di Marco Pondrelli
Begram ospita una base militare statunitense sede di un carcere nel quale, dal 2002 al 2008, è stata sistematicamente praticata la tortura, sempre a Begram assieme a questi orrori si trova anche il più importante sito archeologico dell’Afghanistan con i resti di Alessandria del Caucaso, la Kapisa degli Achemenedi. È un luogo che rappresenta bene passato e presente dell’Afghanistan e che racchiude anche l’alfa e l’omega del libro di Maria Morigi, diviso in due parti: la prima dedicata all’analisi storico-politica dell’Afghanistan e la seconda alla descrizione del suo inestimabile patrimonio archeologico.
L’importanza geostrategica di questo martoriato paese è data dalla sua posizione, non a caso Brzezinski si dedicò ad analizzarlo nel suo ‘la grande scacchiera’ (dato alle stampa ben prima del 2001). Per l’ex consigliere della sicurezza di Carter ‘l’idea è che la chiave del potere globale sia il controllo dell’Eurasia e sopratutto che, per controllare l’Eurasia, sia necessario il controllo dell’Asia centrale’ [pag. 70], essendo l’Afghanistan il cuore dell’Asia centrale esso diviene una pedina fondamentale nel grande gioco geostrategico.
Parliamo di un paese diviso al suo interno fra molte etnie e differenti popolazioni, come descritto in modo approfondito dall’Autrice, che è sempre stato al centro del conflitto fra Imperi e stati colonialisti, sempre trattato da oggetto più che da soggetto ma sempre pronto a difendere la propria sovranità nazionale. Non sempre Kabul è stata sinonimo di estremismo islamico, dopo l’indipendenza del 1919 la Costituzione del ’21 garantiva eguaglianza a tutti i cittadini senza distinzione di sesso. Lo stesso intervento sovietico voleva difendere un progetto politico che, pur con tutti i suoi difetti, rappresentava un tentativo di governo laico e progressista della società.
Qui torna un leit motiv che ha sempre caratterizzato la politica occidentale verso il resto del mondo, ovverosia sostenere la parte politica più reazionaria combattendo tutti i tentativi di modernizzazione progressista. Avvenne negli anni ’80 quando i Mujaheddin furono sostenuti in chiave anti-sovietica ma si potrebbe anche citare l’esperienza di Nasser in Egitto o Mossadeq in Iran e tanti altri casi. A dimostrazione di ciò l’Arabia Saudita è oggi un alleato imprescindibile per l’Occidente, Renzi docet.
Il disastroso intervento in Afghanistan iniziato nel 2001 non fa eccezione. A suo tempo fu giustificato dalla mancata consegna di Bin Laden agli Stati Uniti e dal sostegno che i talebani davano ad Al Qaida ma, rileggendo i giornali dell’epoca, possiamo vedere come tanti, politici, giornalisti ed ‘esperti’, ci assicuravano che l’intervento avrebbe portato la democrazia e l’emancipazione delle donne afghane oltre allo sradicamento della produzione di oppio. È interessante analizzare, attraverso il libro di Maria Morigi, nel dettaglio queste tre giustificazioni della guerra.
Sulla democrazia afghana e l’emancipazione delle donne è meglio stendere un velo pietoso, le cancellerie occidentali dovrebbero sapere, cosa che a qualche entusiasta esportatore della democrazia sfugge, che non si costruisce la democrazia distruggendo lo Stato.
È interessante dedicare una piccola riflessione alla produzione di oppio, in merito alla promessa che la guerra sarebbe riuscita ad azzerarla. Se ancora oggi ci si riferisce all’Afghanistan parlando di ‘Drogastan’ [pag.95]’ è evidente che i buoni propositi non hanno avuto seguito. Come ha scritto Enrico Piovesano, la lotta alla produzione di oppio non era una priorità dell’intervento armato, tanto è vero che ‘i rapporti annuali prodotti dall’UNODC dimostrano che l’Afghanistan sotto occupazione USA-NATO ha raggiunto in pochi anni il quasi-monopolio globale della produzione di oppio e quindi di eroina[1]’.
Rispetto agli obiettivi ufficiali (consegna di Bin Laden e alleanza talebani – al-Qa’ida) l’Autrice ricorda come Bin Laden fosse considerato un ospite e protetto come tale, la controproposta di estradare il saudita in un paese terzo per farlo processare non bastò agli USA, era ovvio, allora come ora, che la decisione era già stata presa e che la guerra non poteva essere evitata.
Dopo 20 anni si può parlare di ‘missione incompiuta’ con l’Occidente che si ritrova incapace di vincere ed impossibilitato ad andarsene e giustamente sottolinea la Morigi ‘oggi, purché la guerra finisca, molti sarebbero disposti ad accettare che i talebani tornino al potere'[pag. 121]. Se gli obiettivi del 2001 fossero stati sinceri la cosa non dovrebbe stupire più di tanto, Bin Laden è morto (senza mai essere processato) e per i rapporti fra talebani e al-Qa’ida non si può parlare di alleanza. I talebani combattono una guerra, piaccia o meno, che è di liberazione nazionale mentre Al Qaida si pone l’obiettivo della costruzione del califfato. Inoltre in Siria la filiazione turca di al-Qa’ida, il Fronte al-Nuṣra, divenne, al momento della riconquista di Aleppo da parte dell’esercito siriano, parte integrante degli improbabili ‘ribelli moderati’. Gaetano Brescia nel suo interessante libro ‘missione fallita’ afferma: ‘la convinzione che il ritorno dei talebani al potere a Kabul comporterebbe il ritorno, al loro seguito, di ciò che resta di al-Qa’ida […] si basa unicamente sul potere evocativo dell’11 settembre[2]’. La contraddizione dell’Occidente non è il ruolo dei talebani ma non avere una exit strategy, o meglio il problema è volere la exit ma senza una strategy.[3]’.
La proposta che a suo tempo fu fatta da Kissinger era quella di andarsene chiamando la ritirata vittoria ma la contraddizione che vivono gli USA è più profonda di quanto appaia. Il tentativo di pace di Trump trovò, come ricorda l’Autrice, un ostacolo al congresso nella maggioranza democratica, questo perché la dichiarazioni contro il terrorismo in realtà mascherano ‘il vero gioco Usa/Nato, il cui obiettivo è il controllo di un’area di primaria importanza strategica, dove l’influenza di Russia e Cina sta crescendo'[pag. 124]. Questo è il punto centrale che Morigi coglie, l’ascesa pacifica cinese va fermata e gli Stati Uniti intendono farlo attraverso la costruzione di un’area di instabilità.
Queste scelte geopolitiche pesano sul presente e sul futuro della popolazione afghana ed anche (di questo si occupa la seconda parte) sul patrimonio artistico ed archeologico del paese che ha dovuto anch’esso affrontare la ferocia della guerra e la stupidità umana come dimostra la distruzione delle due statue dei Buddha ad opera dei talebani.
Note:
1. Piovesana Enrico, Afghanistan 2001-2016. La nuova guerra dell’oppio, Arianna editrice, Bologna, 2016, pag. 42.
2. Breccia Gastone, Misisone fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan, il Mulino, >Bologna, 2020, pag. 126.
3. Breccia Gaetano, op. cit., pag. 89