, se le famiglie riducono o sopprimono dal loro budget alcune voci, tipo spese mediche e di istruzione, se le industrie non investono in ricerca e sviluppo e in nuovi impianti, è perché mancano i soldi.
Il tema dei soldi che mancano è diventato così evidente che ad ogni proposta di una nuova spesa si ode il coro di quelli che chiedono – e siamo tutti noi – dove si prendono i soldi per realizzare questi bei progetti.
Se ci fossero i soldi, se le aziende, piccole e grandi, avessero accesso al credito, non ci sarebbero problemi. Gli imprenditori ricomincerebbero ad investire, e tutto tornerebbe come prima.
Se ci fosse una banca centrale con le spalle larghe e una moneta importante, si potrebbe inondare il mercato di valuta fresca. Il problema della liquidità cesserebbe di affliggere l’economia. Le aziende tornerebbero a spendere a ad assumere, lo Stato inizierebbe ad incassare più tasse e a ripagare i debiti accumulati, i cittadini avrebbero accesso ad un nuovo mondo di meraviglie e di consumi infiniti.
Anche qui, suggerisce Mazzetti, si confondono le cause con gli effetti.
È vero – scrive – che gli imprenditori non investono in impianti e in ricerca e sviluppo. Ma se ciò non avviene non è perché manchi il denaro.
Di denaro in circolazione ce n’è sin troppo, e se continua a girare nel circuito della speculazione, e non genera nuovi investimenti e nuova domanda, è perché gli imprenditori non si aspettano di rientrare delle somme investite, maggiorate di un plus-prodotto, ma si aspettano addirittura una perdita.
Questa è storia nota, sin dagli anni Trenta. Come sono noti i tentativi del Welfare State di uscire da questo pantano mediante lo stimolo di una domanda aggiuntiva che inneschi effetti moltiplicativi su tutta l’economia.
Poi, negli anni Settanta, l’effetto di questa spinta, e la magia moltiplicativa, sono venute meno. Ed è iniziata una lunga fase di stagnazione economica accompagnata da super-inflazione.
Nessuna nuova spesa dello Stato, anche in deficit, dunque pagata con denaro fresco di zecca generato dal nulla, è stata in grado di smuovere l’economia.
Il discorso di Mazzetti è molto più elaborato e si presenta come una disarticolazione dei dualismi intorno ai quali, comodamente, si articola il discorso intorno alla crisi.
Tutte e due le fazioni in lotta – liberisti e anti-liberisti – si trovano d’accordo su una cosa. Per far partire gli investimenti, i consumi, la produttività, eccetera eccetera, bisogna rimuovere ogni ostacolo che impedisce il funzionamento fisiologico del sistema. Bisogna spazzare via, senza pietà, l’euro, i poteri forti, i burocrati incompetenti o corrotti, le inefficienze della macchina amministrativa, gli avari, i parassiti, soprattutto i parassiti, e gli imbroglioni. Bisogna fare fuori i colpevoli e, insieme a loro, i ricchi che diventano sempre più ricchi a danno dei poveri, e mandare a casa gli imprenditori che non sanno fare il loro mestiere. Una volta tolti di mezzo questi ostacoli, l’economia tornerà ad esprimersi al suo massimo livello, i consumi si riprenderanno, gli investimenti andranno a gonfie vele, lo Stato incasserà regolarmente le tasse con le quali pagherà i servizi sociali e le pensioni, e tutti avranno una casa, tutti potranno curarsi, studiare, andare al cinema, al teatro, e vivere felici e contenti.
Le posizioni di quelli che dicono che l’euro non va bene, che la devoluzione di sovranità non va bene, che troppe monete non vanno bene, perché alimentano la svalutazione competitiva, che una moneta unica non va bene, perché asseconda l’andamento di chi detiene asset finanziari a danno di chi ha contratto debiti, che uno stato pesante non va bene, perché zavorra l’economia privata, che l’economia privata senza forti investimenti pubblici non va da nessuna parte, tutte queste posizioni, e tante altre dello stesso tenore polemico, si reggono su un medesimo presupposto, e cioè che ci sarebbe un stato originario dell’economia, una specie di stadio economico adamitico, dal quale ci si è allontanati per avarizia, pigrizia, furberia, avidità, ignoranza, corruzione, eccetera eccetera, e che andrebbe ripristino.
Il fatto è, scrive Mazzetti, che la crisi non ha distolto l’economia da un presunto stato di benessere che si tratterebbe di ripristinare. Le cose andavano a rotoli già da prima. Il capitalismo aveva già mostrato segni di cedimento nel 1873, e ancora nel 1929, e in modo pesante negli anni Settanta.
Cosa è successo negli anni Settanta?
È successo che il rapporto di valore – così si esprime Mazzetti – si è svalorizzato. C’è stata una trasvalutazione di tutti i valori economici. È accaduto ciò che Marx aveva descritto nei Grundrisse.
Ogni tentativo successivo di ripristinare il rapporto di valore è andato a sbattere contro questa trasvalutazione.
Il passo dei Grundrisse citato da Mazzetti è arcinoto, soprattutto in Italia. Sono stati versati fiumi di inchiostro per commentarlo, e non starò qui a dilungarmi. Basti accennare che nel passo si parla della grande industria, della sproporzione tra il lavoro vivo e gli agenti della produzione che vengono messi in moto, tra il lavoro spicciolo, sempre più semplificato e ridotto a poche funzioni base, e il complesso delle facoltà e delle conoscenze distribuite nella società e rappresentate dall’individuo sociale, del fatto che il lavoro vero e proprio, il lavoro di fabbrica, cessa di essere la misura della ricchezza, perché ha cessato di essere la sua fonte, e che dunque il plus-prodotto ha cesserà di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza. Anzi, si porrà come suo limite .
I riferimenti di Mazzetti, sin dai suoi primi libri pubblicati negli anni Ottanta, sono sempre stati Marx e Keynes.
Marx, in particolare, è stato sempre seguito senza alcuna mediazione, senza alcuna interferenza delle varie scuole di marxismo, soprattutto delle scuole italiane. Il pensiero va all’operaismo degli anni Sessanta.
Nella lettura originale di Mazzetti, talvolta filtrata dai testi di Keynes, nulla fa pensare, per esempio, alle polemiche che hanno lacerato l’operaismo italiano, e che si sono articolate intorno alla questione della composizione tecnica e politica, o alla partizione tra operaio-massa e operaio sociale, eccetera.
Tuttavia, il passo dei Grundrisse, comparso solo in quest’ultimo libro, avvicina il testo di Mazzetti alle riflessioni dei post-operaisti. Ad esempio a quelle di Lapo Berti, quando, nel 78, nella tribù delle talpe, collettivo Primo Maggio, scrive che l’automazione e l’astrattizzazione del lavoro e la crescente importanza del lavoro sociale applicato al processo produttivo rendono il lavoro autonomo.
Più il lavoro diventa astratto, scrive Lapo Berti, più diventa estraneo e indipendente rispetto al processo di valorizzazione. Più la forza lavoro perde la possibilità di identificarsi come lavoro concreto, eccetera eccetera, più ci si avvicina alla biopolitica, alla nuda vita, alla moltitudine, alla fine dello Stato, e via discorrendo. La storia è nota.
Nonostante questa vicinanza, il quadro delineato da Mazzetti è differente. A Mazzetti preme sottolineare due cose, tra loro in contrasto.
La prima, che possiamo riassumere sotto il titolo di Produttività, riguarda la necessità stringente per il capitale di ridurre la quantità di lavoro necessario. Il capitale crea disoccupazione.
La seconda, che si riassume facilitane sotto la voce Investimenti, riguarda la necessità, per il capitale, di reinvestire il plus-prodotto in scala sempre più allargata, onde permette al lavoro di valorizzare il capitale ed evitare la deflazione dei capitali già immobilizzati.
Infine, nel Libro di Mazzetti, c’è un tema, apparentemente marginale, e oggi molto in voga, che riguarda il credito.
Anche qui il testo è molto chiaro. Se il settore privato o il settore pubblico sperano di far ripartire l’economia utilizzando il credito, si sbagliano. Il credito, in una fase come quella attuale, di post-piena-occupazione, non serve a nulla.
Di più. Il desiderio del creditore di rientrare dei soldi anticipati, maggiorati di un interesse, è destinato a rimanere insoddisfatto, per la semplice ragione che questa pretesa si basa sulla convinzione di una validità certa e perenne del principio di equivalenza, del rapporto di valore – come lo definisce Mazzetti.
Ora, se il rapporto di valore si è trasvalutato, e ogni prezzo è affettato da forze che ne rideterminano la valenza in modo più o meno arbitrario, pretendere il rispetto del principio di equivalenza è come credere nella trasmutazione dell’acqua in vino.
Per rendersi conto della totale indeterminazione dei prezzi, basta dare un’occhiata al costo dei farmaci, dei software, dei servizi web, dei gadget tecnologici – smartphone, tablet, pc-, oppure ai prezzi dei libri, della musica, del biglietto del cinema, della retta per la formazione universitaria a pagamento, al costo dei corsi di formazione per disoccupati, alle paghe delle star del calcio, del golf e della televisione, ai compensi dei manager, basta dare un’occhiata a questi listini per rendersi conto che il prezzo non risponde più – ammesso e non concesso che vi abbia mai risposto – ad un sano principio di libero mercato, di libera concorrenza, di formazione equa del valore del prodotto, ovvero di corrispondenza tra il lavoro assorbito e la qualità o quantità del prodotto offerto.
La crisi è anche questo – scrive Mazzetti –, che i soldi anticipati non tornano indietro maggiorati di una pslus-valenza, ma tornano intaccati da una minus-valenza.
Chi detiene liquidi fatica a prestarli o a investirli. Piuttosto li fa girare nel circuito finanziario, alimentando anche una bolla, dalla quale spera di trarre un guadagno, a danno del pollo al quale rimane il cerino in mano.
Stando Mazzetti, il credito, nella fase attuale, non può nulla. Al massimo può alimentare la speculazione.
Già al tempo di Keynes il credito si era inceppato, e si era inceppato perché nemmeno la vendita del prodotto futuro assumeva un valore tale da permettere di pagare i debiti pregressi.
Il credito aveva esaurito il suo ruolo positivo, cioè quello di rendere gli atti unilaterali di acquisto e di vendita ancora più distanti nel tempo e più indipendenti.
La soluzione proposta da Mazzzetti è di accorciare e ridurre a zero questo tempo di attesa, sfruttando la programmazione,.
Se c’è crisi è proprio a causa di questa dilazione, di questa interruzione, di questa disseminazione e attesa.
Tutte le misure adottate dall’impresa negli ultimi 50 anni (just-in-time, lean production, kaizen, kanban, Marketing, etc) sono rivolte contro il tempo, contro l’attesa, contro la dilazione. Anche le trovate finanziarie, i derivati, i futurs, gli swap, i CDS, eccetera, sono state introdotte per combattere il tempo. E anche l’euro è un tentativo disperato di combattere la dilazione tra le valute, la quale si esprime in contratti in valuta e a termine.
Ma il tempo può essere sconfitto?
Secondo Mazzetti è possibile.
È possibile sconfiggere il tempo mediante il programma.
Il programma consiste nella decisione collaborativa di produrre e consumare ciò che serve, insieme ai mezzi impiegati per produrlo.
La programmazione è un tentativo di acquisire una signoria sul tempo. È una terapia contro le sorprese.
Il futuro deve restituire esattamente ciò che noi abbiamo riposto in esso, anche a titolo di credito.
Ora, la questione del tempo e della corruzione è una questione antica, nota a tutti. E non è possibile riassumerla qui, neanche per sommi capi. Ci basti solo sapere che già nel Fedro Platone lamentava il fatto che i Titoli, con i quali si voleva differire l’intenzione cosciente e presente, se ne potessero andare in giro da soli, alla stregua di automi animati, e trasvalutare il valore che gli era stato affidato di trasmette. Se fosse stato possibile azzerare la differenza tra il momento dell’enunciazione attuale dell’intenzione cosciente e la sua efficacia sul destinatario, non ci sarebbe stato alcun bisogno di un Titolo di trasmissione.
Per farla breve. Se produzione e consumo fossero istantanei, non ci sarebbe bisogno di alcun titolo che permette la dilazione e il saldo dei due momenti. Tutto si risolverebbe immediatamente, senza resti, dunque senza crisi. Se la crisi interviene è perché c’è divisione, c’è differenza, c’è dilazione, c’è indifferenza reciproca, perché il mondo pullula di forze e contro-forze serrate nelle loro differenze intraducibili.
Ora, proprio perché produzione e consumo non sono istantanei, c’è bisogno che entri in scena il denaro. Esso congiunge il passato con il futuro. Ed è indifferente che esso sia il frutto di una precedente vendita, oppure il risultato di un’ipoteca su una futura vendita, come avviene nelle operazione di credito, o sia, infine, denaro fittizio, al quale non corrisponde alcun negozio passato o futuro.
Il denaro ha questo di particolare, che una volta lascito andare, acquisisce una sorta di autonomia. Questa autonomia, scrive Mazzetti, è il frutto di una reificazione, di una alienazione, di una cessione alla cosa di un potere che all’origine è un potere condiviso, un potere sociale, un potere umano.
Il titolo si impadronisce di questo potere, e se ne va in giorno da solo, e parla con tutti, manco avesse una testa di legno piena di grilli. E in questo suo andamento, non tiene in nessun conto delle intenzioni originarie di chi lo ha creato.
Anche quando queste intenzioni sono buone, come sono buone le intenzioni di una banca centrale che inonda il mercato di valuta fresca, non è ancora detto che il denaro, una volta rilasciato nel circuito del credito, si comporti secondo le aspettative di chi lo ha creato.
La sfasatura tra le aspettative e la destinazione effettiva imboccata dal titolo generano la crisi.
La programmazione non è solo il tentativo di ricucire questa sfasatura, è anche la decisione di voler eliminare ciò che l’ha creata, il denaro, il titolo di credito.
Ma davvero il titolo di credito può essere eliminato? Davvero può essere eliminata la sfasatura temporale, la reificazione, l’alienazione e tutto il resto?
La programmazione, in quanto pre-visione, non genera essa stessa una cartolarizzazione del desiderio?
Se così è, la crisi non può certo essere eliminata dalla programmazione.
Il titolo – il denaro – non è così facile da sradicare, nemmeno dal desiderio dei suoi più potenti nemici. Ogni volta che il desiderio si accende e si fa avanti, immette in circolazione titoli di credito.