
di Marco Pondrelli
Il libro curato per Mimesis da Francesco Galofaro e Paolo Sorrentino è un importante contributo che aiuta, ricorrendo ad una prospettiva semiotica, ad affrontare la realtà che sta condizionando la nostra vita. Come scrive Paolo Giovannetti nella prefazione ‘‘libri come il presente sono […] necessari: analisi teoriche anche problematiche e persino discutibili (davvero la guerra è ineliminabile, come qui viene a volte affermato?), studi di caso, il coraggio di mettere in gioco quella nozione di conflitto che motiva in modo forse archetipico le nostre concezioni del racconto’ [pag. 9].
Come definire la guerra e come definire la pace non sono solo questioni che riguardano gli accademici ma riguardano tutta la società e tutti i cittadini. Nell’introduzione gli Autori iniziano affermando che ‘la pace sembra dotata di uno statuto semiotico residuale: il nostro mondo, il mondo della vita che fa da collocazione per la nostra esperienza quotidiana è un mondo in conflitto; le culture hanno bisogno del conflitto per funzionare, alimentarsi, autorappresentarsi e raccontarsi. La pace subentra solo alla conclusione delle fiabe: quando c’è pace non c’è racconto, quando c’è racconto non c’è pace’ [pag. 13]. È un affermazione che può richiamare il saggio di Ugo Volli, il quale afferma che la pace è assenza di guerra, sostenendo inoltre che ‘se la guerra è una storia di cui la pace è parte (non due concetti contrapposti), la scelta di chi assiste a un conflitto bellico non è fra volere guerra e pace, ma fra (almeno) due diverse narrazioni della guerra, due diverse suture, due diversi ruoli attoriali (attacco vs difesa; invasione vs. resistenza)’ [pag. 238]. Sulla scorta di questa riflessione si può dire che anche ad una vittoria nazista nella seconda guerra mondiale sarebbe seguita una pace ovverosia un’assenza di guerra, questo però non ci può portare a definire questo ipotetico scenario come giusto o positivo.
Una simile impostazione non richiama solo Eraclito ma anche Carl Schmitt. Per il giurista tedesco (sostituendo alla guerra il caso d’eccezione) il nuovo ordine che nasce dal conflitto racchiude in sé questo stesso conflitto, negando ed espungendo dal nuovo ordine il nemico sconfitto si sta affermando e legittimando il potere. Se assumiamo questo punto di vista non si può non condividere ciò che scrive Giorgio Borrelli: ‘il celebre adagio clausewitziano potrebbe quasi essere invertito, dicendo che la politica – o, in questo caso, il diritto internazionale – è il proseguimento della guerra con altri mezzi’ [pag. 90].
A questo punto si potrebbe cadere nella fallace tentazione di vedere nella guerra una distruzione creativa, il compito degli intellettuali, prima ancora che dei politici, dovrebbe invece essere quello di offrire alternative al conflitto. Purtroppo guardando intorno a noi la questione si pone in termini molto diversi, lo chiarisce molto bene nel suo saggio (Totemismo delle armi. Dal welfare al warfare) Tiziana Migliore, che afferma ‘è quasi impossibile non rimanere di stucco o indifferenti di fronte a esternazioni che associano le armi alla salvezza’ [pag. 133]. Una rapida scorsa ai giornali italiani ci dimostra che la parola ‘guerra’ è divenuta di uso quotidiano, e non certo che stigmatizzarla, solo alla vigilia delle due grandi guerre del Novecento c’era stato un uso così disinvolto di questo termine. Dall’inizio del XXI secolo il mondo è stato sconvolto da innumerevoli conflitti, questo ha contribuito a cambiare il discorso politico, la guerra non è rimasta confinata in regioni lontane ma è arrivata da noi, anche se non con la violenza delle armi (sarebbe più corretto dire non solo con la violenza delle armi visti i tanti attentati terroristici che molti stati europei hanno subito) Quando l’allora Ministro degli Esteri del secondo governo Prodi, Massimo D’Alema, si spese per l’abolizione della pena di morte un grande intellettuale, Danilo Zolo, fece presente la contraddizione di un mondo di guerra che esporta lo sterminio di massa (Iraq e Afghanistan) ed allo stesso tempo vuole abolire la pena di morte.
Il testo non si limita ha porre domande e questioni rilevanti come quelle, ma anche altre, brevemente accennate. Come sottolineano gli Autori nell’introduzione richiamando il saggio di Paolo Bertetti (Un modello di fratellanza cristiano-mussulmana. Paolo Dall’Oglio e la comunità di Deir Mar Musa) i confini non devono essere per forza luoghi di scontro ma possono trasformarsi in luoghi di incontro ‘si tratta di “mettersi nei panni dell’Altro”, dell’avversario, per comprenderne le motivazioni e gli obiettivi’ [pag. 40]. Non è semplice ‘mettersi nei panni dell’Altro’, quando si definisce Putin un tiranno folle e sanguinario si sta dicendo che la Russia non ha una strategia politica, non ha obiettivi se non soddisfare l’anelito di sangue del suo Presidente, se si aprisse un dibattito su cosa vuole la Russia e perché lo vuole allora si potrebbe cercare un confine nel quale incontrarsi.
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