
di Michele Carozza
Gli ultimi tre decenni, quelli del trionfo neoliberista, sono segnati dall’aumento esponenziale ed ininterrotto delle disuguaglianze economiche e sociali, con effetti sconvolgenti sulle società e sugli individui. Dell’importanza e delle dimensioni del fenomeno, di come esso costituisca il tratto distintivo del trentennio neoliberista, con la concentrazione del capitale in sempre meno mani e la conseguente crisi delle democrazie, abbiamo parlato in diversi articoli di Marx21 (vedi ad esempio La disuguaglianza è una scelta politica o la recensione a Democrazia sotto assedio di E.Brancaccio) rivendicando l’esattezza di alcune tesi marxiane sulle tendenze di fondo nello sviluppo del capitalismo.
Il libro di Chiara Volpato che qui presentiamo (Le radici psicologiche della disuguaglianza, Editori Laterza) affronta questo stesso argomento dal punto di vista della psicologia sociale, passando in rassegna gli studi più recenti e indagando i meccanismi psicologici che consentono alle disuguaglianze di perpetuarsi.
I dati empirici dimostrano che nei paesi con un alto tasso di disuguaglianza crescono i problemi di salute fisica e psichica (minore aspettativa di vita, maggiore mortalità infantile, minore altezza media, incremento dei problemi comportamentali, depressione, schizofrenia, psicosi, maggiore consumo di alcol e droghe ecc.), aumentano problemi sociali, violenza e razzismo, si riducono i livelli di istruzione (e le capacità cognitive in relazione all’abbassamento dell’autostima provocato da rapporti di subordinazione), aumentano la corruzione ed i comportamenti disonesti, diminuiscono la fiducia nelle istituzioni, la coesione sociale e la partecipazione democratica. In definitiva maggiori disparità causano un peggioramento della qualità della vita in generale e una diminuzione del benessere collettivo. Eppure le disparità si perpetuano e si estremizzano, specie nei periodi di crisi, al riparo da critiche e rivolgimenti, anzi col sostegno esplicito o inconsapevole della maggioranza delle persone, di quelle che questo sistema favorisce come di quelle che penalizza. Paradossalmente “al crescere della disuguaglianza non corrisponde il diffondersi del conflitto, ma il dilagare della frammentazione sociale e la ricerca, sfibrante e il più delle volte fallimentare, di soluzioni individuali a problemi collettivi”.
Una percezione distorta o limitata delle disuguaglianze e una sottostima della loro entità e dei loro effetti, influenzata anche da una cattiva informazione, è tra i motivi che impediscono il sostegno a politiche e decisioni di redistribuzione equa della ricchezza.
Ma ad impedire che le disuguaglianze siano indagate e messe in discussione e ad inibire lo sviluppo del conflitto sono per lo più fattori di carattere ideologico, meccanismi di giustificazione dello status quo e naturalizzazione delle disparità che evocano i termini marxiani di falsa coscienza – mistificazione della realtà che rende possibile alle idee delle classi dominanti di farsi idee dominanti nella mente dei dominati – o il concetto gramsciano di egemonia come miscela di coercizione e costruzione del consenso. L’adesione alle ideologie risponde al bisogno umano di comprendere, ordinare e prevedere ciò che accade, di attribuirgli un senso, di controllare la paura di fronte all’incertezza della realtà e serve ad inibire sentimenti di indignazione e sensi di colpa di fronte alle ingiustizie. I meccanismi di legittimazione sono alla base della costruzione e del mantenimento delle gerarchie sociali e dei fenomeni legati alla dominanza sociale, “riforme e rivoluzioni si fondano sul cambiamento o sul capovolgimento delle percezioni di legittimità e illegittimità dell’intero ordine sociale”. La credenza in un mondo giusto (dove gli individui meritano quanto ricevono e ricevono quanto meritano), l’ideologia dell’essenzialismo (cheattribuisce a qualità innate ed immodificabili – genetiche – degli individui la loro appartenenza sociale ed è alla base di razzismo, sessismo, omofobia), l’ideologia meritocratica (per la quale chiunque, indipendemente dalle condizioni di partenza, può ambire ai vertici della scala sociale, a patto che lavori duramente) sono forme di legittimazione indagate nel libro che godono di ottima salute nell’epoca del neoliberismo, ideologia par excellence in quanto convinta di trovarsi oltre le ideologie e quindi incapace di riconoscersi come tale.
Motivo di grande interesse, che ci ha convinto più di altri a recensire questo libro (anche a due anni dalla sua pubblicazione), è la centralità in esso attribuita al concetto di classe sociale. Fino ad oggi la ricerca psicosociale si era occupata principalmente delle relazioni tra generi ed etnie, la gravità e la profondità dei mutamenti prodottisi in questi anni, soprattutto dopo la crisi economica del 2008, ha indotto gli psicologi sociali ad approfondire lo studio delle classi sociali, finora poco e male indagate, ma rivelatisi ora più utili nella comprensione di quanto accade.
Percezione e riconoscimento della propria e dell’altrui appartenenza di classe, sono un’abilità sviluppata sin dall’infanzia. La ricerca sperimentale mostra che gli esseri umani tendono a formulare giudizi sullo status dei loro interlocutori pochi secondi dopo averli conosciuti e collocano correttamente nella loro classe sociale gli individui che incontrano, sulla base di semplici informazioni – vestiti, gusti, comportamenti, costumi, accenti, preferenze alimentari ed estetiche. Questi dati contrastano con il rifiuto, diffuso nel mondo contemporaneo, a pensarsi in termini di classe: nonostante la rilevanza delle classi sociali, esse vengono misconosciute o sottovalutate.
Nelle pagine finali, dedicate alle conclusioni, ci viene presentato il caso esemplare di alcuni studiosi statunitensi i quali, convinti che, come le differenze di genere e di etnia, anche le disuguaglianze economiche e sociali – di classe – possono essere valorizzate e avere effetti benefici sull’organizzazione sociale, suggeriscono di aumentare l’interazione e la collaborazione tra individui membri di diverse classi sociali al fine di ridurre i conflitti all’interno della società – lasciando cioè sussistere le suddette disuguaglianze. È la stessa autrice a sottolineare il problema: “viene spontaneo interrogarsi sul ruolo che questi studiosi assegnano alla psicologia sociale e alle altre discipline sociali: devono contribuire a un reale cambiamento sociale o limitarsi ad avere una funzione palliativa di composizione del disagio?”. Lotta per il cambiamento o difesa dello status quo? Conflitto o pacificazione? Disvelamento della realtà o giustificazione dell’esistente? Questi studiosi conoscono perfettamente l’entità delle disuguaglianze economiche e le loro ripercussioni sulla vita delle persone: per quanto possano invocare una presunta neutralità della scienza, quando scelgono di operare per il mantenimento di un ordine fondato sulla disuguaglianza, essi compiono una precisa presa di posizione, eminentemente politica.
L’idea che abbiamo della psicologia e degli psicologi è spesso distorta dalla caricatura che ne fanno tv, cinema e giornali, come accade in tanti altri ambiti. Ne diffidiamo perché abbiamo esperienza, più o meno consapevolmente, delle sue applicazioni pratiche, delle tecniche di manipolazione e controllo tipiche del marketing, della pubblicità, dell’intrattenimento o della comunicazione, in cui siamo immersi e di cui molto spesso ci sentiamo vittime. La lettura di questo libro aiuta a comprendere che anche la ricerca scientifica è attraversata dal conflitto tra chi ha tutto l’interesse a perpetuare il mondo così com’è e chi invece vuole cambiarlo – e in tempi come questi, di esperti, tecnocrati e fede nella scienza, non è poco.
Unisciti al nostro canale telegram