La terra dei puri. Ideologia e geopolitica del Pakistan. Daniele Perra

di Marco Pondrelli

Il Pakistan è un Paese centrale nella politica euroasiatica e mondiale ma, allo stesso tempo, uno Stato misterioso perché raramente vi si dedicano riflessioni che vadano oltre a superficiali analisi. Il libro di Daniele Perra tenta, e riesce, ad approfondire questo tema dividendo il suo lavoro in due parti. La prima analizza le radici ideologiche del Pakistan e nel fare questo approfondisce il tema del rapporto fra Islam e Stato, la seconda parte si occupa della collocazione internazionale del Paese.

Il dibattito sul rapporto tra Islam e Stato ma anche tra Islam ed economia è molto complesso e noi ne conosciamo solo gli echi, le parti più avanzate del mondo musulmano sostengono l’incompatibilità di questa fede con il liberalismo, in conseguenza di ciò il rapporto fra religione e Stato non è riducibile alla categoria di ‘teocrazia’ ma piuttosto, come propose Maudadi, di ‘teodemocrazia’, ovverosia un ‘sistema basato sulla legge di Dio e sulla responsabilità dei governanti di promuovere il bene e di proibire il male’ [pag. 17].

Questo interessante dibattito religioso, ma allo stesso tempo politico, si sviluppò all’interno della divisione fra indù e musulmani nell’India colonia dell’Impero inglese. La nascita del Pakistan come operazione inglese per dividere il proprio nemico, messa in discussione da Michelangelo Torri nel suo ‘Storia dell’India’, è criticata da Daniele Perra, il quale sostiene ‘che i britannici fossero sostanzialmente contrari alla partizione’ [pag. 94] e compie un’accurata analisi storico-politica per ritrovare le radici di questa divisione, sottolineando come fu negli anni ’30 che questa idea prese forza fra i musulmani per merito di due importanti figure: Muhammad Iqbal e Muhammad Ali Jinnah [pag. 69].

La nascita del Pakistan introduce la seconda parte del libro dedicata alla collocazione geopolitica del Paese. Possiamo dividere la politica internazionale di Islamabad in tre periodi differenti. Il primo è legato alla figura di Zulfiqar Ali Bhutto, padre di Benazir, che ‘avanzò l’idea che la soluzione strategica fosse quella di ricercare una maggiore cooperazione con la Cina’ [pag. 97], questa scelta era legata alla necessità di garantire l’autonomia dello Stato. Assieme a quest’apertura Bhutto rafforzò il legame con l’Europa (sopratutto orientale) basando questa scelta su presupposti ‘che oggi si potrebbero definire eurasiatisti’ [pag. 100]. L’Autore velocemente affronta i limiti della politica interna di Bhutto concentrandosi, essendo questo l’oggetto della ricerca, sulle dinamiche internazionali. È ovvio che sui limiti dello sviluppo interno del Pakistan molto si potrebbe dire ma, come insegnò Lenin a proposito dell’emiro afghano, occorre sapere distinguere i due campi.

L’esperienza di Bhutto finisce con la sua morte a seguito del colpo di Stato del Generale Zia ul-Haq che oltre a rappresentare un involuzione nella politica interna ancora lo Stato islamico agli Stati Uniti, accettando dall’Amministrazione Reagan aiuti per 3,2 miliardi (1981 – 1986). In conseguenza di ciò in Pakistan avrà un ruolo fondamentale nel sostenere la guerriglia anti-sovietica in Afghanistan. Il 2001 rappresentò per il Pakistan la fine del residuo di sovranità nazionale che gli rimaneva, dopo avere sostenuto i talebani si trovò schiacciato dalla politica di Bush che insediò a Kabul un governo filo-indiano ed inoltre perse il controllo del proprio territorio sul quale gli Stati Uniti furono autorizzati ad agire liberamente. Il senso della politica di Washington, in Pakistan ed in generale in tutta l’area, venne spiegato chiaramente dal colonnello Lawrence Wilkerson che fu capo dello staff di Colin Powell. Il 22 agosto del 2018 egli dichiarò: ‘siamo in Afghanistan per lo stesso motivo per cui eravamo in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale. Vogliamo essere il più vicini possibili alla BRI (Belt and Road Initiative). Se dobbiamo colpire con la nostra potenza militare possiamo farlo dall’Afghanistan. La seconda ragione è poter stabilizzare la potenza nucleare del Pakistan. Le terza ragione è che se la CIA deve montare un’operazione come ha fatto Erdogan contro Assad, il modo migliore sarebbe fomentare gli Uiguri attraverso l’Afganistan’ [pag. 102]. Queste parole, pronunciate quasi 20 anni dopo lo scoppio della ‘guerra infinita’, dimostrano la spietata determinazione con cui gli USA intervennero e che difficilmente il Pakistan avrebbe potuto, in un sistema mondiale unipolare, negare il suo sostegno richiesto.

Oggi la situazione è cambiata, il ritiro (o meglio la fuga) statunitense dall’Afghanistan dimostra come non esista più un solo Impero egemone, il mondo sta cambiando e lentamente, fra aporie e contraddizioni, sta nascendo un sistema multipolare. La figura di Imran Khan, nuovo leader pakistano, può essere colta solo in questo quadro. La vittoria elettorale di Khan è figlia di una domanda che chiede maggiore giustizia sociale sul piano interno, mentre in camopo internazionale chiede una maggiore cooperazione con la Cina. Come giustamente sottolinea l’Autore ‘non sorprende, dunque, che tra i principali riferimenti intellettuali di Imran Khan […] compaia anche una personalità come Ali Shariati’ [pag. 123] originale figura di intellettuale che tentò di unire le idee socialiste alla religione islamica. In questa nuova fase la politica estera pakistana è segnata principalmente da due scelte. La prima è il ‘Corridoio Economico Sino-Pakistano’ tassello fondamentale della nuova via della seta, la seconda è stata l’ingresso nello SCO (del quale fa parte anche l’India).

L’aver collocato il Paese dentro il quadro multipolare in stretta sintonia con Cina e Russia rafforza il Pakistan rispetto all’influenza dell’India, tema quello dei rapporti con Nuova Delhi che chiude il bel libro di Daniele Perra.