di Marco Pondrelli
Possiamo definire il libro di Giuseppe Amata una storia politico-ideologica della Cina, che abbraccia la Rivoluzione ed il periodo delle Riforme. Non è facile riassumere un libro che affronta un periodo così ampio, per farlo preferisco non rispettare lo svolgimento cronologico. Quando Goethe visitava una città appena arrivato era solito salire sul punto più alto per avere una visione d’insieme. Allo stesso modo per affrontare il libro in questione parto dalla parte centrale che affronta le riforme di Deng Xiaoping, il punto ‘più alto’ dal quale gettare uno sguardo al prima ed al dopo.
Le riforme avviate alla fine del ’78 rispondevano a due elementi, uno di politica interna ed uno riguardante il contesto internazionale.
All’interno dopo la morte di Mao Zedong (1976) il problema da affrontare era quello economico-sociale con ampie fasce di povertà e sottosviluppo ancora presenti, nonostante gli importanti risultati raggiunti. Intanto, ed è il secondo punto, anche fuori dalla Cina il mondo si stava trasformando, da un lato vi era la conclamata crisi dell’Unione Sovietica e dall’altro la nascita della Trilateral e del pensiero unico [pag. 125]. l’apertura della stagione delle Riforme tenta di rispondere e portare a sintesi queste contraddizioni.
La scelta di Deng fu quella di abbandonare il socialismo? La risposta di Amata è negativa ed è supportata anche dall’esempio cubano. Con il crollo dell’URSS Cuba dovette contare solo sulle proprie forze e, facendo tesoro anche dell’esperienza cinese, riformò il suo sistema aprendo ‘all’iniziativa privata’ [pag. 171]. Questa scelta fu essenziale per salvare il socialismo non per abolirlo. Lo stesse scelte cinesi non erano originali, Deng conosceva molto bene la storia sovietica compresa la NEP, come scrive Vladimiro Giacché siamo di fronte al passaggio ‘da un’economia di fatto integralmente statalizzata e pianificata a un’economia in cui coesistono da un lato un ampio e crescente settore privato dell’economia, dall’altro il mantenimento nelle mani dello Stato di un potere di indirizzo strategico – anche grazie a un settore pubblico dell’economia che conta numerosi colossi nell’industria e nei servizi. Questa inedita combinazione di economia pianificata ed economia di mercato non è meno sconcertante di quanto lo fosse la transizione alla NEP da parte di Lenin‘[1]. Tema ben presente nel libro quando l’Autore si domanda se Deng promosse ‘una nuova NEP, di dimensioni ancora maggiori di quella sovietica per fare due passi avanti, facendone prima uno indietro?’ [pag. 114]. Questo permise di sviluppare le forze produttive, il grande merito delle Riforme, in grado di togliere dalla povertà oltre 700 milioni di cinesi.
Il periodo delle Riforme e delle aperture non ha avuto solo aspetti positivi, lo stesso Deng sottolineò che ‘nel portare a termine queste politiche, in Cina si sono fatte sentire diverse cattive influenze occidentali’ [pag. 144]. Quello della ‘tenuta ideologica’ è un tema affrontato anche da Bertozzi ed entrambi gli autori concordano sul ruolo fondamentale del Partito. Amata legge le differenze fra le scelte cinesi e quelle degli altri paesi socialisti che, come l’Unione Sovietica e la Jugoslavia, hanno tentato di abbandonare la pianificazione ma, in questi casi, ‘mancava l’approfondimento teorico nelle diverse fasi di sviluppo della società’ [pag. 279]. Si può affermare che mentre per altri paesi questi furono scelte tattiche per la Cina furono strategiche.
A questa parte centrale si accompagna anche una profonda riflessione sulla Cina maoista e sulle scelte che ne hanno segnato la storia, dal grande balzo in avanti alla rivoluzione culturale fino all’apertura al dialogo con gli Stati Uniti. In questo periodo, che l’attuale dirigenza non condanna in pur cogliendone limiti ed errori, la Cina consolida le proprie forze resistendo all’accerchiamento delle potenze imperialistiche.
Se questo è il prima delle Riforme il dopo è segnato da questioni molto differenti. In particolare va sottolineato, nel 2001, l’ingresso nel WTO. Personalmente ricordo le polemiche che dentro il PRC si scatenarono all’epoca, in un Partito molto sensibile alle idee negriane di Impero questa scelta equivaleva a divenire parte del potere mondiale. La realtà è ben diversa, l’ingresso nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nonostante i costi sociali che nell’immediato si produssero, ha dato un saldo positivo con un aumento del benessere ed una diminuzione della povertà.
L’Autore non nasconde errori e limiti ma sopratutto si concentra sulle sfide a cui la Cina ha dato e dovrà dare risposta. Ogni generazione che si è alternata al potere ha dato il proprio contributo teorico nella gestione di questa complessità. Un passaggio importante, per la tenuta politica del Paese, fu quello imperniato sulla ‘triplice rappresentanza’ ed incarnato da Jiang Zemin. Mentre lo sviluppo delle aziende pubbliche in URSS crearono forze sociali che contribuirono ai successi scientifici e teorici ma che non avevano lo spazio ‘ di esprimersi e di accedere alla gestione della società’ [pag. 208], Jiang Zemin impedì che queste forze divenissero un corpo estraneo e potenzialmente destabilizzante.
Tutto questo dimostra come la Cina oggi cresca dentro un equilibrio che è economico ma anche politico ed ideologico. Difronte Pechino ha, come si dice oggi, un competitor (gli USA) in profonda crisi descritta dall’Autore in modo puntuale. Il Covid sarà la battaglia di Stalingrado cinese [pag. 335] perché la risposta cinese segnerà un complessivo avanzamento di Pechino negli equilibri mondiali, così come successe con la crisi economico–finanziaria del 2007-08 che ha rafforzato il ruolo cinese in grado di mantenere la stabilità ed essere allo stesso tempo motore della ripresa.
Note:
1. Giacché Vladimiro (a cura di), Economia della rivoluzione, il saggiatore, Milano 2017, pag. 90-91