Ho ancora le mani per scrivere. Testimonianze del genocidio a Gaza. A cura di Aldo Nicosia, Edizioni Q, 2025

recensione di Mariella Cataldo

“Noi scriviamo per preservare la mente. Sapete che una macchina si rompe se smette di girare? […] Facebook è il nostro giardino, il nostro teatro, la nostra spiaggia, il nostro bar, il cinema, la biblioteca e tutto ciò che ci resta” (Shuja al Safadi, 2 luglio 2024). Chissà se Shuja, che ha scritto queste parole da Gaza è ancora viva o giace insepolta sotto i cingoli di un carro armato israeliano!

In questo libro Aldo Nicosia, docente di letteratura araba all’università di Bari, ha raccolto e tradotto, con l’aiuto prezioso dei suoi alunni e colleghi, messaggi su facebook che gli abitanti di Gaza lanciano al mondo via etere perché il mondo non si dimentichi di loro. 

Questi messaggi sono come la scia luminosa di una stella lontana che, esaurita la sua energia, lancia al mondo l’ultimo segnale prima di essere inghiottita nel buco nero dell’universo. Il bisogno di scrivere è una terapia contro chi è convinto di vivere “nella canna di una pistola silenziata, il viaggio in un pozzo abbandonato in cui non ci sono foglie”. I messaggi esprimono la consapevolezza della condizione di chi sente di “non essere abbastanza debole da perdere la testa né abbastanza forte da restare equilibrato” di fronte a tutto questo (Sumayya al Wadi, 24 luglio 2024). 

Temo che questo sia un libro dei morti piuttosto che dei vivi: chissà quanta strada ha fatto in un anno la Morte che ha falciato bambini, vecchi, donne uomini, partigiani, giornalisti, operatori stranieri. Lo si potrebbe definire una Spoon Riverorientale in cui ognuno racconta la sua storia che fu.

È il libro che proviene da una terra in cui “la morte è un contatore che non riesce a fermarsi” (Ala’ Matar, 18 giugno 2024), scritto da un popolo ridotto alla condizione di avere come unica preoccupazione quella di andare alla ricerca di una briciola di pane e di una goccia di acqua, costretto a bere acqua e fango che si deposita nel fondo del bicchiere come storia antica, “come una clessidra che attendiamo che finisca”. In questo fango ci sono i resti di popoli antichi, resti di corpi che avevano vita e ricordi, di case diventate macerie. “Ma è giusto bere l’acqua sporca della storia? Bere la memoria della terra?”, si chiede Maryam Qawash il 22 luglio 2024. 

Si racconta di una“Gaza sepolta viva […] colpita dalla magia nera, che ha bisogno di una bacchetta divina che annulli il male che le hanno fatto, perché possa riprendersi dalla malattia” (Shuja al Safadi, 30 giugno 2024). 

È una Gaza “la cui sceneggiatura è arrivata direttamente dall’inferno” (Karim Abu Dahi, 31 maggio 2024), in cui “tutti coloro che stanno fuori dalle tombe sono morti, tutti coloro che ci abitano dentro sono vivi” (dr. Asma’ Hamid Abu Musa, 8 giugno 2024) e dove “se la tristezza fosse cibo, nessuno qui rimarrebbe affamato perchè abbiamo abbastanza per sfamare l’intero pianeta e quelli vicini” (Ahmad Murtaja, 10 giugno 2024). 

È una Gaza dove, nonostante “rovine e macerie diventino elementi abituali del quartiere” (‘Ala ‘Na’im al-Ghoul, 21 dicembre 2023), Ibrahim Matar si chiede se “ci si potrà ritrovare ad ascoltare musica in riva al mare di notte, insieme agli amici […] o alla caffetteria, o rivedere il mercato dove mangiare i panini di falafel o si potrà tornare a seguire le lezioni dell’università per poi godere l’aria condizionata naturale che proviene dal mare?” (24 dicembre 2023).

È la Gaza in cui” l’anno scolastico non è finito perché in realtà non è mai cominciato” (Ahmad Fathi Qudaih, 30 maggio 2024). 

È una Gaza che mantiene ancora intatti i suoi cinque sensi grazie al potere evocativo della memoria mescolata alla nostalgia (nel senso letterale della parola: dolore che ritorna). 

È l’odore dell’aria: “nonostante la polvere e l’esplosivo, l’aria si è impregnata della corteccia degli alberi che sono stati disintegrati dalla potenza delle bombe” (‘Ala ‘Na’im al-Ghoul, 11 giugno 2024). 

È l’orrore, provocato dalla vista di un geco sotto una tenda, che probabilmente fa più paura del carro armato e che fa dire a Karim Abu Dahi: “se ci fosse un’unità di misura per il dolore, sarebbe indiscutibilmente Gaza” (12 giugno 2024). 

La potenza evocativa della Nostalgia porta alla memoria le feste dell’Aid, con le grida dei bambini che giocano per strada, dove cavalli e motociclette a noleggio s’incrociano. Lì “i colori respirano sui corpi dei ragazzi”. Nell’Aid ci sono scambi di visite tra gli amici e si può assistere alla sfilata di colori sulle vie del porto dove c’è gran traffico di auto e clacson su via Umar al Rashid. A Gaza si è “conosciuto il significato del colore. Ma poi li abbiamo persi e siamo tornati al bianco e nero” (Ahmad Basyuni, 16 giugno 2024). Così il venerdì:voci di bambini in strada, colazione: crema di fave,falafelhumus; pranzo: fatta, zuppa del venerdì, maftul. L’odore dell’incenso si mescola a quello dei cibi e ai suoni percepiti dalla finestra dove penetra il canto della moschea dei versetti del Corano. 

A Gaza si confondono per l’aria suoni, colori, odori. I cinque sensi diventano così la sentinella della riserva indiana della memoria in cui i gazawi si sono rifugiati per continuare ad esistere perché essi sanno che “la vita è un’anima che non può esistere senza la memoria” (‘Ala ‘Matar, 18 giugno 2024). Una memoria però, troppo sporca di storia, storia scritta da altri, per rimediare a colpe ingiustamente scaricate sul popolo palestinese. “Ah se si potesse ripulire così la memoria strofinandola con la sabbia per dimenticare” (Maryam Qawash, 4 settembre 2024). “Ogni venerdì silente è un anno di pena per il mio cuore” (Dima Hani, 21 luglio 2024). 

Questo è il racconto di un popolo che, nonostante l’anormalità esistenziale che vive ogni giorno, ha la forza di apprezzare i rari momenti di normalità come eventi a cui dare il giusto peso, come per esempio il giorno delle vaccinazioni dei bambini, che ha la solennità del giorno della consegna dei diplomi a scuola, appuntamento a cui i bambini si presentano con l’abito buono della festa. 

Nella disumanizzazione della loro condizione, rimane posto per il sentire la pena dell’asino frustato perché sfiancato, non ce la fa più a portare un popolo da un punto all’altro della sua prigione a cielo aperto col suo bagaglio di dolore e umiliazioni continue. 

“Quale male abbiamo commesso per meritarci tutta questa sofferenza”? “Se la lingua fosse un uomo colto sarebbe il primo a fuggire da Gaza, sconfitto dalla sua stessa incapacità di raccontare ciò che accade” (Ahmad Murtaja, 12 marzo 2024). Già, perché a Gaza va in scena l’“lNDICIBILE”. ed esso non si può dire con le parole! Le parole hanno perso di significato e sono un puro, nominalistico, flatus vocis. “Tutti noi saremmo dovuti morire da bambini per non vedere le parole perdere di senso come gli esseri umani”, scrive Ahmad Murtaja il 18 giugno 2024. 

A Gaza le lacrime hanno preso il posto delle parole e, “per ogni lacrima vi è un racconto, per ogni volto una mappa del dolore, per ogni cuore una battaglia sanguinosa, per ogni vittima un lungo viaggio di dissanguamento” (Shuja ‘al-Safadi, 16 luglio 2024). “Amo i vecchi luoghi per i ricordi, anche se mi hanno ucciso nel giorno del mio addio” (Mu’ayyad Wishah, 21 luglio 2024). 

Già, gli addii e i ricordi, l’andare oltre, ma per andare dove quando si scappa “di morte in morte”? (Ahmad Fathi Qudaih, 28 giugno 2024), scappare dove, quando “le valige sono troppo piccole per infilarci la città” (Karim Abu Dahi, 28 giugno 2024) e l’asino lo devi frustare a sangue perché non ce la fa più a portare il tuo e il suo dolore?

La tentazione di andare via è grande e scava dentro come un tarlo: “prima o poi lascerò questo paese […] non costruirò altre case e non farò altri figli, cosicchè nessun imbecille possa portarli via davanti agli occhi in un battito di ciglia” (Ahmad ‘Adwan, 7 luglio 2024). 

“Due popoli due stati”, ripete ipocritamente l’Occidente pur sapendo che in realtà, ora più che mai, non ci sono le condizioni per farlo. Ma, dove fa naufragio la realtà, viene in soccorso l’immaginazione: “L’immaginazione è ciò che rimane, un muscolo instancabile, l’immaginazione è i caffè degli estranei, gli specchi dell’inconscio e le biblioteche dei prigionieri. L’immaginazione è ciò che resta per costruire una patria dal nulla” (Naser Rabah, 24 luglio 2024). 

Quale patria per un popolo che prima poteva vantare il più gran numero di laureati e a cui ora hanno distrutto gli asili, scuole, università? Un popolo a cui hanno distrutto l’intellighentia, quale futuro nucleo per la costruzione di una entità statuale? Un popolo costretto alla mendicità, che ha come unica preoccupazione quella di “andare alla ricerca di un briciolo di pane e una goccia di acqua” (‘Uday al-Hasanat, 2 gennaio 2024) perché “la patria è il luogo dove sussistono gli elementi essenziali per poter vivere non per morire” (Nabil Abu Sharaf, 9 giugno 2024). “Come fa un individuo, una società, a passare dal rivendicare uno stato al chiedere, litigando pure, una sigaretta?” (Mahmud Joudeh, 12 agosto 2024).

La menzogna più grande è che si muore per i bombardamenti: “La verità è che noi moriamo per lo sfollamento, moriamo nelle tende, per la fame, la sete e le malattie. Moriamo mentre la nostra dignità viene calpestata e umiliata. […] Il cielo è diventata la nostra coperta e la sabbia il nostro tappeto e il nostro letto” (Sama Hasan, 24 luglio 2024) con “l’augurio di morire tutti quanti in una volta per non dispensare un dolore a chi sopravvive (dr. Mahmud ‘Assaf, 21 agosto 2024). 

“L’energia dei nostri figli dava luce a tutto il pianeta. […] volevamo che si presentassero alle soglie del sogno e non che facessero la fila per un po’ d’acqua” (Fedaa Zeyad, 29 luglio 2024). 

Quanti secoli ci vorranno perché il popolo palestinese possa elaborare il lutto di quanto gli è successo? “Perdere qualcuno significa perdere l’immaginazione e la percezione delle cose, significa smarrirsi nei pensieri, vicini e lontani allo stesso tempo. Il lutto è un’angoscia che non senti nel momento della morte, ma vivi finché non muori” (Hussein Jaber, 10 agosto 2024). 

Attraverso questo intensissimo libro scritto da tutto il popolo di Gaza vediamo un popolo martoriato dalla belva sionista, che nel suo athanor di moderno Mefisto ha escogitato tutti i più sofisticati modi di infliggere sofferenze non solo fisiche ma morali e psicologiche ad un popolo fratello, costruendo un sistema scientifico di sofferenze, che non ha nulla da invidiare alla “ banalità del male” della belva nazista. L’azione dello specchio ustore di una memoria urticante, agisce come catarifrangente di immagini trasmesse dai loro scritti che ci giungono da quell’inferno e vanno dritte al cuore. Esse dovrebbero farci riflettere e aiutarci ad uscire dalle trincee dell’indifferenza in cui ci siamo rinchiusi perché incapaci di dare una risposta a quelle mani di bimbi che invece che aquiloni, alzano al cielo pentole vuote, a quegli uomini che passano nel tunnel del filo spinato come belve drogate del circo, a quella madre che, intenta ad ascoltare il pianto di altri bimbi, non sentì il pianto dei suoi nove figli che la morte le rapì in un istante. 

L’assurdo è che i palestinesi hanno continuato a mantenere i cinque sensi grazie alla memoria, al contrario di noi. Nella nostra trincea dell’indifferenza che ci protegge dai coinvolgimenti e sensi di colpa, siamo noi ad aver perso i cinque sensi, soprattutto il senso dell’udito, che ci impedisce di ascoltare le urla di un popolo che bussa alle pareti della cisterna infuocata da un secolo (come nel famoso romanzo di Ghassan Kanafani). 

Nel sonno secolare della ragione, il guardiano del faro della civiltà si è addormentato e non ha visto i segnali di SOS che provenivano dalla nave perduta nella notte nera dell’umanità e, nel frattempo, dall’ampolla del diavolo sono usciti i demoni che ormai dilagano tra noi. Questi demoni che abbiamo visto coi loro occhiali scuri e biondi ciuffi e chignon in prima fila a salutare Francesco, sono quelli che cercano di convincerci che la storia sia cominciata il 7 ottobre, parlando di diritto alla difesa di Israele e si arrampicano come ipnotizzati funamboli sul filo della “diplomazia” e “perplessità”, promettendo improbabili “due popoli e due stati” e via dicendo. 

Infine, uno splendido messaggio poetico che, come un fiore di campo, raccogliamo tra i cadaveri e le rovine nel prato di questa prigione chiamata Gaza e che conserveremo in un libro, nella speranza che pur reciso, possa continuare a spargere il suo profumo per le strade del mondo: “Se io devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia, vendere le mie cose, comprare un pezzo di tessuto e dei fili (fa’ che sia bianco e con una lunga coda), perché un bimbo da qualche parte a Gaza, mentre fissa il cielo, aspettando suo padre che se n’è andato all’improvviso, senza dire addio a nessuno, neppure alla sua carne né a se stesso, veda l’aquilone, il mio aquilone costruito da te” (Ala’al-Qatrawi, 30 giugno 2024).

[Ho ancora le mani per scrivere – Testimonianze del genocidio a Gaza

a cura di Aldo Nicosia, Edizioni Q, 2025]

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