La geofilosofia con Lev Gumilëv. Luigi Zuccaro

di Marco Pondrelli

L’Eurasia non ha oggi una connotazione geografica ma politica, purtroppo anche a sinistra essa sta diventando sinonimo di rossobrunismo, improbabili intellettuali inorridiscono davanti a questo termine ignorandone, evidentemente, i tanti significati che gli vengono assegnati.

Nessuno nega che ci sia anche un filone, fra gli studiosi che nel tempo vi hanno dedicato parte del loro lavoro, che personalmente mi sento di definire prima ancora che anti-comunista anti-illuminista anche se non fascista. Un esempio è quello di Lev Gumilëv il quale, come scrive Luigi Zuccaro, fu ‘critico del leninismo, concepito come movimento-setta antirusso, e amante della Russia Bianca e di tradizioni slave e ortodosse, fu nemico risoluto della Rivoluzione Russa [pag. 153], questa sua impostazione unita ad una convinzione antisemita in lui profondamente radicata, non gli impedì di combattere durante la Grande Guerra Patriottica rimpiangendo, alla fine dei suoi giorni nel 1992, la dissoluzione dell’URSS. Quella di Lev Gumilëv una figura molto complessa alla cui eredità di ispira in parte Putin, la Weltanschauung che a cui si lega il pensatore russo è quella che l’Autore definisce ‘geofilosofia’ che fonde in un unicum territorio e popolo, diventa così impossibile considerare la ‘passionarietà’ del popolo russo senza pensare alle steppe.

Il ruolo e il rapporto fra popolo e tradizioni segnò anche la politica sovietica, trovo illuminante il pensiero di Luciano Canfora il quale scrisse che dopo la presa del potere i bolscevichi si trovarono “dinanzi ad un bivio: o compenetrarsi con il Paese e fare i conti con l’enorme peso della sua tradizione e della sua storia, ovvero continuare a mantenersi ‘straniero in patria’ in attesa della ‘rivoluzione mondiale’. Un dilemma che si incarna […] in due persone concrete: Trockij, ebreo, cosmopolita e fortemente internazionalista; Stalin, georgiano e convinto assertore della necessità dell’innesto nel concreto terreno di ‘un Paese solo’ del credo comunistico”1. L’apertura alla chiesa ortodossa di Stalin non si spiega solo con la volontà di allargare il fronte patriottico ma anche per legare l’esperienza sovietica alla storia russa. Il marxismo non può proporre lo stesso modello per tutti i Paese, come nota l’Autore, quella di Mao Tse-tung in Cina fu ‘una rivoluzione nazionale antimperialista’ [pag. 117].

Accettare le proprie radici non vuole dire rifiutare il progresso o l’emancipazione, le posizioni di Dugin che vedono nella rivoluzione bolscevica il tentativo delle idee illuminista di arrivare in Russia sono oggettivamente reazionarie. Queste sono posizioni estranee alla prassi marxista. Allo stesso tempo quando Dugin parla di fondamento spirituale pone un tema su cui anche i marxisti devono riflettere, sebbene la risposta debba essere diversa, la domanda è ben posta. Così come Zjuganov dopo l’89 ha ripensato l’esperienza comunista russa allo stesso modo la Cina oggi assieme al rafforzamento ideologico marxista unisce la riscoperta di Confucio. Rinunciare all’assalto occidentale è giusto ma occorrono anche valori alternativi, in Cina l’apertura al mercato non può tradursi nella costruzione di una società consumista. Questa è la sfida politica che la Cina ha oggi di fronte a sé.

Dall’altra parte il rapporto sempre più stretto fra Cina, Russia e Iran è un segnale geopolitico per contrastare la forza egemonica statunitense volta a creare le condizioni perché nasca un mondo multipolare. Un mondo multipolare darebbe ai comunisti ovunque collocati un maggior spazio di manovra e rappresenterebbe una battuta d’arresto per l’imperialismo a stelle e strisce.

Note:

1Canfora, Luciano; Pensare la Rivoluzione Russa, Stilo Editrice, Modugno (Ba), 2017, pag. 102-103

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