Angelo d’Orsi, L’intellettuale antifascista. Ritratto di Leone Ginzburg, Vicenza, Neri Pozza, 2019

libro orsidi Roberta Mira

Con il suo L’intellettuale antifascista Angelo d’Orsi ci offre un ritratto di Leone Ginzburg negli aspetti della sua vita forse meno noti ai più. Al centro del volume, infatti, non troviamo tanto la vicenda dell’oppositore al fascismo e del perseguitato politico – vicenda che pure è ovviamente presente e ricostruita nel dettaglio – quanto il profilo dell’intellettuale Ginzburg, dagli anni della formazione nei primi decenni del Novecento fino alla morte avvenuta nelle carceri di Regina Coeli nel 1944. Il lettore può così seguire il percorso di vita e di studio di Ginzburg che vede legarsi la cultura alla politica, l’essere intellettuale con l’essere antifascista, in una elaborazione e in un attivismo culturali che non cessano neanche di fronte al confino politico e al carcere.

Il libro si apre con la nascita di Leone Ginzburg nel 1909 a Odessa, in una famiglia ebraica benestante non particolarmente religiosa e di mentalità aperta, e con la sua crescita in un ambiente cosmopolita che lo vede dividersi fra Russia, Germania e soprattutto Italia, paese nel quale trascorre lunghi periodi con la madre e i fratelli e con l’istitutrice Maria Segrè, che di fatto è sua zia, e dove presto si stabilisce frequentando le scuole elementari, parte del ginnasio (completato a Berlino), il liceo e l’Università.

Sin da giovanissimo Leone legge, ascolta musica, frequenta il teatro e scrive articoli, recensioni, racconti; giunge quindi al liceo D’Azeglio di Torino già forte di un certo bagaglio culturale che il contesto liceale e il rapporto stretto con alcuni insegnanti (Umberto Cosmo, Zino Zini, Augusto Monti, Arturo Segre) e con i compagni e amici (specialmente Norberto Bobbio) accrescono e fanno sviluppare.

D’Orsi segue Ginzburg in questo percorso formativo restituendoci le sue letture, i racconti e i romanzi che scrive, il suo lavoro di recensore e collocando in questi anni giovanili le premesse per «il suo destino editoriale» (p. 57) che si fa più chiaro nel periodo degli studi universitari. Ginzburg si iscrive prima a Giurisprudenza per poi passare a Lettere. Tra i docenti che lasciano un segno nella sua formazione, D’Orsi ricorda Francesco Ruffini e Lionello Venturi, che rifiutano di prestare il giuramento di fedeltà al fascismo nel 1931; Santorre Debenedetti, allontanato dall’Università in seguito alle leggi razziali del 1938; Ferdinando Neri, fascista, che Ginzburg sceglie come relatore per la tesi di laurea in Letteratura francese non certo per le sue idee politiche, quanto per il carattere e i tratti di umanità che ne contraddistinguono l’insegnamento e il rapporto con gli allievi. Tra i compagni di corso e gli amici degli anni universitari ricorrono i nomi di Norberto Bobbio, Cesare Pavese, Franco Antonicelli, Massimo Mila.

Parallelamente agli studi liceali e a quelli accademici Ginzburg studia e traduce la letteratura russa (Tolstoj, Puškin, Gogol tra gli altri) prima per la casa editrice Slavia di Alfredo Polledro, poi per Einaudi, di cui sarà tra i fondatori e i principali animatori. E all’attività di traduzione affianca quella di critico, commentatore, filologo e storico di russistica e slavistica sulle pagine dell’ultima rivista fondata da Piero Gobetti, «Il Baretti», e ancora per Einaudi. Proprio in Letteratura russa Ginzburg ottiene la libera docenza universitaria che esercita a Torino dal 1933 all’inizio del 1934, anno del rifiuto del giuramento al regime e del primo arresto, a 25 anni non ancora compiuti. 

Ginzburg si muove quindi sulla scena culturale della Torino degli anni Venti e Trenta, e seguendo lui incontriamo esponenti importanti del milieu intellettuale e di quello antifascista, come il già citato Norberto Bobbio o Cesare Pavese, Luigi e Giulio Einaudi, Carlo Levi, Giorgio Agosti, Aldo Garosci, i fratelli Rosselli, Vittorio Foa, Federico Chabod e molti altri; nell’atmosfera che ci è restituita dal volume aleggiano gli insegnamenti di Benedetto Croce – che Ginzburg conosce personalmente e frequenta – e le figure di Antonio Gramsci e soprattutto di Piero Gobetti.

Da biografia personale il lavoro di D’Orsi diviene così anche ritratto collettivo di Torino, della sua Università, del mondo delle riviste, della casa editrice Einaudi; un panorama, quello della cultura a Torino nella prima metà del Novecento, caro all’autore che ne ha approfondito in modo esaustivo numerosi aspetti nei suoi precedenti lavori.

Questo allargamento dello sguardo dal protagonista al contesto consente a D’Orsi di restituirci una riflessione sul rapporto tra fascismo e mondo della cultura, sugli strumenti messi in campo dal regime mussoliniano per piegare il lavoro delle istituzioni culturali ai propri fini, per ottenere controllo e consenso, e sui mezzi e metodi della repressione del dissenso; allo stesso tempo troviamo una lettura di come una parte dell’intellettualità torinese – e italiana – si adeguò, condivise o si fece promotrice del fascismo, e anche di come durante il fascismo si svilupparono energie e fermenti culturali, non sempre allineati, anche se non chiaramente orientati in senso antifascista.

Quanto a Ginzburg, il suo è invece un antifascismo strettamente legato alla cultura, al suo essere l’«intellettuale antifascista» del titolo scelto da D’Orsi per questa biografia. Se è vero che il giovane presenta una notevole apertura sul piano culturale che lo porta a non escludere scambi e collaborazioni con intellettuali politicamente lontani da lui, è anche vero che la sua formazione, il suo cosmopolitismo, la visione dell’Europa allargata alla Russia, le sue letture, l’interesse per il federalismo, la sua stessa curiosità culturale lo portano a una elaborazione politica intransigente nei confronti del fascismo, un regime che esprime una “cultura” opposta a quella di Ginzburg e che va contrastato innanzitutto sul piano culturale e su quello morale, «“forma[ndo] quello che conta assai più di un governo, un costume”» (Ginzburg, 1932, cit. a p. 188). Con il passare del tempo questa apertura sul piano della cultura e delle idee lascia sempre più spazio alla politica diretta all’insegna dell’antifascismo fino ad arrivare negli ultimi mesi di vita di Ginzburg all’attività clandestina e cospirativa squisitamente politica.

Scena dell’incontro tra cultura e politica per Ginzburg non è Torino, ma Parigi, dove il giovane si reca con una borsa di studio nel 1932 per approfondire la letteratura francese dopo la laurea, e dove prende a frequentare Carlo Rosselli e la cerchia dei fuoriusciti antifascisti con i quali collabora una volta rientrato in Italia. Ma sono di nuovo Torino e il suo ambiente culturale che vedono il passaggio all’antifascismo attivo di Ginzburg all’interno di Giustizia e Libertà, e dei circuiti intellettuali e di una parte dell’ebraismo torinese che tanti protagonisti dà sia al panorama cittadino della cultura sia all’antifascismo. Questo legame del movimento giellista con un pezzo del mondo ebraico non sfugge ai fascisti che, anzi, vi scorgono la possibilità di colpire contemporaneamente gli antifascisti e gli ebrei attivi nel movimento e di dimostrare l’esistenza di un complotto sovversivo ebraico contro il regime, additando tutti gli ebrei come nemici dell’Italia. Altro elemento che i fascisti e i loro informatori colgono è il tratto culturale dell’antifascismo di GL a Torino. Della Einaudi e della rivista «La Cultura» i fascisti dicono che sono centri di aggregazione di intellettuali antifascisti, centri di elaborazione e diffusione di idee avverse al regime, fatte circolare attraverso la stampa per raggiungere gli ambienti culturali e i giovani intellettuali. È vero, ma non si tratta sempre di un antifascismo politicamente maturo e diversi sono i gradi di opposizione al regime dei collaboratori della casa editrice, tra cui vi sono anche degli a-fascisti e dei filofascisti. Certamente, però, la scelta di campo è chiara per Leone Ginzburg.

Torino è lo sfondo principale su cui si sviluppa questo antifascismo culturale. Tuttavia il collegamento con Parigi e i fuoriusciti resta stretto e proprio la scoperta al confine svizzero di due antifascisti che cercano di introdurre in Italia materiale a stampa clandestino attraverso il gruppo di cui fa parte Ginzburg conduce a perquisizioni e arresti tra le fila gielliste torinesi da tempo sorvegliate dalla polizia: Leone Ginzburg viene arrestato il 13 marzo 1934. Recluso prima a Regina Coeli, dopo il processo – in cui è accusato di essere «“l’anima”» di un «“movimento rivoluzionario”» che vuole abbattere il fascismo (p. 227) – e la condanna a cinque anni di carcere, di cui due condonati, Ginzburg è trasferito a Civitavecchia dove resta dal 17 dicembre 1934 al 13 marzo 1936.

La rete torinese di Giustizia e Libertà è colpita nuovamente fra il 1935 e il 1936 dagli arresti, fra gli altri, di Massimo Mila, Vittorio Foa, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Carlo Levi e del professor Augusto Monti, rimasto legato ai suoi ex studenti per via delle comuni idee politiche. Tra gli arrestati alcuni, come Foa, Monti, Levi e Pavese, sono condannati al carcere o all’internamento.

Nel 1936 Ginzburg rientra a Torino e torna a dedicarsi al lavoro editoriale per la Einaudi, ma è costantemente sorvegliato dalla polizia come «“irriducibile antifascista”» (p. 267). L’introduzione delle leggi razziali nel 1938 gli costa la perdita della cittadinanza italiana da poco ottenuta e l’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale lo porta all’internamento a Pizzoli in Abruzzo, dove Leone arriva il 13 giugno 1940 e dove a ottobre lo raggiunge la moglie Natalia Levi con i due figli Carlo e Andrea, nati rispettivamente nel 1938 e nel 1939. A parte un soggiorno autorizzato a Torino nel 1941, la famiglia resta in Abruzzo fino alla caduta del fascismo e all’armistizio del 1943, e in Abruzzo, proprio nel 1943, nasce la terza figlia, Alessandra. 

A differenza del confino politico sulle isole che per diversi antifascisti diviene occasione di discussione e crescita politica, l’internamento in piccoli Comuni sulla terraferma come Pizzoli non offre molte possibilità di confronto e scambio intellettuale. A Pizzoli gli internati sono pochi e non di grande spessore; gli abitanti, pur amichevoli con la famiglia Ginzburg e rispettosi della caratura intellettuale di Leone, sono gente semplice. Ginzburg stringe amicizia con un operaio comunista, Vittorio Giorgi, con il quale discute della necessaria unità tra gli antifascisti per la sconfitta del fascismo e del nazismo, dell’assetto dell’Italia futura, dell’andamento della guerra. Ma a stargli vicina più di tutti è la moglie Natalia che condivide con lui l’isolamento e la monotonia dei lunghi anni di internamento, il lavoro intellettuale, la cura della famiglia, le idee. Gli anni a Pizzoli sono contraddistinti da una grande attività editoriale per la Einaudi da parte di Ginzburg, il quale, sebbene lontano, traduce, recensisce, rivede testi, pianifica, scrive e di fatto partecipa alla direzione della casa editrice.

Dopo gli avvenimenti del 25 luglio 1943, precisamente il 4 agosto, Leone Ginzburg viene liberato. Anziché rientrare a Torino si reca a Roma dove la Einaudi nel 1941 ha aperto una sede di cui Ginzburg diviene il direttore; la moglie e i figli lo raggiungono a inizio novembre 1943. Parallelamente all’attività culturale Leone riprende quella politica, ora da dirigente del Partito d’Azione, fondato nel 1942, in cui confluiscono diversi militanti antifascisti di Giustizia e Libertà. Ancora una volta si intrecciano per lui lavoro editoriale e cospirazione antifascista: il partito lo incarica infatti di dirigere con Manlio Rossi Doria, Carlo Muscetta e Francesco Fancello il foglio clandestino «L’Italia libera». Ginzburg, sotto false generalità, si impegna senza tregua nella pubblicazione che vede come uno strumento per portare alla lotta contro fascismo e nazismo e anche per lanciare ipotesi sul futuro dell’Italia repubblicana e democratica, di un’Europa in cui l’antifascismo sia un tratto comune sul quale basare la solidarietà fra i paesi, e della pace mondiale garantita da istituzioni internazionali a cui ogni Stato deve cedere sovranità.

Il 20 novembre 1943 Ginzburg viene arrestato dalla polizia nella tipografia dove si stampa clandestinamente «L’Italia libera». Portato a Regina Coeli e riconosciuto come Leone Ginzburg (ebreo, apolide, antifascista già incarcerato e internato), a dicembre è trasferito al braccio tedesco dove viene interrogato e picchiato pesantemente. La notte tra il 4 e il 5 febbraio 1944 Ginzburg viene trasferito nell’infermeria del carcere secondo un piano concertato con la rete del Partito d’Azione che prevede l’assunzione di un farmaco prescritto dal medico antifascista della prigione per provocare una crisi al fegato e consentire il trasferimento e la fuga di Leone. Non è chiaro se il farmaco abbia un effetto fatale sul fisico debilitato di Ginzburg, se egli stesso ne assuma una dose eccessiva, se il corpo ceda a causa delle percosse subite o di malattie preesistenti, ma la mattina del 5 febbraio 1944 Ginzburg viene trovato morto nell’infermeria. 

La parabola di Ginzburg – fa notare D’Orsi, così come fecero notare allora i compagni e gli amici di Leone, Norberto Bobbio, Piero Calamandrei, Pietro Pancrazi, Massimo Mila e lo stesso Benedetto Croce – si conclude troppo presto, a 35 anni non compiuti, senza che egli abbia visto la fine del nazismo e del fascismo, senza che abbia potuto mettere in pratica le proprie idee per un’Italia e un’Europa postfasciste e antifasciste. Idee che ha elaborato, coltivato e comunicato fino all’ultimo, attraverso le pagine dell’«Italia libera» e poi in carcere in quelle che Manlio Rossi Doria chiama lezioni ai compagni.

Con la morte del protagonista si chiude anche l’avvincente volume di D’Orsi, una biografia così ricca di personaggi, avvenimenti, informazioni da non essere, come abbiamo detto, soltanto una biografia, ma piuttosto un grande affresco degli ambienti intellettuali di Torino, di un pezzo consistente del mondo della cultura italiana del primo Novecento, delle reti antifasciste nate attorno a Giustizia e Libertà in Piemonte, in Italia, all’estero.

Un’ultima nota sul ruolo che in questo affresco assumono le donne. Meno numerose degli uomini, non sono però meno importanti, a partire dalle quattro più vicine a Ginzburg: la madre Vera, a cui Leone è profondamente legato e a cui scrive costantemente lettere dall’infanzia agli ultimi mesi della sua vita; la sorella Marussia (anche lei internata come antifascista allo scoppio della guerra) che è per Ginzburg il tramite con la lingua russa, colei che si interessa di sbrigare pratiche, di fare da intermediaria con i colleghi intellettuali e che tenta di ottenere sgravi di pena per Leone durante la carcerazione nel 1934-1936; Maria Segrè, istitutrice, zia naturale e “seconda madre” per Leone, il quale trascorre con lei lunghi periodi quando la madre è lontana dall’Italia e sceglie le sue iniziali, M.S., come firma per gli articoli sulla stampa antifascista; la moglie Natalia Levi, conosciuta nel 1933 e sposata nel 1938, che, pur non essendo costretta da provvedimenti a suo carico, resta vicino a Leone negli anni dell’internamento, che lo vuole vedere morto a Regina Coeli per un ultimo saluto, che prende il suo cognome e lo mantiene sempre come simbolo distintivo e identitario.

Figure importanti nella vita di Ginzburg che affiorano ripetutamente fra le pagine del libro, non come mere comparse, e a cui ci auguriamo Angelo d’Orsi voglia dedicare presto un nuovo lavoro con la stessa passione che contraddistingue questa sua biografia di Leone Ginzburg.