Kosovo 1999. Albanesi e Milizie kosovare albanesi di Autodifesa che hanno lottato per la Jugoslavia. Enrico Vigna

di Marco Pondrelli

I recenti avvenimenti che hanno portato ad una crescente tensione in Kosovo rendono il libro di Enrico Vigna (di cui spesso il nostro sito ospita i puntuali e approfonditi interventi) ancora più interessante. Vigna ricostruisce il prima e il dopo dell’intervento della Nato (mai autorizzato dall’ONU) in Jugoslavia. Ripensando al 1999 possiamo constatare come anche la sinistra comunista e/o d’alternativa prese posizioni quantomeno ambigue. Ricordo personalmente il dibattito interno al PRC con molti compagni che sostenevano l’UCK, esattamente come oggi si paragonano i nazisti dell’Azov ai partigiani italiani allora si esaltava una banda di terroristi, tagliagole e trafficanti di droga, come combattenti per l’autodeterminazione (ovviamente citando Lenin senza averlo capito).

Il libro di Vigna ci spiega che le cose sono andate diversamente, iniziando da un dato semplice e incontrovertibile, la maggioranza delle vittime dell’UCK sono stati albanesi. Erano albanesi che avevano la ‘colpa’ di non volersi schierare contro il proprio legittimo governo o semplicemente ‘colpevoli’ di lavorare per il governo jugoslavo. L’Autore non si limita a elencare dati e numeri ma da voce alla vittime, ne racconta le storie, come quella di Saban Fazliu che testimoniò all’Aja e, per non farlo andare al processo, l’UCK rapì e uccise la figlia di 17 anni [pag. 53].

L’UCK che ha portato il terrore nelle terre che secondo alcuni stava liberando, si è finanziato con il traffico di droga, che veniva contrabbandato dall’Afghanistan. Come scrive Vigna ‘la Narco-Mafia albanese ha sempre avuto una rete di contrabbando estremamente potente nel mondo, composta principalmente da albanesi del Kosovo e Methodija’ [pag. 69]. Questa operazione avvenne sotto l’egida della Nato e della CIA come ampiamente dimostrato [pag. 72], come possa una certa sinistra avere visto in questi criminali al soldo degli USA dei rivoluzionari è da una parte sorprendente, dall’altra spiega molto bene come una certa sinistra sia oggi ridotta.

Nelle settimane precedenti la guerra i mezzi di comunicazioni erano intenti a spiegarci che centinaia di migliaia (se non milioni) di civili stavano scappando dal Kosovo verso l’Albania, purtroppo gli stessi giornalisti che per 8 anni non hanno visto quello che accadeva in Donbass, non si accorsero dei serbi e degli albanesi che scappavano verso Belgrado. Dopo la guerra (quella combattuta con l’uranio impoverito) il terrore non si è fermato, la KFOR si è rivelata impotente (o complice) di quello che successe dopo, come scrive l’Autore ‘gli omicidi si verificarono a un ritmo spaventoso. Indifese signore anziane vengono strangolate a casa loro. Giovani ragazze vengono rapite e inviate nei bordelli europei. I bambini saltano in aria per le bombe a grappolo inesplose lanciate dalla NATO. Intere strade vengono saccheggiate e poi bruciate. Le suore vengono violentate. A più di una dozzina di agricoltori che curano i loro raccolti tagliano la gola delinquenti vestiti con uniformi dell’esercito britannico’ [pag. 106]. Il Generale canadese in pensione Lewis MacKenzie definì quella guerra e il riconoscimento del Kosovo ‘atti folli’ [pag. 114], alla luce di questi racconti non si può che convenire.

La follia terrorista dell’UCK sostenuta dagli Stati Uniti ha rappresentato un arretramento sociale e culturale. Nella Jugoslavia il Kosovo era tutelato non solo da un punto di vista economico ma anche culturale, con il riconoscimento della lingua e la difesa delle tradizioni popolari. Inoltre va detto che la maggioranza dei ruoli dirigenti locali erano assegnati ad albanesi. Come il colpo di Stato del 2014 ha rappresentato una involuzione per l’Ucraina anche da un punto di vista economico (oltre che ovviamente politico) anche in Kosovo il terrorismo ha portato ad un arretramento.

Il bel libro di Vigna di conclude con il racconto di una fossa comune con 300 corpi di serbi uccisi dopo la guerra della NATO [pag. 175], i serbi rapiti venivano portati nei campi di Kukesh e Trpoje, da qui i più sani venivano inviati a Burel, nell’Albania centrale, dove gli venivano espiantati gli organi. La fonte di questa notizia è l’ex procuratrice svizzera Carla Del Ponte, non certo una sostenitrice dei diritti della popolazione serba. Una pagina orribile su cui regna il silenzio mentre siamo stati subissati da notizie (false) sulle fosse comuni di Račak o di Bucha, un motivo ulteriore per leggere questa contributo di Enrico Vigna.

Probabilmente è l’insieme di tutti questi motivi alla base di quella che si chiama ‘JUGONOSTALGIA’, che rafforza il dolore per la distruzione di un grande esempio di convivenza.

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