Libri, cultura e notti bianche

Qualche giorno fa sulla “Stampa” Bruno Gambarotta scriveva: “Oggi a Torino se non organizzi la tua notte bianca non sei nessuno”. L’articolo (Innamorati delle notti bianche) proseguiva elogiando la nuova moda torinese, facendo eco al coro entusiastico di quanti nei giorni scorsi hanno accompagnato l’inaugurazione di Torino Capitale Mondiale del Libro avvenuta il 22 aprile con una stucchevole kermesse di letture e di musica intitolata “Bookstock” (come a dire, la Woodstock dei libri). Ma l’osservazione ironica di Gambarotta può costituire lo spunto anche per una riflessione più apertamente problematica e critica sulla manifestazione. Converrà insomma fermarsi a porre qualche interrogativo, piuttosto che confermare certezze apparentemente indiscutibili.
E l’interrogativo principale è il seguente: la cultura ha qualcosa a che fare con l’organizzazione dei “grandi eventi”? Non è naturalmente questa la sede per sviscerare a fondo un tema così complesso, ma si può provare a enucleare qualche prima considerazione. La logica spettacolare, tipica del grande evento, è precisamente ciò che si contrappone alla cultura intesa come sedimento di un sapere critico e complesso. Lo “spettacolo” è la resa in superficie di ciò che avrebbe altrimenti una sua profondità: si tratta in un certo senso della sostituzione della profondità con la superficie. E’ soprattutto per questo che lo “spettacolo” televisivo produce un così potente effetto di banalizzazione, perché la spettacolarizzazione di una cosa coincide sempre con la resa superficiale della cosa stessa. E’ ben curioso perciò che un evento come Bookstock, che vorrebbe apparentemente contrapporsi al modello culturale televisivo, ne riproduca in realtà le modalità più sottili e sotterranee.
D’altra parte, a sentire chi ha organizzato la kermesse, le cose risultano piuttosto chiare. Gabriele Vacis, che della notte di Bookstock è stato il regista, ha scritto sempre sulla “Stampa” che un evento come questo può finalmente “traghettare” Torino dalla “cultura industriale” all’”industria culturale”. Niente da dire: tutto molto esplicito. Peccato che la logica profonda dell’industria culturale -ce lo hanno insegnato i grandi maestri di quel Novecento oggi così bistrattato e dimenticato (Adorno, Brecht)- finisca ineluttabilmente per determinare la sussunzione della cultura all’interno di una logica produttiva, quella tipica del mercato, che è quanto di più distante possa esserci dalla cultura.
In effetti lo stesso Vacis nel suo articolo è estremamente chiaro, e di questo gli va dato atto. Bookstock, scrive Vacis, ci consegna lo slogan migliore di un programma culturale per i prossimi anni, “mettere insieme lo Stabile e il Leonkavallo”: l’arte colta, sembrerebbe di capire dalle parole di Vacis, con i sacchi a pelo di chi ha pernottato nel “Palaisozaki” per assistere alla notte bianca dei libri.
Ma a parte il fatto che l’arte colta, intesa in senso profondo, non ha nulla a che fare con il Teatro Stabile, che si propone quasi sempre, salvo rarissime eccezioni, come un luogo di conservazione culturale, la vera questione è forse ancora un’altra. Ed è la seguente: la cultura non può essere un luogo di pacificazione o di conciliazione, ma di conflitto. Conflitto delle idee, ma pur sempre conflitto. La cultura dello Stabile deve in questo senso restare diversa e opposta dalla cultura del Leonkavallo, o degli altri centri più meno piccoli o più o meno marginali di produzione culturale. Il conflitto è infatti il vero motore della cultura. L’idea che si possa prefigurare uno scenario culturale che assomigli a quella notte in cui tutte le vacche sono grigie è certo perfettamente funzionale alla logica dell’industria culturale, che deve rendere ogni cosa uniforme e conciliabile in nome della “fruibilità” dei prodotti, ma è l’opposto del significato profondo della cultura, che è al contrario ciò che alimenta il fertile conflitto delle idee.