di Marco Pondrelli
Il lettore mi consentirà di iniziare la recensione di questo libro con un ricordo personale. Quando come Assessore della Provincia di Bologna mi trovai a portare un saluto alla fondazione Marconi che celebrava i 100 anni del nobel all’inventore bolognese, lo feci citando un editoriale che Guido Rossi aveva appena scritto su ‘il sole 24 ore’. Nel commentare l’audizione del CEO di Apple davanti alla commissione del Congresso l’insigne giurista notava che l’azienda di Cupertino aveva potuto eludere il fisco spostando la tassazione dei proprio guadagni in Irlanda, perché le possibilità aperte dalle nuove tecnologie aprivano dei buchi nella legislazione statunitense. I computer e la rete erano stati più veloci dei legislatori. Dobbiamo forse accusare l’inventore della radio di essere, almeno in parte, responsabile delle scelte fiscali di Apple? La cosa mi sembrerebbe alquanto ingenerosa ma merita un approfondimento, che il libro di Burgio, Leoni e Sidoli ci permette.
Qual è la nostra idea di progresso? Pensiamo che sia positivo oppure come sosteneva Rousseau che esso corrompa l’uomo? La chiusura del libro non lascia dubbi sul punto di vista degli Autori laddove essi affermano ‘in ultima analisi il succo fondamentale del prometeismo si ritrova proprio nella volontà e nella coscienza della possibilità di esaltare le migliori qualità e doti dell’uomo’ [pag. 292]. Il mito di Prometeo è alla base di questo libro, esso rappresenta ‘l’impegno e la lotta concreta (individuale/collettiva) tesa a superare i limiti endogeni e gli ostacoli esterni che frenano o bloccano il processo di espansione della potenza/informazioni umane’ [pag. 29]. Il progresso è quindi uno strumento per l’emancipazione ed il miglioramento delle nostre vite.
Nonostante questo è un errore pensare che le critiche al prometeismo, per quanto errate, siano prive di fondamento. Ci troviamo in una società altamente tecnologizzata, si potrebbe affermare che nei nostri tempi è ‘il costrutto che agisce il costruttore’, ciò a voler significare che tutto quello che abbiamo costruito determina le nostre vite e non viceversa. Pensiamo ai mercati finanziari, sappiamo che oltre il 90% delle operazioni sono prodotte da un algoritmo e non da decisioni umane. Fra le molte citazioni degli Autori compaiono i due film Blade Runner (personalmente non condiviso il giudizio entusiastico sul secondo ma de gustibus…) ma è il Terminator di Cameron che in questo caso mi sembra appropriato, perché come nel Golem o in Frankenstein, siamo in presenza di una entità creata dall’uomo (Skynet) che si emancipa e si ritorce contro il suo o i suoi inventori.
Sarebbe semplice rispondere a queste osservazioni riferendoci ai miglioramenti che la tecnologia ha portato, pensiamo alla medicina, dall’utilizzo del vino come principale medicina ci siamo indubbiamente evoluti arrivando a curare malattie che un tempo non sapevamo neanche diagnosticare. Dall’altra parte si potrebbe obiettare che ci sono zone del mondo (ad esempio l’Africa) in cui si continua a morire per malattie curabili o si potrebbe fare notare che l’inquinamento delle nostre città provoca esso stesso delle conseguenze nefaste sulla nostra salute.
Premesso che condivido le conclusioni espresse nel libro tenterò di articolare il perché condiviso una visione positiva ed ottimistica sul progresso. Quando Karl Marx ed Friedrich Engels scrissero ‘Il Manifesto del Partito Comunista’ avevano due avversari: da una parte coloro che avversavano il progresso guardando al passato, è una posizione che ebbe molti epigoni anche successivi a Marx, pensiamo a Kropotkin (1842–1921) che vedeva nei comuni medioevali un modello a cui ispirarsi. Dall’altra parte c’erano gli entusiasti del progresso, che non vedevano le distorsioni che esso portava con sé (pensiamo alle pagine che ne ‘Il Capitale’ Marx dedica al lavoro nelle fabbriche a partire da quello minorile). Questa posizione è quella che gli Autori definiscono come prometeismo elitario.
Le pagine che esaminano, dagli sciamani per arrivare ad oggi, i rappresentanti di questa posizione sono molto dense. In particolare, a mio avviso, vanno sottolineati i passaggi su Nietzsche per due motivi: il primo è perché qui viene ripreso l’importante lavoro di Domenico Losurdo sul pensatore tedesco, il secondo perché oggi in campo accademico il nome di Nietzsche è pressoché intoccabile. La sua difesa del prometeismo elitario o classista è esemplificata dell’idea di ‘superuomo’ che si incarna nell’accettazione della schiavitù. Quest’ultimo tema non può essere derubricato a metafora, quando nell’Ottocento si parlava della schiavitù si parlava di un tema concreto dibattuto in tutta Europa e non solo, ricordiamo che il 1861 è l’anno in cui scoppia la guerra civile americana ed è anche l’anno della liberazione dei servi della gleba in Russia.
Di fronte a questa contrapposizione possiamo ritrovare un approccio hegeliano in Marx il quale cerca di trovare ‘la rosa del bene nella croce del presente’. Questa è la base del prometeismo ‘rosso’, Pasolini distingueva fra sviluppo e progresso, il primo termine a cui dava una connotazione negativa (di destra) era riferito ad un miglioramento tecnologico che non diventava progresso sociale rimanendo circoscritto alle classi possidenti, il progresso invece era un allargamento della base di chi poteva godere dei progressi tecnologici che diventavano così progressi sociali. Questa contrapposizione è il nocciolo del libro, scrivono gli Autori ‘nel mito classico la figura di Prometeo non odiava solo ״gli dei״ e lo sfruttamento/dominio sugli uomini, ma il nobile titano agiva e lottava proprio a favore del processo di sviluppo del genere umano’ [pag. 127]. Sottesa a questa affermazione ve ne è un’altra, che nega alla radice l’affermazione che ha aperto questo articolo non è il costrutto che agisce il costruttore, perché vi è sempre una scelta soggettiva. Questo vale anche per l’esempio delle operazione finanziarie, così come è vero che gli algoritmi si possono modificare o bloccare, è vero sono che gli hedge fund diretti da persone in carne ed ossa indirizzano gli ‘umori’ dei mercati.
Un esempio ancora più chiaro è la ricerca sul nucleare, essa può produrre armi in grado di cancellare l’esistenza umana sulla terra, può produrre energia oppure può essere usata negli ospedali per diagnosticare malattie. Alla base c’è dunque una scelta, ecco perché per gli Autori il prometeismo può essere ‘nero’ o ‘rosso’. La nostra civiltà è la prima, nella storia, dell’umanità che gode di questo potere. Da una parte essa può, come detto, distruggere sé stessa dall’altra può migliorare la propria esistenza, l’aumento della nostra potenza aumenta le nostre responsabilità.
Costanzo Preve sosteneva che nel collegare Marx ed Hegel Marcuse arrivava a connotare ‘l’epoca presente come l’epoca della (possibile in senso aristotelico) fine dell’utopia, in quanto il livello della produttività agricola ed industriale potrebbe decretare sia la fine della scarsità e della penuria sia l’equa distribuzione a tutti gli abitanti della terra della produzione sociale, e se questo non avviene non è più per ragioni ”naturali”, ma è ormai esclusivamente per ragioni sociali1‘. Se pensiamo alla storia della civiltà umana notiamo che fino all’avvento dell’età contemporanea la fame era sempre stata legata alle condizioni naturali (siccità, glaciazioni, inondazioni, ecc…), oggi invece la fame e la povertà sono figli di una diseguale redistribuzione delle ricchezze, sono quindi figli di una scelta politica e di determinati rapporti di classe. È questo il motivo per cui personalmente definisco ‘Il Capitale’ un libro esplosivo, perché se le teorie marxiane divengono patrimonio collettivo il sistema di rapporti di produzione vigente può essere ribaltato. Il libro di Burgio, Leoni e Sidoli è un contributo a questa battaglia.
Note:
1Preve Costanzo, Karl Marx. Un’interpretazione, NuovaEuropa, Milano, 2018, pag. 144.